La scienza e l’Islam – 1

In occasione dell’incontro “Conoscere attraverso la scienza: l’Islam e l’Occidente” del 7 ottobre a Futuro Remoto, pubblichiamo una serie di articoli sulla storia della cultura scientifica islamica e sul suo rapporto con la scienza moderna

 

L’Islam

Molti lo hanno definito il “rinascimento islamico” e considerano la scienza prodotta nel corso dei primi secoli dell’Islam come una ripartenza – un rinascimento, appunto – della scienza ellenistica. Una ripartenza che si era già verificata per ben due volte nel corso della storia dell’Impero Romano.

La definizione di “rinascimento islamico” della scienza è certo intrigante, ma coglie solo una parte della realtà. L’Islam, infatti, non si limita a prendere il testimone della scienza lasciato cadere dai Greci e, soprattutto, dai Romani. Ma mostra una sua propria “creatività scientifica”. Il “rinascimento islamico” ha infatti molti caratteri originali, che vengono alla luce per la prima volta in un mondo tanto variegato che spesso, esteso com’è dalla penisola iberica all’Indo e al Gange, ha in comune solo la lingua araba. Inoltre questi caratteri originali si fondano e si fondono sia su e con elementi della scienza ellenistica – in particolare su e con gli elementi del primo rinascimento della scienza ellenistica (da Galeno per la medicina, a Tolomeo per l’astronomia e l’ottica) – sia su e con elementi della scienza prodotta in altre regioni del mondo. In Cina, in India e, soprattutto, in Persia.

Più che di un rinascimento, dunque, quella realizzata dai matematici, dagli astronomi, dai chimici, dai medici dell’Islam è una vera e propria rivoluzione. Un ramo importante di quel ricco cespuglio di rivoluzioni – mai del tutto indipendente, ma mai del tutto linearmente conseguenti – che caratterizzano la storia della scienza.

 

L’«avventura internazionale» dell’Islam

Maometto muore nell’anno 632, mentre si accinge a portare la guerra all’Impero Bizantino. La scomparsa del suo fondatore non frena l’avanzata già in atto dell’Islam. Al contrario i successori del Profeta mostrano una notevole propensione e anche una notevole capacità nella conquista di nuovi territori.
In realtà, il problema principale per il neonato movimento religioso è proprio quello della successione. Che viene risolto in maniera spesso decisa, a tratti dura, ma alla fine efficace. Alla carica di primo califfo – che significa luogotenente o vicario (si intende, del Profeta) – della comunità islamica è eletto Abū Bakr (?-634; califfo dal 632). Egli è considerato il capo religioso, politico e militare della comunità. È dunque l’autentico successore di Maometto. Il suo potere è enorme, ma il suo califfato è breve. Abū Bakr muore presto e gli succedono, nel medesimo ruolo e coi medesimi poteri, nell’ordine: ‘Omar ibn al-Khaṭṭāb (581 ca. -644; califfo dal 634), ‘Othmàn ibn ‘Affàn (574-656; califfo dal 644) e Alī ibn Abi Talib (599-661; califfo dal 656).

I primi quatto califfi sono tutti collaboratori stretti di Maometto. Quasi tutti hanno vincoli familiari col Profeta. Il primo è il suocero, altri due sono i generi. Per questo sono noti come “i ben guidati” e per questo sono riconosciuti da molti teologi musulmani come i soli, autentici califfi.
Ed è proprio durante i trent’anni di governo dei quattro “ben guidati” che inizia quella che Francesco Gabrieli ha definito l’«avventura internazionale» dell’arabismo. Ovvero la conquista di immensi territori, che si estenderanno dalla Spagna al Pakistan, unificati politicamente e culturalmente.
La conquista militare dei territori è rapidissima. Quasi che nella penisola arabica lo scoppio di una valvola avesse liberato un gas compresso pronto a riempire velocemente i tanti vuoti lasciati dagli antichi imperi in disgrazia. La tappe dell’”avventura” sono serratissime.

