Dalle dispute tra eruditi all’antiscienza *

Le “battaglie tra eruditi”, raccontava Jonathan Swift in un’operetta satirica del 1704, si concludono sempre con l’affissione in pubblico di trofei “noti al mondo con nomi diversi, quali: dispute, controversie, repliche, brevi considerazioni, risposte, osservazioni, critiche, obiezioni, confutazioni”.

Dopo essere stati esposti per qualche tempo, i trofei vengono trasferiti nelle biblioteche,  “dove restano, in un’area specifica loro destinata, e da allora in poi vengono chiamati libri  di controversie”.  Come ricorda Giulio Giorello in un saggio del 1985 (da cui ho tratto la citazione swiftiana de La battaglia dei libri)[1], nel corso dei secoli la controversia in campo scientifico ha rappresentato essa stessa oggetto di controversia, essendo giudicata da alcuni come un incidente di percorso (Leibniz: “Quando sorgeranno delle controversie, non ci sarà maggior bisogno di discussione tra due filosofi di quanto ce ne sia tra due calcolatori. Sarà sufficiente, infatti, che essi prendano la penna in mano, si siedano a tavolino, e si dicano reciprocamente – chiamato, se loro piace, un amico –: calcoliamo[2]),  da altri come la via regia per il progresso delle conoscenze (Mill: “Se una verità fondamentale non trova oppositori è indispensabile inventarli e munirli dei più validi argomenti che il più astuto avvocato del diavolo riesce a inventare.”[3]).

Conviene, anzitutto, restringere il campo semantico del termine “controversia scientifica”. Il filosofo della scienza Aristides Baltas suggerisce di porre sotto questa etichetta non tanto gli episodi di semplice disaccordo tra teorie, quanto piuttosto le dispute che non possono essere risolte ricorrendo ai canoni di indagine comunemente accettati da una comunità scientifica,  e che anzi talvolta giungono  a mettere in discussione tali canoni[4]. Secondo Baltas, le controversie scientifiche propriamente dette sono caratterizzate da un disaccordo sulle assunzioni di sfondo – quell’insieme di princìpi guida, credenze, idee e presupposti  che connotano i programmi di ricerca e le filosofie spontanee degli scienziati, e il cui ruolo nella scienza è stato ampiamente riconosciuto dall’epistemologia post-popperiana. In questa accezione le controversie scientifiche oppongono quindi interi paradigmi teorico-sperimentali.

Le assunzioni di sfondo possono essere suddivise in due gruppi:  quelle che riguardano  la  struttura concettuale e le interpretazioni delle teorie, e quelle che attengono agli stili di ragionamento, alle tradizioni di ricerca, ai sistemi di valori e di preferenze. Una controversia scientifica mette in gioco alcune, o molte, di queste categorie, e non riguarda solo il contenuto empirico delle teorie e la loro capacità di dar conto dei fenomeni. Inoltre, a seconda che il disaccordo verta sul primo o sul secondo gruppo di assunzioni, la controversia risulterà più o meno profonda, sfociando nel primo caso in un radicale rinnovamento di una disciplina, o persino nella nascita di una nuova scienza. È proprio il coinvolgimento (e la messa in discussione) delle assunzioni di sfondo che rende le controversie scientifiche particolarmente feconde: “Se un nuovo candidato alla funzione di paradigma – scrive Thomas Kuhn – dovesse essere giudicato fin dall’inizio soltanto dal rigido punto di vista della sua relativa capacità nel risolvere problemi, le scienze subirebbero un numero molto minore di rivoluzioni fondamentali[5].

Senza riandare a casi di studio classici, due esempi novecenteschi ci permetteranno di illustrare sommariamente alcune caratteristiche generali delle controversie scientifiche. Nell’ambito della fisica delle particelle una controversia ben nota e documentata[6] è quella che ha contrapposto, negli anni Sessanta del secolo scorso, la Teoria Quantistica dei Campi (TQC) e la Teoria della Matrice S (TMS). Il problema sul tappeto era la comprensione di una delle forze fondamentali della natura, la forza forte, responsabile della struttura nucleare e delle interazioni riguardanti una classe molto ampia di particelle, gli adroni. La TQC, forte del successo ottenuto un decennio prima nella descrizione delle interazioni elettromagnetiche, si proponeva di spiegare le interazioni forti in termini di particelle elementari, non ancora individuate. La TMS, dovuta principalmente al fisico americano Geoffrey Chew,  mirava invece a predire tutti i processi forti a partire da alcune proprietà generali postulate per la matrice S (l’insieme delle probabilità di transizione dallo stato iniziale allo stato finale di un processo).

