Neuroimmagini funzionali: nuova frontiera della conoscenza

Le neuroimmagini funzionali permettono la visualizzazione e l’analisi in vivo dei processi fisiologici e patofisiologici associati rispettivamente allo stato di normalità e a quello di malattia. Questo strumento utilizzato dalla ricerca per studiare la neurobiologia di molte malattie neurodegenerative è ormai utilizzato routinariamente nella pratica clinica e sta assumendo un ruolo sempre più preponderante nello sviluppo di nuove terapie.

La migliorata conoscenza della patofisiologia cerebrale e la possibilità propria della Medicina molecolare di rivelare, a livello intra- ed extra-cellulare, la presenza di aggregati proteici neurotossici, hanno dato nuovo impulso agli studi e alla diagnosi delle malattie neurodegenerative. Il contemporaneo avvento di nuove tecniche e metodiche di neuroimmagini permette inoltre di visualizzare il flusso, il metabolismo e l’attività corticale elettrica associati a varie malattie neurologiche e psichiatriche con alta risoluzione e definizione, consentendo l’identificazione di modelli standard di localizzazione topografica di neurodegenerazione per ogni singola malattia. Questi modelli, una volta implementati nella pratica clinica con adeguati software di interfaccia, mettono a disposizione del clinico un potente strumento nella pratica giornaliera a supporto della diagnosi clinica inducendo anche cambi sostanziali nel trattamento farmacologico e non di pazienti con demenza (Laforce 2010).

La tomografia a emissione di positroni (PET), soprattutto se associata alla tomografia computerizzata (PET-TAC) o alla risonanza magnetica nucleare (PET-RMN), e la tomografia a emissione di fotone singolo (SPECT) consentono immagini funzionali (e nel caso della PET-TAC e PET-RMN anche, contemporaneamente, strutturali) relative all’attività neuronale regionale. I radioisotopi che durante il decadimento emettono fotoni di luce poi rilevata dai cristalli della PET e della SPECT vengono legati chimicamente a dei traccianti specifici per le varie funzioni cellulari. Questi vengono iniettati nella circolazione generale e si distribuiscono nella sostanza grigia e nella sostanza bianca dell’encefalo, in modo direttamente proporzionale alla funzione che si intende studiare venendo poi localizzati nello spazio 3D del cervello da software specifici.

La PET e la SPECT nella grande maggioranza degli studi sul cervello restituiscono informazioni rispettivamente sul metabolismo e sul flusso sanguigno cerebrale. Se studiati negli stessi soggetti, questi parametri sono quasi sempre associati l’un l’altro e variano nella stessa direzione e magnitudine (Jonsson 1998, 2000). Esistono però delle differenze nella Fisica e nella Radiochimica utilizzate, che determinano la preferenza dell’una o dell’altra metodica nelle varie situazioni sperimentali e diagnostiche. Questo anche tenendo in considerazione sia la disponibilità e la possibilità di utilizzo sul territorio, sia la scelta della tecnica appropriata per lo studio di ogni singola patologia neurodegenerativa.

La PET, grazie a una geometria del sistema di rivelazione più sensibile alla luce emessa dai radioisotopi, alla migliore risoluzione spaziale e alle caratteristiche del radiotracciante più utilizzato in assoluto, il 18F-Fluorodesossiglucosio (FDG), analogo della molecola di glucosio e captato dalle cellule proporzionalmente al loro metabolismo, si fa preferire negli studi che mirano a mettere in evidenza una diminuita funzione neuronale, come nella malattia di Alzheimer (AD), la demenza fronto-temporale, le demenze vascolari e quelle a corpi di Lewy (DLB) e la sclerosi laterale amiotrofica (SLA). La PET ha, però, la necessità di utilizzare radioisotopi prodotti da un ciclotrone, spesso non disponibile presso la struttura ove si svolge l’esame.