Nel 635 gli Arabi escono dalla loro penisola, conquistano Damasco e occupano l’intera Siria. L’anno dopo entrano in Gerusalemme e sottomettono la Palestina. Poi, a stretto giro, assumono il controllo della Mesopotamia. Puntando ancora verso Oriente, entro il 651 conquistano tutta la Persia.
Non meno rapida è l’espansione a Occidente. Nel 641 gli Arabi entrano ad Alessandria. Di lì a un anno controllano l’intero Egitto e una larga parte della costa mediterranea fino all’attuale Bengasi. Entro il 647 si prendono l’intera Tripolitania. Nel 649 occupano Cipro.
In poco più di quindici anni gli Arabi hanno creato il più vasto impero dell’intera regione mediterranea. L’accesso al mare interno consente alle popolazioni del deserto di sviluppare rapidamente abilità marinare, civili e militari, che prima non possedevano affatto. Tanto che già nel 655 sono in grado di affrontare e battere la flotta bizantina. E nel 674 di assediare dal mare la stessa Costantinopoli. È un’autentica impresa, anche se si risolve nella loro prima grande sconfitta.

L’acquisizione del know how marinaro è la prova che la forza esplosiva dell’inespressa creatività culturale degli Arabi non risulta certo inferiore a quella bellica. Con la medesima rapidità con cui acquisiscono territori e abilità marinare, i popoli del deserto apprendono l’arte di governare un vasto e variegato impero. Edificano, ex novo, uno stato, lo stato islamico, che si fonda sul Corano e sul ricordo dei comportamenti pratici del Profeta. Tutto il potere è riunito in un’unica persona, il califfo: guida religiosa e, in quanto tale, politica e militare.
Non c’è dubbio alcuno: quello islamico è uno stato teocratico. D’altra parte la rapidità fulminea con cui il popolo del deserto conquista territori e sviluppa cultura  alimenta l’idea che Dio è dalla loro parte e, di conseguenza, corrobora il carattere teocratico del nuovo stato. Ma è una teocrazia disposta a lasciarsi contaminare dalle culture altre.

L’«avventura internazionale» degli Arabi non è sostenuta solo dall’entusiasmo religioso, dall’impeto militare e dalla fame di cultura. Ma anche da una crescita demografica favorita a sua volta da mutamenti del clima. La popolazione araba aumenta proprio mentre nel resto dell’Eurasia, in particolare dell’Eurasia occidentale, tende a diminuire. È anche per questo che la metafora del gas compresso, pronto a riempire il vuoto intorno a sé, non ha solo un’intangibile dimensione virtuale, ma anche una sua tangibile dimensione fisica.
In definitiva, gli Arabi riescono facilmente a occupare i territori dove c’è un vuoto: demografico e/o politico. Tra le popolazioni che abitano i territori attigui all’Arabia, infatti, le divisioni a carattere religioso –  per esempio tra cristiani copti e monofisiti in Egitto e in Siria; oppure tra cristiani nestoriani e seguaci di Zoroastro in Mesopotamia – generano appunto un vuoto di potere. Gli Arabi ne sono attratti e lo occupano. Non a caso la loro espansione si ferma lì dove quel vuoto politico non c’è. Nel VII secolo c’è un solo altro potere forte e coeso nell’area mediterranea, quello dell’Impero Romano d’Oriente. E, infatti, l’Islam si ferma alle porte di Bisanzio.

 Insomma il nuovo protagonista è un popolo giovane, in crescita, che crede fermamente di avere Dio dalla sua parte. Affamato di terre e di ricchezze. Ma anche di conoscenza.
Di cui è propedeutica la virtù della tolleranza. Gli Arabi, infatti, non combattono, ma accettano le altre religioni presenti nei vasti territori occupati. Tollerano, in particolare, le religioni monoteistiche, quella ebraica e quella cristiana. Certo, nel nuovo impero molte sono le conversioni all’Islam. Ma nessuna è forzata: «Non deve esserci costrizione nella religione», sostiene il dogma musulmano.
Analoga tolleranza – anzi, un’autentica generosità – i conquistatori esprimono in ambito culturale. L’Islam non impone alcun che a chi musulmano non è. E sebbene le classi dominanti arabe siano militari e si arricchiscano con i bottini di guerra, nel corso dell’espansione non si verifica alcuna operazione sistematica di distruzione. La tolleranza consente il contagio culturale. E, in definitiva, la nascita di una nuova cultura – la cultura islamica – che assume in sé i saperi e le visioni del mondo dei popoli conquistati, ma non è la semplice somma di quelle culture.