I due programmi di ricerca differivano sotto molti punti di vista[7]. Mentre la TQC ipotizzava che esistessero campi fondamentali non osservabili corrispondenti a particelle elementari (a partire dalle quali si sarebbero potute costruire le particelle composte), la TMS poneva come proprio fondamento i processi e le grandezze osservabili, e trattava tutte le particelle allo stesso modo, come oggetti composti. Chew giustificava filosoficamente la TMS sulla base del principio di ragion sufficiente (“Se è possibile calcolare la matrice S senza distinguere delle particelle elementari, perché introdurre tale concetto?”) e usava una metafora politica – “democrazia nucleare” – per indicare la propria visione “egualitaria” delle particelle. Più che i risultati delle due teorie, gli elementi di contesa riguardavano le ontologie, i metodi, i criteri di valutazione e gli obiettivi stessi della fisica teorica delle alte energie. La controversia durò relativamente poco, all’incirca un decennio,  e si esaurì per due ragioni: da un lato, perché la TMS non riuscì a realizzare il proprio ambizioso programma, dall’altro perché furono identificate le particelle elementari dell’interazione forte e venne formulata la loro teoria dei campi. L’esito del confronto fu un generale avanzamento delle conoscenze,  perché il paradigma vincente (la TQC) ne uscì rafforzato, e quello perdente (la TMS) diede comunque utili indicazioni fenomenologiche, sfociando infine in un programma di ricerca del tutto insospettato, la teoria delle stringhe.

Alcune controversie scientifiche si protraggono per tempi molto lunghi e segnano profondamente il corso di una disciplina. È il caso, nell’ambito delle scienze della Terra, della controversia tra la dottrina della permanenza (l’idea che la geografia del pianeta non abbia subito sostanziali modifiche dopo la solidificazione della crosta terrestre) e la teoria della deriva dei continenti, formulata dallo scienziato tedesco Alfred Wegener nel 1912. Il dibattito tra fissismo e mobilismo durò mezzo secolo, concludendosi infine con il successo della teoria di Wegener, che assunse la forma più sofisticata della tettonica a zolle, uno dei pilastri dell’attuale geologia.

Come ha mostrato lo storico della scienza Marco Segala in un approfondito studio sull’argomento[8], a confrontarsi furono due concezioni diverse  (sul piano metodologico e assiologico) della ricerca in geologia, inserite in un’accesa dialettica tra comunità scientifiche, tradizioni nazionali e gruppi disciplinari. La teoria di Wegener presentava pregi e difetti, non diversamente dalle teorie permanentiste; la posizione dei singoli scienziati, tuttavia, non fu determinata solo da una valutazione comparativa dei successi e degli insuccessi, ma da una serie di fattori attinenti alle assunzioni di sfondo: per esempio, l’importanza attribuita – per inclinazione personale o per aderenza a una certa tradizione – alle sottodiscipline (Paleogeografia, Geodesia, Geofisica, Climatologia, ecc.) che sembravano sostenere o contraddire i due paradigmi.

Durante il suo svolgimento, una controversia scientifica non è sempre percepita come un fatto positivo da tutti i contendenti. Così è accaduto nel caso della teoria di Wegener. Mentre alcuni degli scienziati coinvolti ritenevano che il conflitto delle idee fosse comunque fecondo e  portasse a una migliore comprensione dei fenomeni considerati, altri pensavano che le energie dissipate nella discussione fossero sottratte al progresso del sapere, e vedevano il rischio dell’improduttività e della stagnazione. Ma, a posteriori, la lunga e divisiva controversia che oppose mobilisti e fissisti diede un contributo cruciale alle scienze della Terra, fornendo alla teoria vincente una base empirica solida e capace di abbracciare ambiti fenomenologici e disciplinari prima d’allora separati. “Il progresso della conoscenza – conclude Segala – passa anche attraverso la controversia e lo stesso aspetto dinamico della creatività scientifica avrebbe un’altra fisionomia se di essa si facesse a meno. Attesa e paventata, amata e odiata, la controversia è un momento essenziale di quell’impresa cognitiva che chiamiamo scienza[9].

Nel corso degli ultimi decenni è progressivamente cresciuto l’impatto sociale delle controversie su temi scientifici, le quali occupano ormai una frazione rilevante del dibattito pubblico. Ma molte delle cosiddette “controversie” scientifiche su cui i media accendono periodicamente i loro riflettori sono in realtà pseudocontroversie, riguardanti questioni che vedono, da una parte, un larghissimo consenso (fondato su fatti ed evidenze) nella comunità scientifica, dall’altra, opinioni minoritarie o addirittura isolate di soggetti portatori di precisi interessi. Quella che viene messa in scena è dunque una finzione,  che è stata parodisticamente riassunta così: “Il matematico dice che 2 + 2 = 4, l’esponente del Fronte di Liberazione Duodecimale sostiene che 2 + 2 = 5, il moderatore conclude che 2 + 2 vale qualcosa come 4,5  ma il dibattito resta aperto[10].

