Il mondo della ricerca

Il R&D Magazine ha pubblicato di recente il 2016 Global R&D Funding Forecast, l’analisi degli investimenti mondiali in ricerca scientifica e sviluppo tecnologico (R&S) e le previsioni relative a l’anno in corso, il 2016. Tutti i dati sono calcolati a parità di potere d’acquisto delle monete nazionali.

Quello essenziale è che la spesa mondiale in R&S continua ad aumentare e nel 2015 ha raggiunto, secondo le stime degli esperti del R&D Magazine, i 1.883 miliardi di dollari. Un record assoluto, pari all’1,75 del Prodotto interno lordo (Pil) del pianeta: mai il mondo aveva investito tanto in ricerca scientifica e sviluppo tecnologico. Il record precedente, infatti, apparteneva all’anno precedente, il 2014, quando erano stati spesi in R&S 1.746 miliardi di dollari, pari all’1,70% del Pil globale. Il primo dato, dunque, è che gli investimenti in ricerca e sviluppo crescono sia in termini assoluti che in termini relativi. Un trend che dura, in maniera sostanzialmente ininterrotta, da quarant’anni.

Gli investimenti non sono omogeneamente distribuiti. La gran parte della spesa in R&S – 1.824 miliardi di dollari, il 97% del totale – avviene, infatti, a opera di 40 paesi, che nel 2015 hanno investito in ricerca e sviluppo l’1,96% della ricchezza prodotta. Contro l’1,91% del 2014. Dunque anche i paesi che costituiscono il vertice della società della conoscenza stanno aumentando gli investimenti in R&S sia in termini assoluti che relativi.

Di grande interesse è la distribuzione della spesa per continente (Tabella 1). L’Asia non solo si conferma prima area continentale in assoluto, col 41,2% degli investimenti totali. Ma tende a consolidare questo suo primato con passo svelto e a scapito sia del Nord America (che conferma il suo secondo posto) sia dell’Europa. Il nostro continente è, ormai, terzo e in posizione sempre più distaccata. Col suo 21,0% nel 2016 l’Europa investirà in R&S la metà esatta dell’Asia. Solo cento anni fa l’Europa aveva il monopolio pressoché assoluto degli investimenti in R&S. I numeri del R&D Magazine ci danno un quadro molto chiaro di come sia cambiato il mondo.

Resta il fatto che Asia, Nord America ed Europa coprono il 90% degli investimenti globali in R&S. Il resto del mondo ha un ruolo da comprimario. Ciò non significa che, anche in queste aree, non ci sia una chiara dinamica: con regioni – come quella della Russia e delle altre repubbliche ex sovietiche o il Sud America – che stentano a tenere il passo e regioni come il Medio Oriente e l’Africa che mostrano segni non banali di vitalità, con una crescita relativa superiore alla media mondiale.

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La classifica elaborata da R&D Magazine per singoli paesi non, mostra, almeno nelle posizioni di vertice, sensibili cambiamenti. E, tuttavia, i primi 40 paesi per investimenti in R&S si muovono con velocità molto diversificate. Nella Tabella 2 riportiamo i primi 25 paesi. Al primo posto troviamo sempre e piuttosto nettamente gli Stati Uniti d’America, che nel 2015 hanno investito in R&S quasi cinquecento miliardi di dollari: il 2,4% in più rispetto al 2014. La previsione del R&D Magazine è che nel 2016 la spesa USA aumenterà del 3,5% rispetto all’anno precedente.

Al secondo posto c’è la Cina, che proprio nel 2015 supera da sola l’intera Europa. Gli investimenti cinesi nel 2015 sono cresciuti dell’8,4%: un valore tre volte superiore a quella degli Stati Uniti. E anche se nel 2016 si prevede un rallentamento (crescita del 6,3%) nel giro di pochi anni – entro il 2026, prevede il R&D Magazine – la Cina supererà in termini assoluti anche gli USA e si collocherà al primo posto tra i paesi che investono di più in R&D.