La lingua araba, la lingua del Corano, è il lievito della cultura islamica. In breve si afferma, non per imposizione, ma per naturale necessità, come la lingua comune dei popoli dell’impero. La lingua dell’Islam.
Della cultura islamica partecipano tuttavia non solo gli Arabi, ma diversi altri popoli. Non solo seguaci della fede di Maometto, ma genti delle più diverse religioni. Come vedremo, gli scienziati dell’impero islamico sono non solo musulmani, ma ebrei, cristiani, sabei e anche pagani.

 

La cultura islamica.    

Una leggenda a lungo ritenuta verosimile narra del capo dell’esercito arabo che entra ad Alessandria e chiede al califfo, ‘Omar ibn al-Khaṭṭāb, cosa debba fare dei libri trovati nella storica biblioteca. ‘Omar avrebbe risposto di bruciarli, con il semplice argomento che, se i loro contenuti sono in accordo col Corano, sono superflui, e se viceversa sono contrari al Corano allora sono pericolosi. Il fuoco di quei libri, narra ancora la leggenda, avrebbe riscaldato per mesi le terme della città che era stata la culla della cultura ellenistica.

La realtà storica è, tuttavia, diversa. Nel 642 la biblioteca di Alessandria ha già perso gran parte dei suoi tesori. Come tale semplicemente non esiste più. L’ordine di ‘Omar, forse, non è mai stato emanato. La leggenda nasce, probabilmente, da una narrazione postuma e del tutto inventata elaborata dagli stessi musulmani nel XII secolo.
La ricostruzione documentata della realtà storica ci parla, invece, di un Islam che, fin dal primo momento, non mostra alcuna particolare aggressività verso le culture nelle terre che conquista. Al contrario, gli Arabi assorbono rapidamente le conoscenze e le tecnologie dei popoli sottomessi, le fondano, le metabolizzano e in breve imparano a svilupparne di proprie con notevole creatività. Il che non potrebbe verificarsi se invece della politica dell’assimilazione adottassero, come vuole una pubblicistica non fondata sui fatti storici, sulla distruzione sistematica.

Naturalmente, la storia della cultura islamica come la storia della cultura di ogni popolo, non è affatto lineare. Né priva di contraddizioni. Ma procede seguendo percorsi sinuosi, con improvvise accelerazioni e svolte repentine, legata com’è alla storia politica, sociale, economica. Un deciso e decisivo cambiamento nella storia culturale islamica, oltre che nella storia politica, si verifica con la fine del ciclo dei califfi “ben guidati”, l’inizio, nel 661, del governo della dinastia degli Omayyadi e il trasferimento della capitale dell’impero a Damasco, la città siriana da tempo nota per la sua cultura molto sofisticata.
In realtà già l’ultimo dei califfi “ben guidati”, Alī, genero di Maometto, impegnato nella primo conflitto interno al mondo musulmano – nei conflitti interni, gli islamici sono molto meno tolleranti – aveva trasferito il centro politico dell’Islam dall’Arabia al sud della Mesopotamia. Nel 660 tuttavia si verifica la scissione – il primo scisma islamico – tra gli sciiti, sostenitori di Alī e fautori del mantenimento della carica califfale all’interno della famiglia di Maometto, e i sunniti, che vogliono scegliere il califfo tra le fila dell’aristocrazia Quarshita, cui appartiene Mu’Awiya ibn Abi Sufyan (603-680; califfo dal 661). Il conflitto diventa insanabile e sfocia in un breve, ma intenso, confronto armato al termine del quale, nel 661, Mu’Awiya uccide Alī, ripristina l’unità musulmana e nomina se stesso califfo dell’Islam, inaugurando il regno della dinastia degli Omayyadi.