Una delle più perniciose pseudocontroversie degli ultimi anni, coloratasi spesso di tinte politiche, è quella sulla presunta correlazione tra il vaccino trivalente MPR (contro morbillo, parotite e rosolia) e l’autismo. La storia ha avuto inizio nel 1998 quando la prestigiosa rivista medica The Lancet pubblicò un lavoro del britannico Andrew Wakefield, in cui si presentavano alcune evidenze, rivelatesi poi non solo infondate, ma false,  di un possibile nesso causale tra il vaccino e una serie di disturbi di tipo autistico. Sebbene la ricerca di Wakefield fosse apparsa subito metodologicamente debole e numerosi studi avessero smentito i suoi risultati,  le vaccinazioni in Gran Bretagna subirono un drastico crollo, con una conseguente epidemia di morbillo e addirittura alcuni decessi. L’atteggiamento dell’opinione pubblica fu molto influenzato dal modo in cui la questione era stata trattata dai mezzi di informazione. “Nel tentativo di offrire un quadro equilibrato – ha scritto l’Economiste di intrattenere il pubblico con un confronto verbale vivace, i programmi di attualità contrapposero schieramenti di opinione opposta. In un angolo c’erano gli esperti sanitari che sostenevano il vaccino. Nell’altro c’erano medici carismatici o genitori convinti che il vaccino avesse fatto diventare i loro figli autistici”.[11]

La percezione del pubblico, nel migliore dei casi, era che esistessero due posizioni scientifiche contrapposte ma paritarie, e che nell’incertezza fosse prudente evitare la vaccinazione. Titoli giornalistici del tipo “Il dibattito sulla vaccinazione si intensifica mentre dilaga il morbillo” rafforzavano questa sensazione diffusa, attribuendo legittimità a un confronto che, semplicemente, non aveva ragione d’essere. Inoltre, poiché il vaccino era somministrato in strutture pubbliche, alcuni politici e giornali di destra cavalcarono l’allarmismo per attaccare le politiche sanitarie governative. Questa coloritura politica si è trascinata fino a oggi e ha assunto toni accesi soprattutto negli Stati Uniti, dove conservatori del Tea Party e candidati repubblicani alla presidenza hanno continuato a fare dichiarazioni scientificamente infondate sui vaccini, appellandosi  a una  presunta “libertà di scelta delle famiglie”, che, come si è detto, ha mietuto vittime e rischia di far ricomparire malattie che erano state debellate.

La pseudocontroversia per eccellenza del tempo presente riguarda il cambiamento climatico e verte, come è noto,  su tre questioni: 1) la realtà, 2) l’origine antropica, 3) gli effetti dell’aumento della temperatura media sul pianeta. Dopo una fase iniziale – negli anni Ottanta – di vero dibattito, da un paio di decenni a questa parte la comunità scientifica ritiene che il cambiamento sia un dato di fatto e che esso sia attribuibile non a cause naturali ma all’azione dell’uomo. Alcuni sondaggi mostrano che la quasi totalità degli esperti di Fisica dell’atmosfera concorda su questi punti. Sebbene nella scienza non valga ovviamente il principio di maggioranza, una così ampia convergenza di vedute è paragonabile a quella che si registra per tutte le ipotesi e teorie ritenute ragionevolmente appurate e non più oggetto di controversia. A un tale grado di consenso tra gli specialisti, tuttavia, non corrisponde un’analoga uniformità di opinioni presso il pubblico: un’indagine condotta nel 2015 dal Pew Research Center  ha mostrato che circa la metà del pubblico americano non crede che il cambiamento climatico sia dovuto ad attività umane, e il 25% nega l’evidenza stessa di un aumento delle temperature[12]. L’ampio divario tra le opinioni degli esperti e le opinioni del pubblico è probabilmente il risultato di campagne di informazione che hanno prodotto una vera e propria illusione ottica, instillando l’idea infondata che nella comunità dei climatologi  esista una grande diversità di posizioni.

In un importante libro del 2010, Merchants of Doubt, gli storici della scienza Naomi Oreskes e Erik Conway hanno documentato il modo in cui un ristretto manipolo di scienziati, legati a precisi interessi industriali e a centri ideologici della destra conservatrice, è riuscito, nel corso di alcuni decenni, a occupare la scena pubblica con le proprie tesi negazioniste in materia di pericolosità del fumo, di piogge acide, di buco dell’ozono e, infine, di cambiamenti climatici[13]. Degno di nota è il fatto che a intervenire su tutte le questioni sono stati sempre gli stessi personaggi,  nessuno dei quali,  peraltro, specialista  dei problemi in oggetto.

