Storia e geografia dei terremoti

La storia

È  la solita storia. E la storia sarà pure magistra vitae, ma non insegna niente: non a chi l’ha vissuta, figuriamoci a chi “solamente” la studia.

È  il caso dei terremoti e del conseguente rischio sismico  il quale per l’allargamento di quella che si riteneva la tradizionale area di coinvolgimento (Friuli, Abruzzo, Campania, Calabria. Sicilia) è oggi percepito da più persone  in sempre più regioni. Ne è esente solo la Sardegna. Ma non c’era bisogno di questo allargamento per saper che il nostro è un paese fragile (chi volesse potrebbe leggere due mie cose:  Fragile. Il rischio ambientale oggi, Carocci 2015 e, Fragile Italia in “L’Italia e le sue Regioni”, Treccani 2015). Non era necessario perché dopo il 1980 (l’anno – il 23 novembre – del tremendo terremoto che sconvolse Irpinia e Basilicata) è stata finalmente costruita una carta precisa della sismicità del Paese che ci dice quali aree sono a rischio sismico; a quale grado di rischio e, questo ce lo ricorda la storia, con quale presumibile periodo di ritorno, cioè di riproposizione del fenomeno. Che si vuole di più per un rischio che è caratterizzato dalla massima imprevedibilità?

Invece no. E ogni più o meno violenta scossa di terremoto ci trova sorpresi e impreparati. Specialmente quando il fenomeno tocca regioni come l’Emilia che se lo erano proprio scordato.
E poiché l’impreparazione provoca vittime e danni materiali, scatta subito talora con lodevole rapidità, l’opera di assistenza dei superstiti sinistrati e, in più lungo periodo, quella di ricostruzione delle aree distrutte.
E quella che ho sempre definito la ” politica del rattoppo” che mette pezze, tampona falle, ma non rimuove le cause del disastro che, appunto, è pronto a riproporsi, a far danni e vittime e a richiedere interventi di riparazione.

Il paradosso di tutto questo è che questi interventi fanno crescere il PIL.
Qualcuno, non ricordo bene chi, ma mi pare sia stato un deputato di Cinque stelle del quale, meglio così, non ricordo il nome; qualcuno, dicevo ha detto che l’irrita sentir parlare di crescita del PIL. Mi permetto di dire che questa irritazione è una sciocchezza che prova a far breccia nell’opinione pubblica. Perché il PIL cresce non solo costruendo automobili, frigoriferi, computer, telefonini; non solo con l’aumento dei flussi turistici in alberghi e ristoranti; non solo incrementando la produzione agricola, ma anche costruendo armi e risanando il territorio dopo che il loro uso lo ha distrutto e, quindi, anche l’indomani di una frana, di un terremoto, di un’alluvione… Ma il PIL potrebbe crescere in modo “buono” e per tutti se quella ricchezza che misura fosse prodotta mettendo in sicurezza una volta per sempre il nostro fragile territorio.
È così che si può porre rimedio. Sismologi, geofisici, geologi, lo ripetono l’indomani di ogni evento. Con tutto il rispetto per queste competenze, io che sono solamente un umanista lo vado ripetendo da 36 anni. Dopo, cioè, quel maledetto terremoto che prima ricordavo.

 

La resilienza

Dicevo che l’Italia è un Paese fragile. E, se ce lo dovessimo scordare, ce lo ricordano ogni anno incendi, frane, alluvioni, terremoti e via disastrando. Questa fragilità si deve certamente alla naturale predisposizione della geologicamente giovane Italia, ma non meno alla umana ignoranza.
Di conseguenza quando si manifesta un evento disastroso come quello che ha devastato aree del Centro Italia, i primi, a volte immediati, interventi provano a salvare quante più possibile vite umane, a sistemare al meglio i sopravvissuti in strutture di emergenza, tanto che si fa ricorso anche a professionalità quali lo storico dell’emergenza e lo psicologo dell’emergenza.

Il tutto sempre a disastro avvenuto. Disastro che si sarebbe potuto prevedere, se non nei tempi,  almeno nei luoghi e nelle modalità  di manifestazione se l’ignoranza del Paese che governano non fosse una caratteristica che gli uomini di governo si tramandano dal Risorgimento in poi.
Lo ha detto Italo Calvino e l’ignoranza alla quale si riferisce è quella geografica tanto da indurlo ad auspicare lo studio obbligatorio della Geografia per ministri e sottosegretari.
Se questa ignoranza fosse colmata esisterebbero ed esistono di fatto, le condizioni per realizzare al meglio la prevenzione dei danni provocati dal disastro.
L’elenco delle cose che si potevano fare e, colpevolmente, sono state trascurate è lungo. Ma qui non è il caso di ripetere cose quotidianamente dette e scritte da ben altri competenti.

Questa quotidianità necessariamente si andrà riducendo nei prossimi giorni perciò mi sembra utile ricordare l’esistenza di un problema che può richiedere tempi anche lunghi di soluzione: è la possibilità di far riprendere alle persone colpite il loro “stato” precedente il disastro. Accade, cioè, che poiché taluni eventi, per quanto prevedibili e prevenibili negli effetti calamitosi, possono manifestarsi con caratteristiche di eccezionale violenza, quando ciò avviene la popolazione ne subisce gravemente le conseguenze. Si presenta in questi casi un problema di ripresa anche psicologica delle persone colpite. È quella che si chiama resilienza un principio al quale si fa ricorso per i materiali e per la loro capacità di resistere a urti improvvisi senza spezzarsi e ritornare allo stato originario dopo aver subito uno shock. Naturalmente non tutti i materiali hanno questa possibilità e non tutti allo stesso modo. Ma se il “materiale” è quello umano e, quindi, dal campo della fisica si passa a quello delle scienze sociali, la domanda è: che cosa succede alle persone dopo uno shock traumatizzante causato da un disastro naturale o da un attentato terroristico con il loro carico di morti e danni materiali?