I nuovi califfi – che secondo molti teologi musulmani sono solo dei re – governano l’impero islamico per quasi un secolo, fino al 750. Durante questo tempo non solo portano a compimento la guerra interna con gli sciiti, che culmina nella messa a ferro e fuoco di Medina (680) e della Mecca (683), ma consolidano e ampliano le terre conquistate dall’Islam. Tra la fine del VII e l’inizio dell’VIII secolo, infatti, gli Omayyadi sono sulla cresta di una nuova ondata espansionistica dell’Islam che si muove lungo tre direttrici: verso il Maghreb, che viene interamente conquistato, e la Spagna, che viene parzialmente occupata; verso l’Asia Minore e Costantinopoli, dove gli Arabi vengono fermati dall’Impero di Bisanzio, che esce tuttavia ridimensionato nei suoi possedimenti e nella sua potenza; verso l’Asia centrale e l’India, dove i musulmani conquistano per intero la Persia e molte delle terre che oggi appartengono al Pakistan e all’Afghanistan.

L’espansione islamica termina di fatto con la dinastia degli Omayyadi: a Occidente, nel 732, con la battaglia di Poitiers; e soprattutto a Oriente nel 750, dopo la battaglia ben più importante coi cinesi sul fiume Talas.
Contrariamente a quanto si è scritto in passato, anche da parte degli storici musulmani, l’Islam durante la dinastia degli Omayyadi è tutt’altro che insensibile all’influenza culturale dei popoli con cui viene in contatto. Anzi, è proprio in questo periodo che l’Islam si lascia permeare da una serie di culture non arabe.
Nell’organizzazione dello stato, per esempio, gli Omayyadi si lasciano largamente influenzare dal modello bizantino. Anche se non rinunciano certo a reinterpretarlo. Ne accentuano infatti il carattere centralistico, ne consolidano il principio della guida unica (religiosa, politica e militare) e lo contaminano con prassi e stili tipici dell’Impero persiano.

La verità è che quella degli Omayyadi non è affatto una cultura chiusa. E il loro governo non è affatto oscurantista. A Damasco, per esempio, la presenza dei cristiani a corte è marcata e la loro influenza politica evidente. E anche se ai convertiti all’Islam è riservato un ruolo privilegiato, soprattutto nei commerci, secondo solo a quello degli Arabi, la tolleranza interculturale e anche interreligiosa caratterizza così tanto il governo degli Omayyadi da trasformare l’«avventura internazionale» degli Arabi in un processo di vera e propria assimilazione di saperi propri di altri popoli.
Non si tratta, certo, di una sorta di non ben definito buonismo. Come sostiene Dimitri Gutas, i conquistatori arabi hanno bisogno delle culture altre per governare una complessità politica e sociale per loro inedita. E sono gli altri popoli a sapere come si fa.

 Ma, qualsiasi sia il motivo che li spinge, sono loro, gli Omayyadi, a istituire, per esempio, le prime scuole di traduzione dal siriano e dal greco. Sono loro a creare le prime scuole artistiche. Sono loro a promuovere le prime grandi biblioteche, sia pure private. È con loro che la letteratura e, in particolare, la poesia arabe entrano in una fase di sviluppo pieno e creativo. Sono loro che fondano nuove città e ripensano quelle esistenti. È con loro che l’architettura dell’impero, anche quella civile, inizia ad assumere una chiara impronta arabo-musulmana, sia pure – anzi, proprio perché – venata da stili e forme di origine ellenistica oltre che persiana.
È questa capacità di assumere i saperi più diversi, di assimilarli e reinterpretarli all’insegna di una sostanziale tolleranza, anche religiosa, che consente a un piccolo e marginale popolo venuto dal deserto non solo di conquistare un impero, ma anche di unificarlo politicamente e, soprattutto, di conferirgli una grande omogeneità culturale. È grazie a quest’opera di progressiva integrazione e mai di sostituzione coatta che l’impero dell’Islam si trasforma nel mondo islamico.

