La cultura dell’innovazione

A breve, in concomitanza con il Premio dei Premi per l’innovazione, verrà presentato il «Rapporto 2016 Cotec – Che Banca! sulla Cultura dell’Innovazione in Italia» curato dal Censis e di cui lo scorso 7 giugno a Milano è stata fornita un’anticipazione.
L’indagine rileva un orientamento generale degli italiani sostanzialmente positivo e ottimistico verso il nuovo che avanza, inoltre offre un’ampia gamma di informazioni interessanti, utili a comprendere l’idea di innovazione che va affermandosi nel Paese.
Il Rapporto tra l’altro permette di individuare le aree di criticità culturale sulle quali intervenire, i luoghi comuni da sfatare, le paure da fugare e i punti di forza da valorizzare affinché si possa affermare e propagare una più incisiva cultura del fare innovativo.

Tra i dati interessanti emerge che il 50% del campione intervistato è convinto che l’innovazione migliori le condizioni di vita, così come creatività e intuito siano le qualità caratterizzanti un innovatore, mentre più articolato e differenziato si presenta il giudizio sul valore dei benefici apportati nel mercato del lavoro, nella diffusione del benessere e rispetto al divario sociale. In questi ambiti le risposte risentono delle paure, dei ritardi e delle debolezze strutturali del Paese tanto è che una quota, non secondaria, del campione ritiene che in Italia l’innovazione si alimenti in modo casuale, senza il ricorso a precise intenzionalità o capacità progettuali, che le piccole e medie imprese siano le reali protagoniste dell’innovazione in quanto capaci di adattare la propria attività al contesto in evoluzione, mentre poco incisiva è l’azione di stimolo delle istituzioni e degli investitori. Di tutt’altro verso, invece, è la percezione su quanto operi per favorire l’innovazione negli altri Paesi. In questo caso emerge un’idea più strutturata e governata del processo e un diverso ruolo di istituzioni, imprese e mondo della ricerca.

I dati confermano che nel tempo si è diffusa un’idea parziale di innovazione, focalizzata prevalentemente sui benefici ottenibili ponendo in secondo ordine tutto ciò che invece è propedeutico e funzionale a far scattare il processo di avvio e di mantenimento tra cui la fluidità delle relazioni fra ricerca e impresa, la presenza di una cultura imprenditoriale, la disponibilità di risorse – strumentali, finanziarie, umane -, di infrastrutture – tecnologiche, scientifiche -, nonché l’adeguatezza di norme e le caratteristiche del territorio.
Ma insistere, come spesso accade per eccesso di semplificazione, solo sulla cuspide dei risultati o dei benefici possibili grazie all’innovazione senza tener conto di quanto necessario nel backstage dell’innovazione sebbene utile, non porta lontano, perché non tiene adeguatamente conto dei tempi, né alle difficoltà da superare e delle decisioni da assumere.

A partire dal dato che per esserci innovazione c’è bisogno di innovatori, o meglio, di persone, formate e propense a rischiare, a investire su ciò che è inedito, non noto, persone che non temono l’insuccesso, capaci di farsi interpreti e portavoce del cambiamento. Qualità queste, che contrariamente a quanto si crede, non sono innate, ma si acquisiscono nel tempo, attraverso la formazione, investendo in idee e progetti, indipendentemente dal loro esito, perché innovatori non si nasce, lo si diventa anche facendo tesoro delle esperienze negative perché è una progressiva, costante azione di apertura al cambiamento, al nuovo.
Purtroppo come tutti i Paesi conservatori e moderatamente innovatori siamo poco inclini a concedere tempo, fiducia e credito a quanti, senza adeguate garanzie, si mettono in gioco.
La paura dell’insuccesso impantana e ingessa, perché viene vissuto e valutato come fallimento. Ciò genera una resistenza non solo psicologica, ma culturale, politica, economica, sociale. Non consideriamo adeguatamente che chi innova non ha, né può avere garanzie o sicurezze da offrire perché sta tracciando ed esplorando il nuovo, e il nuovo si costruisce solo con il nuovo.