L’azione di questi “mercanti del dubbio” è stata favorita e amplificata dai media, che hanno concesso loro uno spazio sproporzionato, per mera convenienza o per un malriposto spirito di “imparzialità” ed “equilibrio”. Un confronto aspro tra avversari rende in effetti molto di più, sul piano giornalistico, del consenso, e viene quindi inscenato anche quando non corrisponde allo stato dell’arte in un certo campo del sapere. Un rapporto del 2011 sulle trasmissioni scientifiche della BBC, commissionato dalla stessa azienda televisiva pubblica al genetista Steve Jones,  ha messo in guardia proprio da questo tipo di pratica – dal cercare a ogni costo un contraddittorio  che falsa la realtà.[14]  La scienza si nutre di disaccordi, ma raggiunge in molti casi un consenso, basato su evidenze. Sarebbe un errore confondere la negazione dell’evidenza con lo scetticismo. Quest’ultimo fa parte integrante del bagaglio intellettuale  dello scienziato, ma lo scettico, a differenza del negazionista,  è pronto a cambiare le proprie convinzioni di fronte a nuovi fatti e a nuovi elementi di prova. Un altro grosso equivoco che alimenta le pseudocontroversie e viene abilmente usato da chi le sfrutta per propagandare false verità  concerne l’affidabilità dei risultati scientifici. Si è erroneamente portati a credere che la scienza fornisca certezze assolute, e se non lo fa la si giudica difettosa: la mancanza di certezza  si traduce allora nella facoltà di dubitare di tutto. Si tratta,  però,  di una visione distorta delle cose: la scienza produce sempre risultati affetti da incertezze (che vengono valutate), e le sue previsioni “ragionevolmente certe”  sono quelle il cui grado di incertezza – comunque non nullo – è ridotto al minimo.

Possiamo dire, in conclusione, che se le vere controversie scientifiche oppongono, in una cornice dialettica fruttuosa, paradigmi e programmi di ricerca differenti, le pseudocontroversie oppongono la scienza all’antiscienza (nelle sue varie forme). Le prime sono strumenti di crescita della conoscenza; le seconde sono spie del malessere culturale di una società che spesso stenta a fare i conti con le pratiche e le regole scientifiche.

 

*Tratto dalla rivista Scienza & Società n. 25/26 – “Il volo della ragione”

 

Note

[1] G. Giorello, Lo spettro e il libertino. Teologia, matematica, libero pensiero, Mondadori, Milano, 1985.
[2] G.W. Leibniz, Sulla scienza universale o calcolo filosofico, in Scritti di logica, a cura di F. Barone, vol. 1, Laterza, Roma-Bari, 1992, p. 172.
[3] J.S. Mill, Saggio sulla libertà, a cura di G. Giorello e M. Mondadori, Il Saggiatore, Milano, 1981, p. 63.
[4] A. Baltas, Classifying Scientific Controversies, in Scientific Controversies. Philosophical and Historical Perspectives, a cura di P. Machamer, M. Pera e A. Baltas, Oxford University Press, Oxford, 2000.
[5] T.S. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, Torino, 1978, p. 190.
[6] Vedi, per esempio, Scarpa F.M., Una rivoluzione mancata, Bollati Boringhieri, Torino 2008.
[7] T.Y. Cao, Conceptual Developments of 20th Century Field Theories, Cambridge University Press, Cambridge, 1997, pp. 220-229.
[8] M. Segala, La favola della terra mobile. La controversia sulla teoria della deriva dei continenti, Il Mulino, Bologna, 1990.
[9] M. Segala, op. cit., p. 285.
[10] S. Jones, A review of the impartiality and accuracy of the BBC’s coverage of science, BBC Trust, 2011.
[11] Politics and vaccinations. What experts say, and what people hear, “The Economist”, 5 febbraio 2015. La stessa tragica farsa di cui l’Economist  parla al passato (per ciò che concerne la Gran Bretagna) è andata in onda il 12 maggio 2016  nel programma “Virus” di Rai 2, in cui è stato dato ampio risalto alle deliranti tesi anti-vaccini di un personaggio dello spettacolo, mentre sono state relegate negli istanti finali le argomentazioni di un virologo.
[12] Pew Research Center, Public and Scientists’ Views on Science and Society, January 2015.
[13] N Oreskes e E.M Conway., Merchants of Doubt, Bloomsbury Press, New York, 2010.
[14] S. Jones, op. cit.