Alessandria in Egitto, Gondishapur in Persia, Damasco in Siria sono i tre grandi centri di altrettante culture diverse cui l’Islam ai tempi degli Omayyadi attinge e che riesce a integrare. Ma non sono gli unici. Perché gli Arabi sono pronti ad accogliere anche altri apporti, sia che provengano dalla periferia dell’impero, per esempio dalla Spagna dove è viva la cultura tardolatina di Isidoro e dei suoi predecessori, sia che provengono dall’esterno, da altri imperi: da Bisanzio, ma anche dall’India e dalla Cina.
È grazie a questi flussi, ben attivi già nel VII secolo, che una nuova cultura, islamica, può nascere e costantemente svilupparsi per almeno mezzo millennio, prima di raggiunge il suo apice nel corso del XII secolo. Si tratta di una cultura molto ricca e affatto originale, che si sviluppa per almeno cinque secoli, dalla Spagna al Pakistan, coinvolgendo tre continenti: fenomeno che non ha alcun altro riscontro, né in epoche più antiche, né in epoche seguenti.

Ma se è vero che l’Islam inizia la sua “avventura culturale” già con gli Omayyadi, è anche vero che è solo nell’VIII secolo con una nuova dinastia, quella degli Abbasidi, che diventa il crogiolo creativo dove svariate culture non solo si incontrano, ma si fondano e si trasmutano, producendo nuova conoscenza.
La storia, molto in breve, è questa. Nel 750, in seguito a una rivolta contro gli Omayyadi, assume il potere Abū-l’Abbās as-Saffah (722-754, califfo dal 750) che inaugura una nuova dinastia di califfi, quella appunto degli Abbasidi. La transizione ha i caratteri tipici delle lotte di palazzo. Tuttavia ha anche cause più profonde e affonda le sue radici in processi strutturali. Il passaggio dagli Omayyadi agli Abbasidi è infatti espressione di una società e di un’economia che stanno cambiando. Motore economico dell’impero islamico, ormai, non è più quello agricolo, bensì il commercio su grande scala. E la società non è più governata da un ceto di guerrieri, di stretta origine araba, che vivono del bottino di guerra, ma da classi emergenti di mercanti, per lo più (ma non solo) musulmane e ormai non necessariamente arabe, che operano non solo e non tanto nel Mediterraneo, ma anche e soprattutto in Oriente.

Questa nuova economia e questa nuova società hanno marcati caratteri capitalistici. I traffici più ricchi e munifici sono quelli, per così dire, internazionali costituiti da spezie (pepe, cannella, zucchero, chiodi di garofano) comprati in India e rivenduti a Costantinopoli e nelle altre città dell’impero bizantino. Le vie del commercio sono sia quelle che su terraferma attraversano l’Asia (molto trafficata è la strada della seta che passa per la conquistata città di Samarcanda) sia, soprattutto, le acque dell’Oceano Indiano e dei mari prospicienti.
Lo sviluppo dei traffici marittimi a opera dei mercanti e dei marinai musulmani avviene principalmente lungo le rotte per l’Oriente. Ma il Mediterraneo non resta affatto tagliato fuori. Anzi, conosce esso stesso una nuova stagione di floridezza, di cui si avvantaggiano anche città italiane capaci di acquisire capacità marinare, come Amalfi e Venezia.

È grazie all’Islam che parti dell’Europa occidentale – la penisola iberica, in primo luogo, ma anche la penisola italica – iniziano a far parte sempre più integrante del grande continente euroasiatico.
Va da sé che, anche ma non solo per ragioni geografiche, cuore nevralgico dell’economia e della società islamica diventi la Persia. E, infatti, sono le elite persiane le classi emergenti che assumono la leadership nel mondo islamico, sostituendo quelle arabe. È proprio dalla Persia che parte l’offensiva verso la Damasco degli Omayyadi. E ha composizione in  prevalenza persiana l’esercito che consegna la vittoria agli Abbasidi.
All’atto della conquista islamica, nel VII secolo, la Persia è un impero con un’economia agricoltura diretto da un’oligarchia militare. Sul piano religioso ha una posizione egemone il Mazdeismo, il culto associato al profeta Zarathustra. Ma ci sono anche Ebrei e vari gruppi politeisti. L’arrivo dei conquistatori arabi modifica queste condizioni. L’economia si trasforma da agricola in mercantile. E accanto alle antiche tradizioni religiose si aggiunge non solo la nuova fede in Allah, che è prevalente, ma anche quella di diversi gruppi cristiani. La Persia diventa così luogo di incontro di svariate religioni.