Ma non c’è solo la Cina, in Asia. Nei primi sei posti nella classifica del R&D Magazine sono infatti ben quattro i paesi asiatici (Giappone, Corea del Sud e India, oltre la Cina). Nel 2015 questi quattro paesi hanno investito complessivamente 678,42 miliardi di dollari: il 37% in più degli Stati Uniti e il doppio dell’Europa. A conferma che, ormai, è in Asia orientale che si colloca il maggior flusso di investimenti in R&S.

E tuttavia la Tabella 2 dimostra che qualcosa si muove anche nel Vicino Oriente. La Turchia e l’Iran hanno ormai superato Israele in termini assoluti. Anche se con il 3,93% rispetto al Pil, l’intensità della spesa israeliana in R&S resta tra le più alte al mondo: seconda, com’è, solo a quella della Corea del Sud (4,04%). In ogni caso con un investimento complessivo di quasi 26 miliardi di dollari, i tre paesi fanno del Medio Oriente una regione emergente nella ricerca scientifica internazionale.

La Tabella 2 testimonia che il peso dell’Europa tende a diminuire. Tra i primi dieci paesi in classifica, solo tre ormai sono dell’Unione Europea. Tuttavia non tutti i paesi europei si muovono allo stesso modo. La Germania consolida la sua quarta posizione assoluta e porta i suoi investimenti in R&S al 2,92% rispetto al Pil: un valore non lontano da quel 3,0% indicato come ottimale dal “programma di Lisbona”.

La Francia tiene il passo per intensità di investimenti (2,26% rispetto al Pil), ma ha dovuto cedere il passo nella classifica dei valori assoluti a Corea del Sud e India. Il Regno Unito è scivolato al nono posto e l’Italia, addirittura, al tredicesimo. A dimostrazione che molti paesi europei hanno serie difficoltà a seguire il resto del mondo nella corsa verso la società e l’economia della conoscenza, di cui gli investimenti in R&S sono un indicatore primario.

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Un altro elemento di sostanziale stabilità che emerge dal report del R&D Magazine è il rapporto tra investimenti industriali e investimenti istituzionali (dei governi o accademici). In tutte le tra grandi aree di investimento (Nord America, Asia ed Europa) e in quasi tutti i paesi (l’Italia è un’eccezione) gli investimenti industriali sono di gran lunga prevalenti su quelli istituzionali. Il rapporto è, ormai da tempo, di 2:1. Per ogni dollaro istituzionale ce ne sono due investiti dalle industrie. Con evidenti correlati di tipo economico. Gli investimenti in R&S non sono solo un indicatore, ma un motore della crescita economica.

Il che favorisce l’innovazione di prodotto oltre che di processo. Ma espone, aggiungiamo noi, a dei rischi. Per esempio, l’eccesso di pragmatismo può portare quella che gli americani (non del tutto a torto) chiamano scienza di base e che in Europa si preferisce definire curiosity-driven.

Nelle economie della conoscenza emergenti (in quelle asiatiche, soprattutto) questo rischio è reale. Anche se cominciano a svilupparsi degli anticorpi. La Cina, per esempio, sta aumentando gli investimenti pubblici in ricerca fondamentale. Tuttavia una certa accentuazione pragmatista si nota anche negli Usa e in Europa: molti chiedono di finanziare soprattutto la scienza traslazionale, capace di trasformare più in fretta possibile le conoscenze in applicazioni pratiche.

Il rapporto del R&D Magazine non si sofferma su queste problematiche. Ha chiesto, invece, a un panel di esperti quali saranno, nel prossimo futuro – a partire dal 2018 – le tecnologie che più beneficeranno delle nuove conoscenze scientifiche. Le più gettonate sono state le tecnologie dell’informazione (31%) e le nanotecnologie (30%). In buona posizione anche lo sviluppo di software per le analisi (29%) e di software per le simulazioni (27%). In mezzo a queste due tecnologie informatiche si piazzano le tecnologie per lo sviluppo delle fonti rinnovabili di energia (28%). Un po’ a sorpresa meno fiducia attira l’intelligenza artificiale (segnalata solo dal 14% del panel”. Ultima e molto staccate sono le tecnologia fondate sulla biologia sistemica: è stata segnalata solo dall’8% del panel.

