Leopardi e la scienza

Con Il giovane favoloso di Mario Martone, nel 2014 il cinema si è (finalmente) accorto di Giacomo Leopardi, uno dei grandi della letteratura non solo italiana di ogni tempo. Il film è molto bello e si è conquistato ben dieci minuti di applausi quando è stato presentato al Festival di Venezia. Il ritratto del poeta di Recanati è riuscito, tanto nella psicologia quanto nella filosofia. Tuttavia, se ci è concesso indicare una mancanza, nel ritratto proposto con maestria da Mario Martone manca la scienza.

Non è una mancanza da poco. Perché la scienza è un (forse è il) punto di riferimento costante nella vita e nell’opera del più grande poeta italiano dell’epoca moderna, Giacomo Leopardi. La tesi potrebbe suonare paradossale per chi ha frequentato il poeta di Recanati sui libri del liceo e lo ha conosciuto come critico radicale, sferzante fino al sarcasmo, di quelle «magnifiche sorti e progressive» vagheggiate dal positivismo tecnologico.

In passato anche la grande critica ha definito «strana e irragionevole» la pretesa di cercare nel lavoro del Leopardi un concetto scientifico che ne sia il filo conduttore. Ma da qualche tempo, come nota Gaspare Polizzi, un filosofo che conosce Leopardi e il suo rapporto con la scienza: «gli interpreti più accorti del pensiero leopardiano non ignorano più la presenza di aspetti scientifici nella formazione culturale del giovane Leopardi, né dimenticano il valore assunto da teorie e conoscenze scientifiche in momenti significativi dell’opera poetica e della riflessione pubblica (nelle Operette morali) e privata (nello Zibaldone) di Leopardi». Da qualche tempo abbiamo capito che il percorso intellettuale di Giacomo Leopardi non è un percorso senza la scienza e neppure contro la scienza. Ma un percorso ininterrotto intorno alla scienza.

La scienza cattura il ragazzino avido di sapere mentre sfoglia a centinaia i volumi della biblioteca paterna agli inizi del XIX secolo. E non lo lascerà mai più. Non c’è soluzione di continuità negli interessi di Leopardi per la filosofia naturale. C’è invece un’incessante e profonda maturazione. Il rapporto tra Leopardi e la scienza nasce in età precoce, come riconoscono i manuali di storia della letteratura. Ma non si chiude con l’età giovanile del poeta di Recanati, né si esaurisce solo in pochi saggi o in alcuni momenti della sua opera poetica, ma si intreccia e, anzi, informa di sé l’intera vicenda letteraria e filosofica di Giacomo Leopardi: da quando, tredicenne, inizia a scrivere le prime poesie e le Dissertazioni Filosofiche (1811) fino a quando trentottenne, sul letto di morte a Napoli, nel 1837, compone il suo ultimo canto, Il tramonto della luna.

L’interesse per la scienza nasce in età molto precoce nell’immensa biblioteca paterna, ricca di 16.000 volumi, alimentato da letture di libri molto pertinenti. Tra questi due testi dell’Abate Pluche, l’Historie du ciel (1739), una storia delle cosmogonie e delle cosmologie antiche, e lo Spectacle de la Nature (1732);  l’Entretiens sur là pluralité des mondes che Bernard le Bovier de Fontenelle ha scritto nel 1724, ripercorrendo per larga parte il viaggio di Giordano Bruno nell’infinità cosmica e nella pluralità dei mondi; la prima edizione italiana apparsa nel 1791 del Trattato elementare di Chimica di Antoine-Laurent Lavoisier – a testimoniare come la domanda scientifica del giovane di Recanati non si indirizzi solo verso l’astronomia, ma spazi libera e onnivora in ogni campo della filosofia naturale.

Sta di fatto che grazie a questi libri, a una straordinaria determinazione e al fumo del genio, Leopardi trova il modo non solo di acquisire una solida e aggiornata conoscenza dei fatti scientifici più recenti e rilevanti, ma anche di costruirsi una notevole cultura scientifica. Erudizione e senso critico che iniziano a trasparire già nelle opere dell’adolescenza: le Dissertazioni filosofiche, scritte tra il 1811 e il 1812, quando Giacomo ha rispettivamente 13 e 14 anni; la Storia della Astronomia (scritta a 15 anni, nel 1813); la Dissertazione sopra l’origine e i primi progressi dell’Astronomia (scritta un anno dopo, nel 1814) e il Saggio sopra gli errori popolari degli antichi (scritto a 17 anni, nel 1815).

È dunque in questi anni ed elaborando queste opere che Giacomo Leopardi comincia a costruirsi una immagine della scienza su cui, poi, erige un’articolata, dinamica e complessa filosofia della natura, la quale a sua volta informa completamente di sé l’intera opera poetica, dai Canti (1816-1836) ai Paralipomeni (interminato, scritto a partire dal 1831), le prose (ivi incluse le Operette morali, scritte a partire dal 1821) e i pensieri filosofico-letterari affidati a un diario privato tra il 1817 e il 1832 (noto come Zibaldone).

