Come pensare le città del futuro: dai “non luoghi” ai “luoghi di condensazione sociale”

Dal XXVI Seminario internazionale e Premio di Architettura e Cultura Urbana dell’Università di Camerino

In “Futuro Remoto 1988”[1] la tesi era semplice, quasi banale: la città del futuro non replicherà la città storica, non sarà sottomarina, spaziale o underground: sarà “la città delle compresenze”, intrecci fra diversità. L’anno scorso a Vienna, “City Layers”[2] era un po’ anche questo: visioni e frammenti contrapposti o coesistenti. Oggi c’è chi definisce “città” realtà anche sostanzialmente diverse fra loro, senza che nulla le accomuni: cionondimeno ogni insediamento umano dialoga con i contesti morfologici, fisici, idrogeologici e con le tracce del passato. Le diversità però non derivano solo da fattori di questo tipo. Le città esprimono la cultura di chi le abita e le ha abitate: la globalizzazione omologa, ma spinge anche ad accentuare diversità e identità. Certo le città del futuro saranno diverse dalle attuali e si svilupperanno con modalità differenti: in ogni cultura urbana comunque ricorrono tematiche, principi, riferimenti, analogie.

Le città si trasformano di continuo; i loro assetti fisici non sono che riflessi di altri processi evolutivi, più direttamente legati all’avventura umana. Il futuro è sempre più imprevedibile, accelera. Eppure agiamo tutti in vista di futuri auspicati, desiderati, che intrecciano e scontrano i desideri degli altri. Prevedere è complesso: maggiore è la distanza temporale, tanto più si rivela inappropriato. Basta guardare le previsioni del passato, anche solo quelle del passato relativamente recente: tenere, risibili, ingenue. Affermano che – come sempre – “gli antichi siamo noi”.

Un tempo il futuro sembrava sostanzialmente coincidere con il presente: relativamente immutabile; le mutazioni non riguardavano tanto il contesto quanto gli abitanti soggetti a ineluttabili processi biologici. Oggi è diverso: i contesti cambiano con velocità e la relativa staticità è quella degli individui. Nell’anno 1000 si attendeva la fine del mondo. Nell’era moderna, la fiducia nel futuro ha avuto una forte spinta nel ‘700, un apice nell’avventura dei futuristi, è stata acutamente messa in dubbio dal Club di Roma. Eppure continuiamo a credere nel futuro. Vorremmo piegarlo, immaginarlo, sognarlo.

Sono influenzato da due esperienze recenti. L’una che attraverso il “metodo Delphi”[3] ha delineato le trasformazioni probabili nel prossimo decennio in una grande area metropolitana. L’altra, nello studio di un organismo da realizzare a tempi lunghi[4], caratterizzata dalla decisa propensione dei miei “complici” (iper-esperti di tecnologie speciali) a valutare anche quanto oggi impossibile, ma altamente probabile che sia realizzabile nei tempi medio-lunghi. Sostenuto anche da queste esperienze, cerco di ragionare su un’inversione di valori su cui immaginare rigenerazioni urbane di ampia scala, ne esplicito radici e motivazioni, con un accenno alla sperimentazione in corso in una particolare città di medie dimensioni: nella prospettiva di passare (vedi Img. 1dai “non-luoghi” ai “luoghi di condensazione sociale”[5].

 

A.

(vedi Img. 2) Nei primi anni ’90 Marc Augé definì “non-luoghi”[6] alcune realtà emblematiche della condizione contemporanea. Neologismo efficace perché espressione simultanea di assenza di identità, utilizzo fugace, precarietà, spaesamento. Nei nostri contesti i “non luoghi” sono corpi estranei. Connotano la realtà e ne denunciano la patologia. Appaiono dispersi, privi anche della capacità di costituirsi in rete. Documentano centralità a-sociali.
(vedi Img. 3) Le città hanno bisogno del loro opposto. Nel continuo dilatarsi delle periferie, la cultura tardo-funzionalista cercò di introdurre una nuova tipologia, il “centro sociale”. Non un “luogo alternativo” come quelli che spontaneamente cominciavano a diffondersi nell’Italia degli anni ’70, ma un luogo dove gli abitanti possono entrare in contatto e ragionare sui problemi del quartiere: solo pensare a tipologie di questo tipo è riconoscere un fallimento, l’aver dimenticato “l’arte di costruire le città”.