 

Gli Stati Uniti

In attesa di sapere chi vincerà le prossime elezioni presidenziali e quale sarà, di conseguenza, la politica della ricerca, gli Stati Uniti si confermano nel 2016 il paese che di gran lunga investe di più al mondo in scienza e tecnologia (R&S). Alla fine di quest’anno, prevedono gli esperi della rivista R&D Magazine, che dal 1959 redige ogni anno un suo accreditato Global R&D Funding Forecast, gli investimenti americani in R&S saranno pari al 2,77% del Prodotto interno lordo (Pil) e raggiungeranno l’inedita cifra di 514 miliardi di dollari: il 3,4% i più rispetto al 2015 (il 2,0% al netto dell’inflazione).

Sebbene il ritmo di crescita degli investimenti da parte di altri paesi (Cina in testa) è spesso superiore, la differenza rispetto a ogni altra nazione al mondo resta rimarchevole (Tabella 3). Gli USA restano di gran lunga il maggior investitore al mondo in R&S. Tuttavia la crescita degli investimenti nel resto del mondo è superiore a quella degli Stati Uniti, cosicché la quota parte americana nel paniere degli investimenti in R&S del pianeta intero tende a diminuire. Nel 2014 la spesa USA rappresentava il 26,9% della spesa totale mondiale, a fine 2016 rappresenterà  il 26,4% confermando una tendenza pluriennale al ridimensionamento relativo.

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Gli investimenti americani in R&S hanno una struttura ben definita. I privati investono più del doppio rispetto al pubblico, in tutte le sue varie forme (Tabella 4). Anche se la spesa pubblica, in particolare quella del governo federale, resta elevatissima. Nonostante i limiti imposti dal Congresso al budget federale, gli investimenti pubblici nel 2016 cresceranno dell’1,5% rispetto al 2015. Resteranno praticamente immutati se si tiene conto dell’inflazione.

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Questo è, forse, il problema principale nello sviluppo della ricerca scientifica negli Stati Uniti. Negli ultimi anni gli investimenti pubblici non reggono il passo. Secondo il R&D Magazine, per esempio, i National Institutes of Health (NIH), l’agenzia federale che finanzia la ricerca biomedica, tenuto conto dell’inflazione, negli ultimi 10 anni ha visto diminuire del 20% il suo livello reale di spesa.

A risentirne di più è la ricerca di base o curiosity-driven. Anche se (Tabella 5) gli investimenti nella scienza che non promette immediati e prevedibili applicazioni restano i più elevati al mondo. Nel 2012 nella sola ricerca di base gli USA hanno investito 75 miliardi di dollari, pari al 16% degli investimenti totali. Dagli anni ’80 in poi resta intorno ai due terzi la quota assorbita dallo sviluppo tecnologico, operato essenzialmente nelle industrie.

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La spesa federale è molto articolate e le fonti sono svariate. La principale, con circa 60 miliardi di spesa, è quella del DOD (Department of  Defense), che per la gran parte è dedicata alla ricerca di interesse militare. Anche in questo casi si tratta della più alta al mondo. Con un budget di 31,3 miliardi di dollari, la seconda fonte di spesa federale è rappresentata dai National Institutes of Health, l’agenzia che finanzia la ricerca biomedica. Seguono il DOE (Department of Energy) con 12,4 miliardi di dollari e la NASA, l’agenzia spaziale, con 12,3 miliardi di dotazione per la R&S. Il DOE ha, a sua volta, una spesa articolata: 5,3 miliardi, pari al 43% del totale, li investirà in scienza in generale; 2,7 miliardi pari al 23% del totale nel suo specifico, la ricerca energetica; e 4,7 miliardi, pari al 38%; in ricerca militare. Il DOE ha, infatti, il compito di conservare e aggiornare l’arsenale nucleare degli Stati Uniti, che, ancora una volta, è il maggiore al mondo. A finanziare la ricerca scientifica non di carattere biomedico è la National Science Foundation (NSF), che nel 2016 avrà un budget di circa 7,7 miliardi di dollari.