L’evoluzione del rapporto tra Leopardi e la scienza si muove con velocità differenziali e direzioni diverse lungo almeno quattro direttrici, certo interconnesse, ma abbastanza autonome da poter essere individuate con una certa precisione.

    1. La prima dimensione è quella che potremmo definire del “senso”. Leopardi pensa e dice che la scienza spiega – è il modo migliore per spiegare – “come va il mondo”. Ma non può spiegare il “senso del mondo”. Tutto il percorso intorno alla scienza di Leopardi va letto alla luce del pessimismo cosmico la cui profondità traspare dal canto che il pastore errante dell’Asia rivolge alla Luna.
    2. La seconda dimensione è quella del “valore sociale della scienza”. Da un lato la scienza ha un valore culturale (e quindi sociale) in sé, perché con le nuove conoscenze sul mondo che continuamente produce aiuta l’uomo a spogliarsi di miti e pregiudizi. A uscire dalle nebbie dell’ignoranza. Ad andare oltre se stesso e ad acquisire una crescente dignità. Dall’altra la scienza ha un valore sociale per le possibili applicazioni, tecnologiche, delle nuove conoscenze. In età giovanile non ha dubbi. Entrambi questi caratteri sociali dell’impresa scientifica hanno una valenza positiva. Ma con la crescente percezione dei limiti della scienza e, soprattutto, con la progressiva elaborazione del suo pessimismo cosmico, cambia il giudizio intorno a entrambi gli aspetti. Ma in maniera differenziale. La conoscenza cessa di avere un valore positivo in sé. Se produce maggiore infelicità la conoscenza può far male. Anche se resta a merito della scienza la lotta alla superstizione e all’ignoranza.
    3. L’epistemologia. La scienza moderna è un combinato disposto tra teoria e verifica empirica, o, per dirla con Galileo, scienziato ammirato e per certi versi imitato da leopardi, tra “certe dimostrazioni” e “sensate esperienze”. Leopardi assume fin da ragazzino questo habitus scientifico e non lo dismetterà mai. Nel suo viaggio intorno alla scienza, da Recanati a Napoli, la sua ammirazione per il rigore scientifico non verrà mai meno. Né verrà mai meno il rispetto per i fenomeni empirici. In questo quadro va inserito anche il suo rapporto con la matematica, che molti ingiustamente ritengono di rifiuto totale.
    4. La filosofia della natura. Fin da ragazzino Leopardi riflette e matura idee sue proprie su cosa sia la scienza. Queste idee mutano, anche radicalmente, nel tempo. Ma sono sempre al centro della sua riflessione. Leggendo libri su libri, Giacomo ragazzino fa proprie in particolare due idee. La prima è che la scienza è lo strumento migliore per capire “come va il mondo”. Gli scienziati hanno gli strumenti per scoprire la verità sul mondo naturale. Certo non sapremo mai tutto, perché ci sono infinite cose da scoprire, ma grazie al lavoro degli scienziati ne sapremo sempre di più sulla natura. La seconda idea è che la filosofia della scienza allora prevalente, il meccanicismo fondato sulle leggi di Newton, sia lo strumento più adatto per realizzare l’ideale del progresso scientifico. Sono due proposizioni diverse. La seconda, in particolare, non è una conseguenza necessaria della prima. Nel tempo Leopardi modificherà entrambe queste idee, ma in maniera abbastanza differenziata. Il giovane che frequenta la biblioteca paterna è certo, come scrive Polizzi, «un fiducioso assertore del razionalismo scientifico». Ma dopo la grande crisi intellettuale che, a partire dal 1817, lo porterà a rivedere la sua concezione della natura – da spettacolo meraviglioso e comprensibile ad aspra matrigna; da luogo di esaltazione della ragione e nemica della ragione – Giacomo si rende conto che la scienza, che neppure la scienza, è in grado di dirci tutta la verità sul mondo. Perché le sfuggono molte dimensioni della realtà. Non coglie e anzi perde la complessità del mondo. Non coglie le circostanze che sono il tessuto della infinita varietà della natura. E con ciò uccide la varietà della natura. Quanto alle leggi universali della natura, sono limitate ai pochi fatti che conosciamo. Tutto il resto la scienza lo perde. Le sfugge il bello, anzi lo dissolve.

Quello che Leopardi critica è il riduzionismo, che giudica intrinseco, della scienza. La varietà della natura è così ricco, il suo ordine così complesso ed emergente dai minimi dettagli, che non è possibile fornirne una descrizione generale attraverso leggi universali. Occorre qualcosa che vada oltre la scienza meccanicista e sappia tener conto delle circostanze. Occorre, appunto, una «filosofia delle circostanze». Dopo il 1824 chiamerà «ultrafilosofia» questo qualcosa. Noi la potremmo ribattezzare battezzare “scienza della complessità”. E ricordare che, a quasi due secoli dalla proposta di Leopardi, lo studio della complessità è balzato al centro degli interessi della scienza. Il poeta di Recanati aveva visto lontano.