Questo comporta il trasporto dal centro presso il quale questi vengono prodotti con alti costi e una logistica complicata. Nonostante l’utilizzo della PET sia, nella stragrande maggioranza dei casi, dedicato alle patologie oncologiche, nelle quali il radiotracciante si fissa al focolaio tumorale permettendone la sua facile identificazione, il suo impiego in Neurologia è in crescente aumento, grazie alla prossima immissione sul mercato per l’utilizzo clinico di nuove molecole per la rilevazione di aggregati proteici specifici di alcune malattie neurodegenerative come l’AD e la DLB.

La SPECT, nonostante abbia una minore sensibilità alla luce emessa dai radiotraccianti e una minore risoluzione spaziale, è molto più diffusa sul territorio della PET, e permette a costi assai minori esami di routine su praticamente tutti gli organi. Nonostante negli studi diagnostici sull’encefalo la PET sia stata da qualche anno preferita alla SPECT, quest’ultima rimane negli studi sperimentali la prima scelta per malattie psichiatriche, nelle quali esiste una necessità di valutare le alterazioni funzionali elicitando la risposta cerebrale mediante stimoli esterni da somministrarsi prima che il paziente venga introdotto nell’apparato rivelatore. Infatti per le particolari proprietà della loro captazione intracellulare, è possibile iniettare alcuni radiotraccianti SPECT fino ad alcune ore prima di eseguire l’esame, consentendo di somministrare in contemporanea lo stimolo richiesto dallo studio (Pagani 2005).

Questa caratteristica è inoltre particolarmente utile nella diagnosi dell’epilessia nella quale il radiotracciante può essere iniettato durante la fase ictale permettendo, in prospettiva di una rimozione chirurgica del focolaio epilettico, una precisa localizzazione delle strutture coinvolte.

Usando la FDG-PET, combinata con la testistica neuropsicologica, la malattia di Alzheimer è allo stato dell’arte diagnosticata con un’accuratezza tra il 90 e il 100% (Arbizu 2013), percentuale di poco superiore a quella della demenza frontotemporale. Per questa ragione è stata recentemente inserita fra i criteri diagnostici della malattia sia nella sua fase iniziale (deficit cognitivo lieve, MCI) sia in quella finale (AD) dal National Institute of Aging-Alzheimer Association (Mc Khan 2011, Sperling 2011). In questi pazienti, oltre a una estesa atrofia cerebrale, più accentuata nelle regioni ippocampali, il dato funzionale più frequentemente riportato e che caratterizza la malattia è un ipometabolismo temporo-parietale, dovuto alla neurotossicità dei due aggregati proteici che caratterizzano la malattia di Alzheimer, i depositi fibrillari di Tau e amiloide (Braak & Braak 1995). Il danno cellulare locale da essi causato si proietta seguendo le vie di connessione neuronale fisiologiche, dal lobo temporale a quelli parietale e frontale, e infine a tutto il cervello, provocando progressivi danni cognitivi (Pagani 2001).

Inoltre, l’applicazione di metodologie statistiche multivariate, come l’analisi per componenti principali o per componenti indipendenti, permette l’identificazione di circuiti neuronali correlati per flusso sanguigno e/o metabolismo (Pagani 2009). Allo scopo, si cerca di utilizzare grossi database con informazioni strutturali, funzionali e neuropsicologiche di pazienti e soggetti di controllo provenienti da centri diversi, permettendo di aumentare di molto la potenza statistica delle analisi (Morbelli 2012, Pagani 2015). Questo migliora notevolmente le conoscenze relative alle connessioni sottocorticali che sottendono alle varie malattie, svelando network neuronali importanti per comprenderne l’eziologia e le vie di disseminazione anatomica e funzionale.