Nelle università americane verranno spesi, quest’anno, 72,5 miliardi di dollari: pari al 14% della spesa USA in R&S. Il 60% di questi fondi vengono dal governo federale, soprattutto attraverso i grant della NSF e degli NIH. Questi fondi, in termini reali, tendono a diminuire. Per cui le università americane stanno lavorando nel tentativo di reperire risorse altrove: nelle industrie, tra i filantropi e al proprio interno.

La Tabella 6 ci offre un’interessante classifica delle università americane che investono di più in R&S.

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La John Hopkins è un’università privata di Baltimora e detiene molti record. È stata la prima università al mondo a investire in ricerca più di un miliardo di dollari. Ora è la prima a investire più di 2 miliardi di dollari. Ma è anche quella che, negli USA, si distingue per la capacità di far finanziare le sue ricerche da fondi pubblici. Mentre tutte le altre “top ten” ricevono dal governo federale una percentuale compresa tra il 45 e il 55% dei loro investimenti in R&S, la John Hopkins riesce a conquistare oltre 1,5 miliardi di dollari (in grant da NIH e NSF): pari al 71% della sua spesa totale in R&S.

Sei tra le università che rientrano nella classifica delle “top ten” per spesa in R&S rientrano anche nella classifica delle università americane “top 16”. Il che significa che una quota importante delle università americane ha un grosso impegno nella ricerca scientifica.

L’industria, infine. Con 338,4 miliardi di dollari che investirà quest’anno, quella americana resta l’industria che investe di più al mondo in R&S. È interessante notare come le industrie americane si posizionano rispetto al resto del mondo (Tabella 7).

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L’industria americana è leader della R&S in molti settori. Il principale è, senza dubbio, quello delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ICT). In questo settore le industrie americane investiranno, quest’anno, 118,6 miliardi di dollari: il 58,0% del totale mondiale. Una percentuale non solo molto alta, ma anche in crescita (nel 2014 la quota era del 57,0%). In diminuzione, sia in termini assoluti che relativi, sono gli investimenti in biomedicina e in particolare in farmaceutica, a riprova della crescente difficoltà che “Big Pharma” (le grandi aziende farmaceutiche occidentali) sta incontrando negli ultimi anni per diverse cause. Mentre è in crescita un settore che fino a qualche anno fa sembrava maturo, quello delle automobili. Negli Usa si innova (si cerca di innovare) molto nel settore delle auto elettriche e delle auto a guida automatica.

 

La Cina

Si chiama QUESS. Ha raggiunto la base di lancio di Jiuquan a giugno. E quando, entro il mese di agosto, sarà messo in orbita, diventerà il primo satellite per comunicazioni quantistiche al mondo con molte ambizioni: realizzare una svolta nella criptografia, rendendo la trasmissione di messaggi intrinsecamente sicura, testando le leggi della meccanica quantistica e, in particolare, verificando il “quantum entanglement”, la correlazione a distanza tra particelle quantistiche, a scala globale. Davvero una bella impresa, se riuscirà.

QUESS è solo l’ultima delle sfide lanciate dalla Cina per conquistare la leadership mondiale nel campo non solo delle ICT (information and communication technologies), ma dell’intera filiera della ricerca scientifica e dello sviluppo tecnologica: dalle scienza di base alla produzione di beni hi-tech.

Non sono passate che poche settimane, per esempio, da quando la Cina ha mostrato al mondo il più veloce e potente supercomputer al mondo, il Sundai TaihuLigh, tutto fatto in casa.

Gli obiettivi non riguardano solo la tecnologia più avanzata, ma anche la ricerca di base. Non sono passati che pochi mesi da quando Pechino ha inviato nello spazio Monkey King, un satellite per lo studio della materia oscura. E sono molti gli scienziati europei coinvolti in progetti di fisica delle alte energie, come la costruzione di un superacceleratore, da 52 chilometri di circonferenza (il doppio rispetto a LHC, il collider del CERN di Ginevra che è a tutt’oggi il maggiore al mondo) che diventerà una “fabbrica” di bosoni di Higgs o di un grande laboratorio sotterraneo che, sull’esempio di quello del Gran sasso, studierà i neutrini.