Le reazioni sono diverse; la ricostituzione dello stato originario – appunto, la resilienza – avviene in modi e tempi differenti e consiste nella capacità umana di affrontare le avversità della vita, superarle e uscirne trasformati o addirittura rafforzati. L’eccezionale numero di vittime in eventi come l’attentato alle Torri gemelle, i terremoti in Belice, Friuli, Irpinia, L’Aquila, l’uragano Katrina, gli tsunami nelle Filippine e in Giappone, di fatto sottostima la realtà perché non tiene conto delle ‘vittime superstiti’, dei sopravvissuti agli eventi disastrosi. Non tiene conto, cioè, di quanti per anni potranno avere negli occhi e nella mente l’aereo che trapassa le torri; la scossa che scuote le abitazioni e quanto c’è dentro; il vento che solleva auto e case; il mare che travolge tutto quanto trova lungo la sua strada.

Insomma si tratta di tutelare i parenti delle vittime e i superstiti delle sciagure verificatesi nel Paese proponendosi di non far perdere la memoria delle vittime, ed essere un punto di riferimento per i sopravvissuti e uno stimolo per le istituzioni. È un obiettivo importante, ma se il recupero della memoria è fondamentale per evitare che si ripetano certe sciagure, per i sopravvissuti vi sono anche altre problematiche legate al modo in cui si supera quell’esperienza. È, appunto, quella che si chiama ‘capacità di resilienza’, che consente di reagire di fronte alle situazioni di sofferenza. D’altra parte non va trascurato che la fine di una situazione dolorosa non coincide con la fine delle sofferenze e delle preoccupazioni, ma talora segna proprio il momento del loro inizio. Di più, ciascuno può imparare dalle persone che sono state colpite e che, con il loro esempio, possono indicare se e come è possibile risanare le ferite subite. L’approccio e l’approfondimento del discorso sulla resilienza è di ordine squisitamente socio-psicologico e riguarda il comportamento degli esseri umani come risposta a una sofferenza scatenata da un evento doloroso. Ma non è solo l’essere umano a trovarsi di fronte a questo problema in seguito a un evento traumatizzante: lo sono anche l’economia, la società nel suo complesso o una più piccola comunità, lo è la politica internazionale o locale. Possono esserlo anche, e lo sono specialmente a valle di un evento calamitoso, l’ambiente e il territorio.

I costi economici e sociali sono elevatissimi: si potrebbero “risparmiare” se la conoscenza degli eventi e del loro inevitabile verificarsi nel tempo e nello spazio fosse indirizzata a quella fondamentale opera di prevenzione dei rischi che è lo strumento più efficace per garantire il più possibile la convivenza con la fragilità del Paese.

 

La ricostruzione

Intanto, comunque, bisogna ricostruire il distrutto. E quando il distrutto appartiene ad una storia antica di centinaia di anni, la cosa è più difficile: dal punto di vista architettonico, urbanistico e psicologico.
Quest’ultimo è anche quello che condiziona la scelta urbanistica perché i superstiti in gran parte chiedono di rimanere dove sono nati, hanno vissuto e, di generazione in generazione, ne hanno caratterizzato la storia.
I rappresentanti delle massime istituzioni hanno promesso e garantito ai terremotati che la ricostruzione avverrà secondo i loro desideri.

Bene. Così sia perché l’importante è costruire non importa dove, ma come (e quando).
E senza riproporre quella stupidità delle così dette new towns realizzate dopo il terremoto dell’Aquila. Perché come sa ogni appena appena attento studente  di molte facoltà universitarie, le new towns sono un’altra cosa. Una cosa diversa dalla costruzione di nuove città per farvi abitare cittadini che non sanno dove andare.
Resta il fatto che la pericolosità, cioè il rischio sismico, resta. E qualcuno si chiede perché continuare a vivere in aree a rischio.

Ancora una volta bisognerebbe insistere su un altro trascurato concetto. Che è quello della comunicazione correttamente informata. La quale, in un Paese come l’Italia, significa informare, senza creare allarme, ma addirittura tranquillità, che non esiste area esente da rischio. Per cui la soluzione non è andarsene a vivere altrove, ma convivere col rischio. Convivenza resa possibile dagli interventi più volte auspicati di risistemazione e messa in sicurezza del territorio.
Richiedono tempo e investimenti economici di grossa portata. I quali non solo consentiranno di vivere in un territorio sicuro, ma per farlo creeranno lavoro e produrranno ricchezza. Insomma, come dicevo, faranno crescere il PIL.

Se l’informazione, come sostengo, deve essere rigorosa scientificamente e deve correttamente comunicare come stanno le cose, i cittadini devono anche sapere che esistono aree nelle quali il rischio si attutisce solo riducendo la vulnerabilità del territorio. Cioè riducendo l’eventuale sovraccarico di popolazione e dei suoi beni immobili.
Naturalmente l’informazione non è in grado, né se lo propone, di influire sulle scelte. È come per le sigarette: si avverte ripetutamente di non fumare e sui pacchetti che contengono le sigarette in vendita campeggia la scritta che ricorda “nuoce gravemente alla salute”, dopo di che ciascun fumatore può dare a questa informazione il peso che crede.