(vedi Img. 4) Nel passato le grandi istituzioni hanno fatto ricorso a elementi ripetitivi con obiettivi non solo funzionali, segnali di potere o di un credo. I luoghi di culto, i campanili, le cupole ne sono un esempio. Non meno ricorrenti le piazze, a volte sistemi di piazze interrelate per distinguere potere politico, potere religioso, momenti della vita civile: piazza della Signoria, piazza del  Duomo, piazza delle Erbe.
(vedi Img. 5) Negli anni ‘20 i costruttivisti russi formularono la teoria dei “condensatori della vita sociale”, edifici articolati in rapporto alle diverse funzioni dell’esistenza: dalla “casa collettiva” alla fabbrica, passando per il “club operaio” alla cui architettura veniva affidato un ruolo rilevante nel panorama urbano. “L’edificio del club deve possedere un’immagine figurativa prepotentemente emergente, come in passato la possedevano gli edifici di culto ed i palazzi nobiliari”[7]. Tutt’altra la funzione delle “Case del Fascio” che nel ventennio punteggiarono l’Italia: oltre diecimila, metà delle quali in edifici fortemente connotati in termini architettonici.

Negli anni ’50, mentre nei quartieri INA-Casa cominciano a sperimentare i “centri sociali” (vedi Img. 6), l’India da poco indipendente programma nuclei base per l’istruzione scolastica in ciascuno dei suoi infiniti villaggi agricoli. Lo Stato centrale si fa carico di pochi elementi pronti a crescere secondo le esigenze, le ambizioni, i contributi degli abitanti. Purtroppo ho più immagini di quanto a suo tempo casualmente scovato nel corso di una ricerca sull’“Uso della prefabbricazione per l’edilizia scolastica”: la rete programmata nel vasto territorio indiano in un certo senso affrancava dalla codificazione tipologica occidentale poi sistematizzata nella logica degli standard.

L’intreccio fra queste ricerche e la cultura del Team X -veicolata da “Le Carré Bleu” (in particolare “Proposition pour un habitat èvolutif”[8] e “La forme ouverte en architecture”[9]) era una miscela stimolante: nel 1964, al concorso per i “caratteri tipologici della (allora) nuova scuola dell’obbligo”, con Dalisi presentammo una proposta ben accolta dalla critica nel cui motto –“un seme per la metropoli”– non è estraneo il ricordo dei processi partecipativi innescati dal programma indiano. Nella stessa linea sviluppammo poi un insieme più complesso nella “Recherche d’une structure urbaine”[10]. Negli anni ’70 il polifunzionale di Arcavacata -primo edificio della nuova Università della Calabria- materializzò tesi analoghe. Zevi lo definì “deroga ludica alla recita istituzionale”[11].

(vedi Img. 7) La recente politica brasiliana consente citazioni decisamente più attuali. Nelle favelas di Rio de Janeiro sono ormai realtà le “Naves do Conhecimento”, edifici accattivanti o adattamenti banali. In contesti degradati e ingovernabili da qualche anno  si sta realizzando una rete di luoghi pubblici dove – a disposizione degli abitanti di ogni età e per 24 ore al giorno – vi è “tutto l’armamentario informatico e tutta l’assistenza pedagogica per imparare l’uso del computer, il telelavoro, la multimedialità, le lingue, i tele-giochi, il monitoraggio e la manutenzione del quartiere”[12]: il programma tende cioè a elevare la conoscenza, promuovere socializzazione, alfabetizzare. In una realtà sostanzialmente diversa, dal 2007 di fatto è una “nave della conoscenza” (vedi Img. 8) la Biblioteca Sangiorgio che in fase di concorso connotammo con un motto profetico: “Miracolo a Pistoia”. L’interazione Biblioteca/Società è infatti fra le ragioni che hanno portato a nominare “capitale italiana della cultura 2017” una città di 90.000 abitanti con una Biblioteca da 500.000 presenze e 200.000 prestiti all’anno. Logica simile in “Corporea” (vedi Img. 9), il Museo del Corpo Umano che da quest’anno integra Città della Scienza.

Un ultimo passo indietro prima di balzare in avanti. Tre esperienze di progetti urbani nei quali i “luoghi” sono il sistema che innerva il disegno. (vedi Img. 10) Quello per l’Università nella Valle dell’Irno[13] dove una rete di percorsi pedonali intreccia “luoghi” preesistenti e nodi di socializzazione. (vedi Img. 11) Poi il Piano Quadro delle attrezzature di Napoli[14] che -in quanto “piano”- non disegna interventi edilizi, ma definisce una rete di “luoghi di condensazione sociale” da generare tramite interventi e mediazioni da rintracciare negli edificati esistenti unendola ad un elenco di caratteri e prestazioni: multifunzionalità, carattere inclusivo, nodalità, permeabilità pedonale, polivalenza, accrescibilità/modificabilità, flessibilità. Terzo il progetto (vedi Img. 12) di ricomposizione urbana a Piscinola/Marianella[15] basato su un “sistema di vuoti”, sul disegno del “non costruito”[16] intorno al quale di volta in volta aggregare “costruiti” per le varie attività collettive, anticipando quanto poi sarà definito “città dei 5 minuti”.
Riduttivo e sintetico, questo elenco segnala tensioni diametralmente opposte ai “non-luoghi”.