Sono circa quarant’anni, ormai, che la Cina è alla rincorsa dell’Occidente in fatto di scienza e tecnologia. Una corsa velocissima, che ha portato il paese asiatico, in termini di investimenti, a superare (nel 2014) l’Unione Europea e a minacciare la leadership degli Stati Uniti d’America: il sorpasso è previsto per il 2023.

Ma, secondo gli esperti del R&D Magazine, una rivista americana specializzata, questa previsione deve essere modificata, perché negli la Cina ha rallentato il ritmo di crescita degli investimenti: da un fantastico 19,5% di crescita media annua tenuto tra il 2003 e il 2014, a un più modesto, ma ancora ragguardevole 6,3% nel 2016 che fa seguito all’8,4% del 2015. Cosicché il sorpasso sugli stati Uniti (Figura 8) sarà potrà essere spostato di qualche anno: avverrà intorno al 2026.

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Ma andiamo con ordine. Nel 2016, secondo il R&D Magazine, la Cina investirà in ricerca e sviluppo (R&S) l’equivalente di 396,30 miliardi di dollari, pari al 2,0% del Prodotto interno lordo (calcolato parità di potere d’acquisto delle moneta). Una quantità di soldi che è pari al 20,4% del totale degli investimenti mondiali in R&S. Appena dieci anni fa, nel 2006, la Cina investiva l’equivalente di 141,7 miliardi di dollari pari al 13,5% del totale mondiale.

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Come si vede in tabella 9, gli investimenti cinesi sono aumentati in dieci anni del 180%, un incremento pari a più di due volte la media mondiale, più di tre volte superiore a quello di Stati Uniti ed Europa (in questo caso la cifra tiene conto dell’intero continente, Russia/CSI esclusi) e maggiore di ben otto volte rispetto a quello del Giappone. Neppure la vivace Corea del Sud è riuscito a mantenere il passo della Cina.

Secondo il R&D Magazine esiste una differenza strutturale tra la spesa in R&S della Cina e degli USA. Governativa, quella cinese; industriale quella americana (Tabella 10).

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In realtà questa differenza andrebbe meglio articolata. È vero che la gran parte della spesa cinese è pubblica (e non a opera di multinazionali straniere, come si diceva un tempo) ed è decisa a livello di governo. Ma è anche vero che per la maggior parte la spesa governativa è indirizzata verso lo sviluppo tecnologico.

Sia come sia, gli investimenti di Pechino in R&S hanno prodotto dei risultati tangibili. In termini scientifici, per esempio (Tabella 11):

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Nel 2015, gli scienziati cinese hanno pubblicato oltre 400.000 articoli su riviste internazionali con peer review. Appena il 17,5% in meno dei loro colleghi degli Stati Uniti. In dieci anni la produzione scientifica cinese è aumentata del 114 %, contro solo il 7% di quella USA e il 16% di quella tedesca. La crescita di produttività della scienza cinese è ancora più ragguardevole se riferita a un periodo di venti anni. Nel 2015, rispetto al 1996, le pubblicazioni degli scienziati cinesi sono aumentate più di 13 volte, contro il 50% di quelle degli americani e l’84% di quelle dei colleghi tedeschi. Oggi la Cina è al secondo posto, nella classifica per paesi delle pubblicazioni scientifiche. Erano al nono posto nel 1996 e, probabilmente, saranno al primo posto assoluto nel giro di due o tre anni. D’altra parte già adesso vantano la comunità scientifica più numerosa al mondo (oltre 1,5 milioni di ricercatori; contro gli 1,4 degli Stati Uniti).

