Marco Pivato, Noverar le stelle. Che cosa hanno in comune scienziati e poeti

Marco Pivato, Noverar le stelle. Che cosa hanno in comune scienziati e poeti

L’agile volume di Marco Pivato (Donzelli, Roma 2015) si inserisce in una riflessione che ha la sua origine moderna nel testo di Charles Percy SnowThe twocultures and a second look An Expanded Version of The TwoCultures and the ScientificRevolution (1963).

La discussione sul ruolo, sul peso specifico e sulle relazioni tra humanities e scienza è diventata un leitmotiv negli ultimi cinquant’anni. E in Italia ha assunto un valore particolare per l’evidente squilibrio nella diffusione e nel gradimento della cultura scientifica rispetto a quella umanistica. Pivato apporta una specificazione e un valore aggiunto al dibattito.

La specificazione, evidente nel titolo, consiste nell’orientarsi sul rapporto tra scienza e poesia, nello sforzo di avvicinarle come fonti parallele di conoscenza e di comunicazione, mosse entrambi dalla “meraviglia”. Il valore aggiunto è fornito dalla competenza professionale di Pivato, che da giornalista scientifico ha potuto disporre nel libro una diffusa presenza di interviste dirette a scienziati, poeti e critici letterari, accumulata nel tempo («nota dopo nota, appunto dopo appunto, dopo svariati anni di professione si è accumulata una consistente mole di materiale», p. 8). Nell’ordine di apparizione nel libro, vengono richiamati i pareri di Alberto Casadei (il più recente, del 2014), Giuseppe O. Longo, Piero Angela, Tonino Guerra, James D. Watson, Margherita Hack (il più lontano, del 2007), Pietro Pietrini, Colin Hendrie, Angelo Giavatto, Giuseppe Pellizzari, Gianni Zanarini, Hans Magnus Enzensberger, Gianvito Martino, Stanislas Dehaene, Jorie Graham, Ezio Raimondi, Semir Zeki, Leslie Sage, SergeHaroche. Un ottimo parterre di grandi scienziati, poeti famosi e raffinati critici letterari, tutti legati dall’interesse per la relazione tra scienza e poesia. Interesse attestato a partire da uno scritto del critico letterario inglese Ivor Armstrong Richards, Scienza e poesia(1926), che Pivato commenta: «Come la scienza, la poesia si interroga e aguzza lo sguardo nel buio: è un’operazione votata allo scopo incessante, necessario e irrimandabile di dare un significato alle cose del mondo»(p. 6).

È questo il filo conduttore dalla riflessione di Pivato: scienza e poesia sono visioni del mondo, forme correlate di un interrogativo per dare senso al rapporto degli uomini con il mondo, diverse per il linguaggio, il metodo, lo stile, ma vicine nella tensione a scoprire l’universo: «La tensione e l’aspirazione a scoprire e ricostruire l’universo, interno ed esterno, sono intrinseche anche alla natura della poesia, oltreché alla natura della scienza» (p. 7). Pivato definisce quindi lo scopo del libro nella ricerca di incontri, invasioni di campo, deviazioni, deragliamenti che configurano un rapporto ininterrotto tra scienza e poesia, motivato da curiosità e meraviglia dinanzi al mondo: «Di questi intrecci, di questi incontri, ci occuperemo nel volume; getteremo uno sguardo su queste impreviste “invasioni di campo”, su queste strane e inaspettate “deviazioni”, su questi curiosi e fortunati “deragliamenti” che hanno arricchito e continuano ad arricchire la strada che ognuno di noi percorre per cercare di andare oltre l’ignoto» (pp. 7-8).

I cinque capitoli del libro percorrono, dopo uno sguardo introduttivo, questi incroci, con l’attenzione costante e far corrispondere linguaggi e stili poetici e scientifici nello stesso quadro di riferimento, come mostrano i titoli dei capitoli: Le strade si incrociano; Il viaggio nell’ignoto di scienziati e poeti; Se la poesia parla di scienza e la scienza di poesia; Sulla parola, strumento di scienziati e poeti.

Nel primo capitolo Pivato ribadisce nella scienza e nella poesia la compresenza di un aspetto conoscitivo e di una medesima ricerca gnoseologica. Interessante il cenno al contributo sulla poetica cognitiva fornito da Alberto Casadei (cfr. Poetiche della creatività. Letteratura e scienze della mente, Milano 2011):«La poetica cognitiva rafforza l’idea che il momento della concezione di una poesia è il momento di una nuova conoscenza: una presa d’atto del reale più raffinata di quella immediata e tradizionale» (p. 17). Si tratta peraltro di una sottolineatura cara a Italo Calvino, che già nella Sfida al Labirinto (1962) sottolineava come «l’atteggiamento scientifico e quello poetico coincidono: entrambi sono atteggiamenti insieme di ricerca e di progettazione, di scoperta e di invenzione»[1].

E tale “poetica cognitiva” trova nelle immagini e nella metafora il suo strumento privilegiato. Al proposito Pivato richiama una riflessione di Giuseppe O. Longo (cfr. Il senso e la narrazione, Milano 2008) che sostiene che la metafora, ampiamente usata, oltre che nella poesia, nel linguaggio scientifico, ha “capacità antientropica”, è lo strumento per eccellenza con il quale «tentiamo di semplificare il mondo conferendogli un ordine e un senso» (p. 22). Una metafora è in qualche modo anche la formula più famosa della storia – “E=mc2” – che presenta «un significato evocativo, creativo e divertente» (p. 25). Il trait-d’union tra scienza e poesia fornito dalle immagini, «strumenti comuni a scienza e poesia», trova la sua maggiore espressione proprio nella poesia, che tramite la metafora trasforma le parole in immagini: «nessuna forma letteraria è in grado di creare immagini potenti e altamente seducenti quanto la poesia»(p. 26).