 

B.

Ormai sfuma sempre più l’idea di città all’origine dei nostri contesti. (vedi Img. 13) Il “continuum urbanizzato” – che si è andato  materializzando nella seconda metà del ‘900 – ha assunto caratteri di nebulosa urbana che – nel gioco delle nobilitazioni verbali – poi diventa “area metropolitana” e, quando tenta di darsi una gestione unitaria, “città metropolitana”. Riprendere in chiave moderna la logica dei quartieri è un sogno ricorrente: più che tentativo di scomporre la città in parti da dotare di tutti i servizi essenziali,  contiene anche volontà di identità, quella che è ancora nelle “contrade” che si contendono il Palio di Siena. La logica del quartiere risente però della cultura dello zoning avvilita dal rifuggire complessità e dal favorire modeste densità abitative: mentre alta densità e complessità sono risorse preziose. Altri interessi negli ultimi decenni hanno invece trasformato aeroporti e stazioni in “centri commerciali” mentre quelli che nascevano come tali hanno assunto caratteri di punti di ritrovo estranei alla città, da raggiungersi inquinando: punti di incontro astratti quasi come le connessioni digitali, le relazioni senza spazio fisico, gli spazi virtuali.

(vedi Img. 14) Nella realtà contemporanea – dove la città non va organizzata sui “residenti”, ma in rapporto a individui che vivono quasi simultaneamente luoghi diversi, non solo grazie all’informatica – nasce piuttosto l’ipotesi di una rete territoriale ampia i cui  nodi siano legati dalla mobilità collettiva. Questi “luoghi di condensazione sociale” non sono edifici (vedi Img. 15). Sono spazi di relazione, d’identità, d’incontro; anche ambiti “non costruiti” definiti dalla prossimità di più edifici di interesse collettivo: un insieme stratificato dove facilmente confluire dal suo intorno. Luoghi in parte identificati attraverso l’analisi dello stato di fatto e delle sue potenzialità; in parte determinati o creati da programmi urbani ed attuati tramite sequenze di progetti. Luoghi ogni volta necessariamente diversi, mai ripetitivi anche se informati da un’unica logica. In ogni realtà territoriale e urbana occorre una visione sistemica che individui reti (vedi Img. 16): che legga gerarchie di margini/limiti / barriere da confermare o cancellare; analogamente che legga – e ancora confermi o cancelli o immetta centralità, nodi e “luoghi di condensazione sociale”. Peraltro l’ottica della rete rifiuta la distinzione centro storico/periferie perché queste sono “fenomeni temporanei / disagi da colmare”[17].

L’anno scorso, parlando della mobilità alternativa nella città del futuro- ho accennato al Piano urbano per Caserta[18] allora interrotto in assenza di un’Amministrazione regolare, ora però verso la conclusione (vedi Img. 17). Qui la rete dei “luoghi di condensazione sociale” è evidente nel suo intreccio con la memoria dell’antica Centuriatio, con allusioni al manomesso Acquedotto Carolino, con alcune fermate della rete di “navette ad idrogeno”, cioè con quanto preesiste o riportato alla memoria, e con le previsioni per il futuro.

 

C.

Concludo in estrema sintesi: le città contemporanee si sono andate sempre più disperdendo, hanno isolato le loro parti, sono cresciute in forme subìte, non condivise, esaltando l’autonomia dei singoli interventi. I “non-luoghi” sono fra i loro simboli.

(vedi Img. 18) Nei nostri contesti “ri-civilizzare l’urbano”[19] è azione lunga: ogni scelta deve convergervi ponendo in primo piano la questione epocale dell’accoglienza[20] che peraltro investe le città come i territori agricoli. Ad esempio, legare scala ampia e “città dei 5 minuti” nel nostro “continuum urbanizzato” spinge a concepire le fermate delle ferrovie metropolitane pensando innanzitutto al ruolo dei loro intorni[21]. Sostanziale poi affrancarsi da normative obsolete: alla Biennale di Venezia del 2014 – nella selezione dei migliori esempi di edilizia scolastica realizzati in Italia negli ultimi 20 ann[22] – emergeva la maggiore qualità di asili e università, cioè di quanto non afflitto dalle norme del 1975[23]. Le “linee guida 2013” del MIUR puntano a trasformare le scuole in “centri civici”: potrebbero derivarne organismi liberi da trappole tipologiche e soprattutto germi di “luoghi di condensazione sociale”.