Anche la qualità delle pubblicazioni è in aumento. Nel 2015 il numero di citazioni per articoli dei cinesi è stato pari a 0,40; non molto lontano dalle performance degli scienziati USA (0,60 citazioni per articolo). In alcuni settori i cinesi stanno assumendo una posizione di leadership in termini di quantità (il 25% degli articoli di chimica sono cinesi) ma anche in termini di qualità (il 18% degli highly cited papers, gli articoli più citati, sono scritti in Cina).

Ma ci sono stati risultati tangibili anche in termini di innovazione. Tanto che nel 2013 il numero di brevetti richiesti da scienziati e ingegneri cinesi ha raggiunto quota 825.136, superando nettamente quello dei brevetti richiesti dagli americani (571.612). Nel campo dei brevetti, un indicatore dell’innovazione tecnologica, i cinesi sono ormai saldamente primi.

Gli effetti economici non si sono fatti attendere. Nella classifica della Strategy & Global Innovation 1000, ovvero delle mille aziende considerate più innovative al mondo, nel 2005 rientravano solo 8 imprese cinesi. Nel 2015 il numero è salito a 114. A dimostrazione che la Cina deve essere considerata, ormai, uno dei poli mondiali dell’innovazione.

 

In Asia non c’è solo la Cina

 Toglietele pure la Cina e l’Asia resterà comunque un top player sulla scena mondiale della ricerca scientifica e dello sviluppo tecnologico (R&S). Con 859 miliardi di dollari (a parità di potere di acquisto delle monete), pari al 41,8% della spesa totale mondiale, l’Asia (Cina inclusa), è di gran lunga il continente che in questo 2016 investirà di più in R&S. Ebbene, togliete i 360 miliardi di Pechino, e l’Asia senza Cina con 499 miliardi supererà comunque l’Europa, che in totale quest’anno di miliardi in R&S ne spenderà 409. Solo l’America con 604 miliardi complessivi, la supera. Ma le Americhe senza gli Stati Uniti (che da soli investono 514 miliardi di dollari in R&S) sono poca cosa: l’investimento  complessivo si assesta sui 90 miliardi di dollari. Mentre l’Asia, senza la Cina, resta un gigante.

Tanto più che dei 9,4 milioni di ricercatori che oggi, secondo la Banca Mondiale, lavorano nel mondo ben 5,4 (pari al 57%) operano nel più grande dei continenti.

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L’attitudine verso la scienza è molto diffusa. Intanto l’Asia centro-orientale è capace di piazzare 9 paesi nella lista dei Top 40 (Tabella 13) cui si aggiungo quattro paesi dell’Asia medio-orientale (senza considerare la Turchia, classificata tra i paesi europei). Ebbene, sono asiatici i due paesi primi al mondo per intensità di ricerca. La Corea del Sud, che nel 2016 investirà in R&S il 4,04% del PIL, è prima assoluta. Seguita a stretto giro da Israele (3,93%).

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In Medio Oriente, oltre alla tradizionale attitudine di Israele, vanno emergendo Turchia e Iran. Ma è all’Estremo Oriente che, almeno in termini quantitativi, si gioca la principale partita. Escludendo la Cina, i principali protagonisti di quello che è stato definito il “Rinascimento asiatico”, sono il Giappone (il primo decenni fa a credere nella ricerca e nell’innovazione), la Corea del Sud e l’India.

Il Giappone è stato per alcuni decenni il primo paese al mondo, dopo gli Stati Uniti, per in vestimenti in R&S. Solo da qualche anno è stato superato dalla Cina e ora è terzo assoluto. Anche se per intensità di investimenti (3,4% rispetto al PIL) supera sia la Cina che gli USA. Anche questa lata intensità di investimenti è tradizione del Giappone. Il 77% della spesa giapponese è nello sviluppo tecnologico ed è a opera delle industrie. Ma per rilanciare l’economia, che da molti lustri è stagnante, lo stato ha deciso di irrobustire la sua politica della ricerca per l’innovazione. Il progetto “Sistema Nazionale” varato dal governo nel 2014 ha come obiettivo quello di legare sempre più la ricerca nelle università con quella nelle industrie. Molto viene investito in due progetti nazionali, quello sulla robotica (settore in cui il Giappone è all’avanguardia) e quello sul cervello, che ha l’obiettivo di competere con i progetti gemelli degli Stati Uniti e dell’Europa.