Gli innovatori, poi, benché tenaci ed ottimisti, non possono essere eroi solitari, né operare a macchia di leopardo. Per questo vanno aiutati a fare rete, sistema, per condividere i processi, ridurre i rischi, massimizzare il positivo che c’è in ogni esperienza. Sarebbe auspicabile, per ciascuno di loro, poter operare in un ambiente favorevole sia sotto il profilo normativo sia delle infrastrutture e dei servizi. Poter accedere a strumenti finanziari adeguati, come i capitali di rischio, e poter attingere a buona, avanzata, ricerca scientifica, la quale va rielaborata e resa disponibile nelle forme più idonee ed adeguate al suo utilizzo.
Soprattutto, poi, in questo campo, nevralgico all’innesco e all’alimentazione del processo innovativo occorre impegnarsi per liberarlo da non pochi pregiudizi– come quelli sulla finalizzazione e usabilità della ricerca –che rendono poco fluidi i rapporti fra questo mondo e quello dell’impresa.
Ogni nuova conoscenza, se scientificamente valida potrà sempre trovare una possibile applicazione e utilità, il non coglierlo immediatamente è dovuto, paradossalmente ed esclusivamente a un deficit di conoscenze e di tecnologie, il passaggio dall’idea alla prototipizzazione fino alla produzione è una strada da tracciare ogni volta daccapo ed è tutta in salita per questo c’è bisogno di fiducia, credito, tempo.

L’assenza di una adeguata sensibilità alla valorizzazione dei risultati della ricerca sia da parte dei ricercatori sia da parte degli imprenditori, come confermano i dati sui brevetti, indebolisce il Paese: le conoscenze sviluppate dalle nostre università e centri di ricerca, di qualità sempre molto alta e competitiva nonostante le criticità del settore, non sempre trovano adeguata finalizzazione o utilizzo presso il sistema produttivo nazionale.
Pertanto accade che sviluppiamo e mettiamo in circolo molta più conoscenza rispetto all’innovazione generata e finiamo con l’importare prodotti provenienti da Paesi che sanno meglio utilizzare le nostre scoperte per le loro industrie. Quante occasioni mancate o lasciate appassire. E questo è avvenuto, e purtroppo prosegue, in ogni settore produttivo: dall’informatica alla farmaceutica, dall’agroalimentare al manifatturiero.
Ovviamente per diffondere una cultura orientata all’innovazione, formazione e conoscenze da sole non bastano.
Occorre superare le numerose resistenze che ne rallentano la propagazione, smantellare quella sovrabbondanza di conservatorismo del sistema imprenditoriale, che unito a una eccessiva specializzazione in settori a basso contenuto di tecnologie, ha allontanato l’Italia dai Paesi più innovatori.
Una distanza che viene amplificata anche per le caratteristiche dimensionali del sistema produttivo nazionale, fatto prevalentemente da piccole e medie imprese.

In passato, ma non solo viste le risposte degli intervistati, si è ritenuto, che piccolo fosse bello, aiutava a essere competitivi, a rispondere alle domande di flessibilità dei mercati e a offrire terreno fertile alla creatività italiana.
Di conseguenza il made in Italy è stato per anni non solo un marchio di qualità, ma ha rappresentato anche una specifica posizione di politica industriale, non comprendendo che la dimensione esercita un ruolo importante sia per la tenuta di mercato, sia per poter sostenere i necessari investimenti in ricerca e sviluppo senza i quali non ci può essere continuità di innovazione e vincere sul terreno dei cambiamenti e della competitività.
Ma la stessa eccezionale creatività italiana, sebbene non abbia perso credibilità sui mercati mondiali, di fatto è depotenziata, sottoutilizzata per l’assenza di grandi imprese e per l’impossibilità di poter fare industrializzazione della creatività.
Inoltre, ma non da ultimo, l’innovazione ha bisogno di velocità di azione e prontezza di risposta. Caratteristiche sulle quali è decisivo l’intervento delle istituzioni pubbliche. Una selva di leggi, regolamenti e procedure nazionali, regionali, comunali non aiuta, non attrae, non facilita.
Occorre semplificare, razionalizzare, allineare, mettendo a fattor comune tutti quegli elementi e quelle attività propedeutiche, stimolanti e facilitanti i processi innovativi di cui sono titolari e responsabili i diversi protagonisti dell’innovazione.

È una regia non semplice, perché tocca –in maniera non certo neutrale – più aree e ambiti di competenza e interesse, oltre a più livelli di responsabilità politico-amministrativa, ma di cui il Paese ha necessità e urgenza se intende, davvero, promuovere e sostenere la cultura del cambiamento e della modernità.
L’introduzione di nuovi paradigmi culturali deve puntare a favorire una rinascita, attivare più robuste alleanze nel corpo sociale, a guardare con maggior fiducia al futuro, ad attivare più efficacemente il potenziale di energie, talenti ed eccellenze di cui il nostro Paese è ricco.
L’intento deve essere finalizzato a caratterizzare positivamente l’ambiente istituzionale e socioeconomico per far nascere un capitalismo imprenditoriale che sappia utilizzare con successo le opportunità dell’era della conoscenza e della globalizzazione oltre a una nuova generazione di ricercatori e scienziati più aperta e pronta a mettersi in gioco e saper fare della creatività e conoscenza leve per la crescita e il benessere.