Cina e USA danno forza al Paris Agreement

L’economia globale, il conflitto siriano e gli attriti tra Giappone e Cina per il diritto marittimo e per il possesso di alcune isole nella parte orientale del mar della Cina, hanno dominato il dibattito e i negoziati al summit del Gruppo dei 20 Paesi più industrializzati (G20) e dei Paesi emergenti, che si svolto lo scorso fine settimana a Hangzhou, nella Cina orientale.

Eppure i cambiamenti climatici hanno trovato una significativa risonanza, grazie soprattutto all’annuncio del Presidente USA, Barack Obama, e del Presidente cinese, Xi Jinping, di aver inviato al Segretariato della Convenzione ONU sui cambiamenti climatici i rispettivi piani di riduzione delle emissioni di gas-serra, in questo modo ratificando ufficialmente il Paris Agreement, l’accordo sul clima approvato lo scorso dicembre nella capitale francese, al termine della conferenza ONU sui cambiamenti climatici, da 195 nazioni.

Il Paris Agreement, tra le altre cose, impegni i Paesi firmatari a contenere l’aumento della temperatura media globale “ben al di sotto di 2°C rispetto ai livelli pre-industriali e di proseguire gli sforzi per limitare l’aumento della temperatura a 1,5 °C”.

Secondo le disposizioni della Convenzione ONU sui cambiamenti climatici, l’Accordo di Parigi potrà entrare in vigore solo dopo la ratifica di almeno 55 Paesi che complessivamente totalizzino almeno il 55% delle emissioni mondiali di gas serra.

Prima dell’annuncio dei capi di stato delle due super-potenze, 23 Paesi avevano ratificato l’accordo, che rappresentano però solo l’1 per cento delle emissioni globali.

Con la ratifica di Cina e USA (rispettivamente primo e secondo emettitore mondiale di gas-serra), che insieme sono responsabili  del 39 percento delle emissioni globali, la possibilità che l’accordo entri in vigore sono improvvisamente saltate in alto.

La ratifica formale dell’accordo avviene attraverso le specifiche procedure nazionali, più o meno complicate.  Infatti, mentre il piano cinese di riduzione delle emissioni è stato ufficialmente “rivisto e ratificato” dal Congresso del Popolo, quello Usa è stato ratificato da un atto, tecnicamente un “executive agreement” del Presidente USA,  in quanto secondo la Casa Bianca il tipo di accordo non richiede la ratifica da parte del Senato.

È importante ora che il Paris Agreement diventi operativo il prima possibile, eventualmente prima della nomina del prossimo Presidente USA.  Donald Trump, uno dei due candidati presidenziali, ha promesso, se eletto, di rigettare l’Accordo di Parigi.  Cosa difficile se non impossibile, in base al diritto degli Stati Uniti, se l’Accordo dovesse raggiungere il quorum ed entrare in vigore prima del suo insediamento.

Il quorum delle emissioni sarebbe stato raggiunto comodamente se, in Europa, non ci fosse stata la vittoria del leave al voto referendario in Gran Bretagna per uscire dall’UE.

L’UE è complessivamente responsabile del 12% delle emissioni globali di gas serra ed è il terzo emettitore mondiale, dopo Cina e USA. Lo scorso dicembre, a Parigi, l’UE all’unanimità aveva approvato l’Accordo e aveva assunto un impegno formale davanti alle Nazioni Unite di ridurre ‘congiuntamente’ le emissioni dei suoi 28 Paesi membri del 40% al di sotto dei livelli del 1990, entro il 2030.

Con l’uscita della Gran Bretagna si è aperto il complesso problema della ridefinizione dell’effort-sharing, ossia della ripartizione degli impegni di riduzione delle emissioni, tra i Paesi dell’UE senza Gran Bretagna.

Alcuni Paesi membri dell’UE, tra cui la Francia, hanno già avviato il processo di ratifica. Altri attendono di conoscere prima i dettagli degli obiettivi climatici UE senza la Gran Bretagna per il 2030 prima di iniziare o concludere il loro processo di ratifica.

D’altra parte, di fronte al segretariato della Convenzione sui Cambiamenti Climatici, ogni singolo Paese è responsabile del proprio target. Anche per questo l’UE – che potrebbe ratificare gli impegni di Parigi senza attendere le singole ratifiche nazionali – è orientata a giungere a una ratifica del Paris Agreement da parte del Parlamento UE solo dopo che tutti i Paesi lo hanno fatto. L’Unione si trova dunque a dover attendere la conclusione formale del processo di Brexit. Insomma, potranno passare mesi, forse anni, per avere la ratifica dell’UE. Una volta che l’articolo 50 del trattato UE di Lisbona sarà attivato, cosa che secondo alcuni leader politici potrebbe avvenire entro la fine del 2017, partirà il processo di negoziazione, il quale si concluderà presumibilmente dopo altri due anni. Un tempo troppo lungo per un Accordo che intende dare risposte certe e rapide al clima che cambia e ai suoi impatti devastanti.

L’annuncio di Hangzhou è dunque una bella notizia, un importante passo in avanti per l’entrata in vigore dell’Accordo, che ha ora buone possibilità di superare la soglia 55/55 e diventare operativo prima della fine dell’anno. Anche senza la ratifica dell’UE e dei suoi Paesi membri, sempre più marginali nelle scelte che contano.