Il sistema universitario è stato di recente riformato, con l’obiettivo di creare entro i prossimi 10 anni ben 22 università di assoluta eccellenza. Per fare questo il Giappone rompe una tradizionale ritrosia e sta puntando sull’internazionalizzazione: il MEXT, il Ministero della scienza, della cultura e dello sport, finanzierà programmi per ospitare in Giappone 30.000 ricercatori dell’Asia continentale e lo studio all’estero di 150.000 ricercatori giapponesi (numeri che vanno paragonati ai circa 100.000 ricercatori che l’Italia ha complessivamente).

La Corea del Sud ha una struttura della spesa in R&S analoga a quella del Giappone: il 78% è a opera dell’industria. In particolare a opera di grande imprese multinazionali. Il settore egemone è quello automobilistico. Il governo ha di recente lanciato un piano quinquennale con l’intenzione di aumentare la spesa in R&S (portandola dal 4,0% al 5,0% del PIL), aumentarne l’efficienza e puntare su nuove industrie. Quinta al mondo per investimenti assoluti in R&S, la Corea del Sud si classifica solo al 12° posto per articoli pubblicati dai suoi scienziati su riviste internazionali con peer review. Non c’è dubbio: la quantità e la qualità della ricerca accademica coreana non è commensurata alla enorme spesa in R&S. È una la cuna che la Corea intende colmare.

L’India, che ha ormai raggiunto la Cina per popolazione, è sesta nella classifica dei paesi che investono di più in R&S. Ma l’intensità degli investimenti (0,8% sul PIL) è ancora piccola rispetto alla media mondiale e a quella degli altri grandi paesi asiatici. Ciò non toglie che l’India abbia già delle posizioni di eccellenza in alcuni settori tecnologici, come quello delle comunicazioni, dello spazio e della biomedicina (in particolare farmaceutica e biotech). Intanto stanno aumentando anche le firme dei suoi scienziati in calce agli articoli delle riviste scientifiche internazionali. Con oltre 110.000 documenti citabili, nel 2015 l’India è quinta nella classifica dei paesi che producono più articoli scientifici. Nel 2000, con poco più di 23.000 articoli, era solo 13a. Intanto l’India attira sempre più investimenti stranieri nel settore della ricerca e dello sviluppo tecnologico più avanzato. Di recente, per esempio, la Microsoft ha deciso di investire 15 miliardi di dollari in un centro a Bangalore, che è ormai tra le  città leader al mondo nell’informatica.

Molti osservatori ritengono che l’Asia abbia un punto debole: la forte attenzione allo sviluppo tecnologico cui non corrisponde un altrettanto forte attenzione alla ricerca di base. Tuttavia è indubbio che non solo ormai l’Asia è il continente che investe di più in assoluto, ma anche quello che incrementa più velocemente la spesa. Insomma, la forbice tra l’Asia e gli altri continenti sembra destinata ad aumentare nei prossimi anni. Per cui non è improbabile che presto si inverta il flusso netto di ricercatori e molti europei (forse anche molti americani) andranno a realizzare i loro progetti in Cina, in Giappone, in Corea del Sud o in India.

 

L’Europa

Un secolo fa l’Europa aveva il monopolio pressoché assoluto degli investimenti in R&S ed era, senza dubbio, l’area tecnologicamente più avanzata del mondo. Oggi il nostro continente è in terza posizione, preceduto dall’Asia e dalle Americhe (essenzialmente dal Nord America, essenzialmente dagli Stati Uniti d’America).

Come mostrato in tabella 14,  frutto di un’analisi comparata di due diversi rapporti della rivista R&D Magazine, negli ultimi anni la distanza dall’Asia è aumentata. Oggi nel continente asiatico gli investimenti in R&S sono il doppio rispetto a quelli dell’Europa. In leggera diminuzione, rispetto al 2006, la distanza dall’America, mentre è in aumento la distanza dal resto del mondo (Russia, Oceania, Africa).