Su questo crinale metaforico è facile per Pivato richiamare la lunga trama di riflessioni che tra scienziati e poeti legano bellezza e verità, a partire dai versi dell’Ode su un’urna greca di John Keats («la bellezza è la verità e la verità è bellezza. Questo solo / sulla Terra sapete, ed è quanto basta»,vv. 49-50). Interessante, in questa direzione l’attenzione al nesso scienza-poesia in Giacomo Leopardi, che Pivato trova nella «sua esigenza di conoscere, di indagare senza falsi e balsamici schermi la natura» (p. 50)[2]. Ma la curiositas sul mistero dell’origine accomuna una lunga teoria di poeti, specie novecenteschi, che «mettono in scena il dramma della ricerca di un rapporto armonico tra sé e il mondo» (p. 36), tra i quali vengono menzionati Eugenio Montale, Giorgio Caproni, Mario Luzi, Giuseppe Ungaretti, Andrea Zanzotto. I sentimenti oggetto dell’intera tradizione poetica sono oggi sottoposti all’analisi delle neuroscienze, che «si concentrano sulle radici oggettive di fenomeni che appaio soggettivi» (p. 37). In questo caso la ricerca scientifica produce un disvelamento delle radici fisico-chimiche dei sentimenti, senza per ciò stesso intaccare la ricchezza metaforica ed evocativa del linguaggio poetico.

Proprio sulla questione della inserzione del discorso poetico su quello scientifico e viceversa si sofferma il quarto capitolo. La presenza di una corrispondenza e di una vera e propria commistione è evidente nel mondo greco e romano. Pivato sostiene che «La poesia delle origini assumeva quasi naturalmente su di sé un contenuto che oggi chiameremmo “scientifico”» (p. 59). E ricorda il De rerum natura di Lucrezio, ma si potrebbe andare a ritroso, con Empedocle e con lo stesso Parmenide, che nella seconda parte, perduta, del suo poema descriveva la physis.

La questione diviene intricata se ci si avvicina al nostro tempo, che ci sia una scissione e una separatezza tra humanities e scienze è un portato evidente della specializzazione del sapere, che procede a ritmi talmente serrati, che anche all’interno di una macro-area, come la fisica, è difficile la comunicazione tra specialisti di settori diversi. Pivato sottolinea a ragione che nello spazio della comunicazione scientifica e della divulgazione questa scissione, che peraltro colpisce maggiormente la letteratura, si riduce e vi sono efficaci esempi di interconnessione: «Una scissione, dunque, questa tra cultura scientifica e cultura umanistica in generale, e, per quello che interessa il nostro discorso,tra scienza e letteratura (in primis poesia), di cui pare soffrire maggiormente quest’ultima, che sembra ostentare sempre di più, specie in Italia (tranne rare eccezioni), un atteggiamento snobistico nei confronti di un sapere con cui in passato aveva convissuto felicemente.

Dal canto suo, invece, la scienza, quando si tratta di divulgare le proprie conquiste, come abbiamo detto, pare non avere remore a utilizzare strumenti tipici del linguaggio poetico.» (p. 69). Non casualmente l’autore riporta una poesia scritta e recitata dal noto fisico Richard  Feynman nel 1955 all’Accademia nazionale delle scienze degli USA, che si conclude con il chiasmo «un universo di atomi, / un atomo nell’universo» (p. 77). Bisogna però aggiungere che il potere della parola, vista da Pivato come la base comune della cultura scientifica e umanistica, e ricondotta alla sua efficacia neurologica[3], si condensa nella comunicazione, terreno d’incontro tra scienza e letteratura, ma nella loro dimensione pratica non si possono trovare legami forti tra il mestiere dello scienziato e quello del poeta: l’estensione potente della dimensione sperimentale, strumentale e tecnologica nel primo, la profondità dell’impegno semantico e linguistico nel secondo richiedono competenze e procedure molto diverse. Ciò non toglie tuttavia che, oggi come quattromila anni fa, «poesia e scienza nascono dal medesimo sentimento e hanno la medesima esigenza: capire, di fronte all’ambivalente meraviglia del mondo, come interpretare e successivamente comunicare la sostanza che si cela dietro il mistero della realtà che ci circonda. Perciò il mestiere comune a scienziati e poeti è, in ultimo, quello di risvegliare nell’uomo il desiderio di intraprendere il viaggio della conoscenza e fornirgli gli strumenti per orientarsi nel cammino» (p. 91).

 

Note

[1] Sul rapporto tra scienza e letteratura nello sguardo “cosmico” di Calvino mi permetto di rinviare al mio La letteratura italiana dinanzi al cosmo: Calvino tra Galileo e Leopardi, “Lettere Italiane”, LXII, 1, 2010, pp. 63-107.

[2]Al tema ho dedicato cinque libri; mi limito a ricordare il primo e l’ultimo: Leopardi e “le ragioni della verità”. Scienze e filosofia della natura negli scritti leopardiani, Roma 2003; Io sono quella che tu fuggi. Leopardi e la natura, Roma 2015.

[3]Pivato riporta e commenta le affermazioni di Marcello Buiatti: «“sotto l’effetto degli stimoli esterni, come per esempio l’ascolto di un discorso, i geni del Dna producono elementi come le neurexine, alcune tra le proteine che hanno il potere di dare forma a nuovi collegamenti tra le cellule del cervello”. Ecco forse perché “da un dialogo non di esce indenni”, come afferma Enzensberger: ogni volta che parliamo o che ascoltiamo il nostro cervello accresce il mumero di connessioni e si rimodella» (pp. 81-82).