I “luoghi di condensazione sociale” derivano infatti da stratificazioni e prossimità di attività diverse: puntano a “unità di luogo”, ma non quella delle tipologie di un tempo quando ancora ogni “funzione” poteva esaurirsi in un unico edificio[24]. Le funzioni non sono più stabili, si articolano in forme e reti complesse. Per questo occorre distinguere “attività” (azioni elementari consentite dalle caratteristiche dello spazio in cui si svolgono) e “funzioni” (mutevoli concatenazioni di attività elementari finalizzate a scopi definiti ma mutevoli)[25]. Peraltro oggi non occorrono edifici “prepotentemente emergenti” come voleva Mel’nikov, ma intrecci “costruito/non costruito”: insiemi di spazi pubblici capaci di aggregare, assumere identità non solo formali, costruire memoria. Forse questa prospettiva è in grado di ridare senso al nostro habitat.

Il futuro delle città non è solo una paziente costruzione continua: procede per “salti”, proprio come la materia che passa dallo stato solido al liquido ed al gassoso. (vedi Img. 19) Darsi oggi una diversa prospettiva è complesso, ma indispensabile: richiede inedite alleanze, ampie e variegate, delle quali gli architetti non sono che minima parte perché ormai “il progettista reale è un essere diffuso”. Solo convergenze di interessi possono avviare un’inversione di marcia.

 

Note

[1] AA.VV., “Città Futura”, CUEN 1998.
[2] Mostra al Palais Pálffy di Vienna, ottobre 2015, cfr. “Le Carrè Bleu”, n°4/2015.
[3] Domenico De Masi, “Napoli 2025 – come sarà la città tra dieci anni?”, Guida 2016.
[4] Orbitecture, Center for Near Space / Italian Institute for the Future, 2016.
[5] È il titolo della relazione a Camerino, 31.07.2016.
[6] Marc Augé (1992) trad. D.Rolland, “Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità”, Elèuthera 1996.
[7] Paola De Rosa, “Biografie – Konstantin Stepanovic Melnikov”, in www.archimagazine.com/bmelnikov.htm
[8] Georges Candilis, “Le Carrè Bleu”, n°2/1959, pp.3-6.
[9] Oscar Hansen, “Le Carrè Bleu”, n°1/1961, pp.4-5.
[10] “Le Carrè Bleu”, n°2/1966, p.7.
[11] Bruno Zevi, “Cronache di Architettura, 953-1080”, vol.326 Universale Laterza, Roma-Bari 1975, n°974, pp.526-531.
[12] Domenico De Masi, Il futuro è nell’ingegneria didattica, in “La Repubblica” del 16.12.2014.
[13] “Le Carrè Bleu, n°1/1976, pp.3-17.
[14] “Architettura e dimensione urbana”, Ceec 1977, pp.53 e sgg.
[15] “Spazio e Società”, n°21/1983, pp.106-117.
[16] Apologia del (non) costruito”, in Architettura Città n°12-13, Agorà Sarzana 2005, pp.29-34.
[17] “Dopo il sonno il risveglio”, in Profezia dell’Architettura – Periferia come luogo dell’identità, Macerata 07.04.2015; www.pcaint.eu/news.
[18] Patrizia Bottaro/MPC: “Il mantra dell’Ecologia nella pratica delle relazioni: approccio umanistico al territorio”, Convegno “Med Green Forum”, agosto 2015.
[19] “Le Carrè Bleu”, n°1/2014.
[20] L’architettura si occupi di accoglienza”, intervista a Daniel Libeskind di Marco Mathieu, “La Repubblica” 04.09.2015.
[21] Oggi le ubicazioni derivano da altri fattori: specie nei centri minori, ma non solo, prevalgono logiche di settore.
[22] Agibile e bella – architetture di qualità per la qualità delle scuole”, Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo- Direzione generale PaBAAC – Servizio architettura e arte contemporanee – con Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca; cfr. www.inarch.it.
[23] DM n°475/18.12.1975: norme tecniche prescrittive che fra l’altro fissavano dimensioni minime dei lotti non di rado impossibili nella città esistente o in contrasto con altre esigenze.
[24] “unità di luogo”: ci si imbatte ancora in edifici che sulla facciata portano scritta la loro funzione. Compongono città nelle quali le funzioni si affiancano risolvendosi ciascuna in se stessa. I “recinti” esprimono la stessa logica, raggruppano più edifici nei quali si articola una funzione complessa: emblematici i campus universitari, alcuni complessi industriali, i grandi ospedali. Stessa logica nel zonizzare e riunire in un unico luogo entità analoghe gestite da soggetti diversi, o nelle “zone omogenee” del DM 1444/68. La cultura della separazione si esprime così.
[25] Interazioni”, Clean 1997, p.80.