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Questa tendenza potrebbe essere considerata fisiologica. Cento anni fa solo l’Europa considerava importanti gli investimenti in ricerca scientifica e sviluppo tecnologico, oggi è sempre più il mondo intero  a considerarli strategici. E, in effetti, negli ultimi 11 anni l’Europa (i paesi dell’Unione Europea e tutti gli altri del continente, Russia esclusa) non ha modificato l’intensità degli investimenti: era pari all’1,88% nel 2006, è pari all’1,87% oggi.

E tuttavia proprio l’intensità degli investimenti ci dice che l’Europa fa fatica a tenere il passo rispetto ad alcuni paesi. Nel 2006 l’Europa investiva più della Cina, oggi investe meno. Anche la distanza rispetto alla picco Corea del Sud è aumentata.

Certo, è rimasta sostanzialmente invariata la differenza con Stati Uniti e Giappone. Ma 11 anni fa come oggi, l’Europa concede un rotondo 0,9% di intensità di investimenti agli USA e un ancora più marcato 1,5% al Giappone.

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Tutti questi sono numeri che segnano la difficoltà del continente che – almeno a livello di Unione Europa – nell’anno 2000 a Lisbona si era dato come obiettivo quello di diventare leader al mondo nell’economia della conoscenza e che, due anni dopo a Barcellona, aveva indicato nel 3,0% di investimenti in R&S rispetto al Pil la quota necessaria per raggiungere questo obiettivo entro il 2010. Il 2010 è arrivato ed è passato. Siamo ormai prossimi al 2020 e la distanza con i player emergenti tende ad aumentare e quella con i player tradizionali a confermarsi.

Questa fatica a tenere il passo del mondo è, probabilmente, causa ed effetto della crisi generale dell’Europa.

Ma quando parliamo del nostro continente, anche in termini di ricerca e sviluppo, dimentichiamo spesso le enormi differenze che ci sono al suo interno. Sulla base degli investimenti in R&S, invece, si conferma la ormai tradizionale frammentazione dell’Europa in almeno quattro diverse aree (Tabella 16).

La prima è quella del Nord Europa, con al centro la Germania e l’Olanda, a nord i paesi scandinavi (Svezia, Finlandia, Danimarca) e a Sud i paesi transalpini (Svizzera, Austria). Insieme rappresentano il 44,9% degli investimenti in R&S dell’intera Europa. Ma, soprattutto, hanno un’elevata intensità di investimento. Tutti, tranne l’Olanda, toccano almeno quota 2,80% e, dunque, competono pressoché alla pari con i player tradizionali, USA e Giappone.

La seconda fascia è quella dell’Europa centrale: UK, Francia e Belgio. Rappresentano una quota pari al 28,5% degli investimenti totali, con un’intensità d’investimento maggiore della media Europa nella parte continentale (Francia, 2,26%; Belgio 2,24%), mentre il Regno Unito con un’intensità di investimento dell’1,78% è al di sotto della media europea.

C’è poi la fascia mediterranea (Italia, Spagna e Turchia), dove si investe appena il 15% del totale europeo e dove l’intensità degli investimenti è intorno all’1% del Pil. A questi paesi andrebbero aggiunti il Portogallo, la Grecia, Cipro e Malta. Ma la situazione non cambierebbe. Sono tutti in una condizione stabile in termini di intensità di investimenti, tranne la Turchia che è in forte aumento (vedremo cosa succederà dopo le recenti vicende politiche) anche se partiva da condizioni piuttosto marginali.

Infine ci sono i paesi dell’est europeo. Nella nostra tabella entrano solo i due principali (Polonia e Repubblica Ceca). Anche considerando tutti gli altri, rappresentano una quota minima degli investimenti totali europei. E tuttavia, alcuni – a iniziare dalla Repubblica Ceca – sono in rapida crescita.

Forse non è un caso se queste le quattro aree in cui abbiamo diviso l’Europa in termini di investimenti in ricerca siano anche le quattro grandi aree in cui si divide l’Europa economica.

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