Inoltre, sempre utilizzando FDG-PET e testistica neuropsicologica, numerosi gruppi di ricerca stanno studiando la malattia di Alzheimer nella sua fase prodromica, MCI, caratterizzata da un deficit metabolico iniziale nel giro del cingolo posteriore, associato a una atrofia dell’ippocampo vi si può rimanere tale o può, in una minoranza dei casi, regredire. L’identificazione di modelli di distribuzione del metabolismo corticale e sottocorticale, con i quali predire la conversione a malattia di Alzheimer nell’arco di pochi anni, ha un notevolissimo impatto sia a livello individuale che sociale (Pagani 2010). Associati agli studi sul MCI sono, nelle fasi che precedono la demenza franca, quelli sulla riserva cognitiva (Morbelli 2013). Una buona percentuale di persone con un alto livello di istruzione, e con la presenza durante la vita di altri fattori che abbiano consentito un utilizzo costante delle proprie capacità intellettive, mostra, a parità di deficit cognitivo, un livello di neurodegenerazione e un deficit metabolico superiori rispetto a quello di persone con livello di scolarità basso. Questa condizione è dovuta a una serie di connessioni funzionali tra varie regioni corticali, non presenti nei soggetti con bassa riserva cognitiva, che ottimizzano la comunicazione intra- e inter-emisferica, e suppliscono alla neurodegenerazione regionale vicariando le funzioni processate dalle regioni colpite. È stato riportato come queste persone, una volta il deficit si sia evidenziato, siano poi soggette a un declino cognitivo più rapido.

Recentemente la FDG-PET è stata utilizzata per diagnosticare una delle malattie neurodegenerative più invalidanti e con costi sociali più alti, la sclerosi laterale amiotrofica (SLA). Un gruppo di ricerca completamente italiano facente capo all’Istituto di Scienze e Tecnologie della Cognizione del CNR ha proposto un modello funzionale di distribuzione di metabolismo corticale e sottocorticale, identificato tramite una innovativa analisi loco-regionale statistico-matematica dei dati FDG-PET, il quale permette di identificare la malattia con una accuratezza diagnostica del 96% (Pagani 2014). La peculiarità di questo modello è la presenza, tra i fattori che maggiormente discriminano i malati dai soggetti di controllo, di regioni nelle quali nei pazienti è presente ipermetabolismo. Questa condizione, unica tra tutte le malattie neurodegenerative, è dovuta nella SLA alla estesa perdita di corpi neuronali e di assoni nel tratto che dalla corteccia motoria porta ai fasci spinali, perdita compensata dall’occupazione degli spazi lasciati liberi dalla morte neuronale da parte degli astrociti, indice in un primo tempo di neuro-infiammazione e poi di colonizzazione gliale dei fasci corticospinali e del mesencefalo.

Queste cellule, rispetto a neuroni presenti nella condizione fisiologica, hanno una maggiore captazione di 18F-FDG facendo risultare alla PET vaste regioni ipermetaboliche se confrontate con quelle omologhe nei soggetti di controllo sani. Un altro notevole valore aggiunto allo studio l’ha dato la possibilità, finora unica nello studio delle malattie neurodegenerative, di reclutare nello stesso centro, e studiare nelle stesse condizioni sperimentali, un numero di pazienti estremamente elevato, circa 200, un campione di soggetti normalmente presente solo in studi multicentrici. Questo ha irrobustito la potenza dell’analisi, e ha consentito di studiare con ragionevole affidabilità statistica i sottogruppi dei pazienti SLA e i sottotipi genetici (Cistaro 2014), aprendo la strada a una diagnosi non solo tempestiva della malattia, ma anche alla identificazione precoce di soggetti (parenti di malati con diagnosi certa) portatori di mutazioni genetiche e candidati a un trattamento con nuovi farmaci che agiscono sui geni coinvolti nella malattia.

Nel campo delle neuroimmagini applicate alla neurodegenerazione, l’avanzamento di conoscenza e applicazione sperimentale (e presto clinica) più rilevante è stato, negli ultimi anni, la possibilità di tracciare e rivelare in vivo i depositi fibrillari di amiloide e proteina tau. Questi ultimi sono presenti in quantità progressivamente crescenti nei vari stadi della malattia di Alzheimer (dallo stato di normalità, all’MCI, alle fasi prodromiche), nella demenza frontotemporale, nella demenza a corpi di Lewy e in altre patologie degenerative del sistema nervoso centrale di minore impatto (Braak & Braak 1995).

Per quanto riguarda i depositi extra-cellulari di amiloide, nonostante siano presenti in una percentuale variabile dal 30 al 50% a seconda degli studi anche nei soggetti normali, sono stati correlati nelle condizioni patologiche ai diversi stadi di malattia ma, soprattutto, sono funzionali a discriminare in modo chiaro le condizioni patologiche in cui l’amiloide è presente (malattia di Alzheimer), da quelle in cui è assente (demenza frontotemporale, altri tipi di demenze su base depressiva e vascolare), con un sicuro impatto sul trattamento dei pazienti.

In prospettiva sia sperimentale che prognostica, uno degli inconvenienti applicativi degli studi sui depositi fibrillari di amiloide è che questi ultimi non risultano essere associati né alla atrofia del lobo temporale mediale, né al deficit cognitivo, né agli indici clinici di demenza. Questo svantaggio è stato superato dalla possibilità di marcare i depositi intra-cellulari neurotossici di proteina fibrillare Tau, che si è trovato essere altamente associata ai parametri clinici e strutturali della demenza, rendendo i radiotraccianti che a essa si legano tra i più promettenti negli studi sperimentali e clinici sulla malattia di Alzheimer (Villemagne 2014).

Nel campo della Neuropsichiatria e della Psicologia, recentemente le tecniche di neuroimmagine, nello specifico l’elettroencefalografia (EEG), hanno consentito per la prima volta in assoluto di poter rendere in immagini funzionali le variazioni dell’attività corticale che si verificano durante una seduta psicoterapica. È stato sempre un gruppo italiano, facente capo all’Istituto di Scienze e Tecnologie della Cognizione del CNR, ad avere monitorato in tempo reale sedute di Eye Movement Desensitization and Reprocessing (EMDR) somministrate a pazienti con sindrome da stress post-traumatico (PTSD) durante la rivisitazione uditiva del proprio evento traumatico (Pagani 2012). In linea con le conoscenze pregresse sulla neurobiologia del PTSD, è stato possibile dimostrare come questa tecnica psicoterapica provochi, durante il corso delle sue varie somministrazioni, un trasferimento della massima attivazione corticale da aree con valenza prettamente emozionale, come l’amigdala e la corteccia orbito-frontale, ad altre a valenza cognitiva, come la giunzione temporo-parietale, area associativa multimediale per eccellenza.

Questo studio apre nuovi orizzonti non solo alla comprensione dei meccanismi patofisiologici che avvengono durante sedute psicoterapiche, ma anche alla possibilità di identificare in prospettiva dei modelli di attivazione corticale, in seguito a uno stress psicologico, in grado di discriminare i pazienti che risponderanno da quelli che probabilmente non risponderanno alle varie terapie, consentendo di indirizzare risorse umane ed economiche a trattamenti alternativi.
Lo stato dell’arte delle metodologie di neuroimmagine è rappresentato dalla PET-RMN che permette l’acquisizione in contemporanea in pochi minuti di parametri metabolici e informazioni anatomiche dettagliate risultando in una localizzazione del segnale funzionale con un errore al di sotto del centimetro.

L’avanzamento recente delle tecniche di neuroimmagine con un impatto importante sulla diagnosi e sulla prognosi delle malattie neurodegenerative è stato anche reso possibile dalla collaborazione fra clinici, fisici dei sistemi diagnostici, statistici e neuropsicologi. La selezione di gruppi di pazienti omogenei tra loro, insieme a soggetti di controllo ai quali compararli, l’impostazione e lo sfruttamento pieno delle possibilità delle varie macchine di fornire informazioni sulla dinamica della captazione e della fine localizzazione anatomica del radiotracciante, la gestione dei dati con algoritmi statisticomatematici sofisticati e l’analisi di dimensioni neuropsichiatriche peculiari di ogni malattia, hanno decisamente migliorato l’accuratezza della diagnosi e soprattutto della discriminazione dei pazienti appartenenti ai sottogruppi patologici aprendo nuovi orizzonti sul loro trattamento e sulla terapia.

 

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