Il trasferimento nel 762 della capitale dell’impero da Damasco a Baghdad – anzi a Madīnat al-Salām (la città della pace) – che da piccolo villaggio si trasforma rapidamente in una metropoli popolata da centinaia di migliaia di persone di diversa origine e, come abbiamo detto, di diversa religione – è la plastica dimostrazione che l’asse geografico dell’Islam si è nettamente spostato a Oriente. E che, anzi, iniziano a convivere nel medesimo Impero due realtà – l’Islam orientale e l’Islam occidentale – culturalmente piuttosto diversificate. Come era già successo con l’Impero Romano, una parte, quella a est, tende a svilupparsi con intensità e velocità diversa rispetto all’altra, occidentale.

È, in particolare, il secondo califfo della dinastia degli Abbasidi, al-Mansur (715-775; califfo dal 754), a fondare  Baghdad e a farne la capitale politica e, soprattutto, culturale dell’impero. Grazie, infatti, al suo illuminato mecenatismo, ripreso e consolidato anche da Harun al-Rashid (763-809; Califfo dal 786) e da al-Mam’un (786-833, Califfo dall’813), il piccolo villaggio diventa una nuova Alessandria. Che, come Alessandria, resterà, come scrive Jim al-Khalili: per almeno «cinquecento anni  la città più ricca, grande, orgogliosa e altera del mondo». Una città al centro di una rete politica, economica e culturale estesa, capace di generare nuova conoscenza, anche scientifica. Una città capace di catalizzare lo sviluppo di una nuova civiltà: la civiltà islamica.

Una civiltà che si fonda su due diverse coincidenze, nessuna delle quali scontata: l’iniziale propensione (o necessità) araba a coltivare la cultura; la capacità dell’Islam di assimilare le conoscenze più avanzate sia dell’intera Eurasia sia dell’Africa mediterranea, fungendo da fecondo crogiolo.
Poco vale se a muovere al-Mansur e i suoi successori per almeno un paio di secoli sia una spinta squisitamente culturale o, invece, come propone giustamente Dimitri Gutas, siano più prosaiche ragioni politiche ed economiche (tenere unito un impero vastissimo, composto di tanti popoli e con nuove classi emergenti) utilizzando la tolleranza come fondamento di un equilibrio che ha mille pesi e contrappesi. I due ordini di cause non sono alternative, ma del tutto complementari.

 

La propensione araba per la cultura

I califfi della dinastia abbaside si differenziano dagli omayyadi non solo e non tanto perché accentuano il carattere monarchico e centralizzato del potere islamico. Ma anche e soprattutto perché inaugurano una nuova e più consapevole e organizzata politica culturale. Incontrando, peraltro, una forte domanda che sale dal basso. Un’esigenza sociale diffusa. Ne sortisce, come abbiamo detto, una civiltà affatto originale. Con diversi caratteri distintivi.
Quella islamica è una civiltà urbana. Le città sono i luoghi dello sviluppo culturale, civile ed economico. Sviluppo favorito dalla diversificazione del lavoro e dalla moltiplicazione dei bisogni. Coma Alessandria, Baghdad è una metropoli creata da nulla e, dunque, libera da quelli che Dimitri Gutas definisce «i condizionamenti dello status quo precedente». Proprio come l’Alessandria ellenistica, vanta una vasta gamma di produzioni, artigianali e industriali, e un’organizzazione del lavoro molto sofisticata con manodopera altamente qualificata. Come ad Alessandria, non solo i lavoratori, ma anche i quartieri hanno una peculiare specializzazione produttiva. Ma è l’intero califfato musulmano a essere costellato di metropoli: oltre a Baghdad ci sono l’antica Damasco in Siria, Isfahan in Persia, Samarcanda in Asia centrale, Il Cairo in Egitto, Kairouan nel Maghreb (nell’odierna Tunisia), Cordoba in Spagna, Palermo in Sicilia. E poi ci sono almeno una dozzina di altre città di importanza regionale. Quasi tutte con una popolazione eterogenea.

Quella islamica è una civiltà interculturale. L’impero musulmano si estende da Samarcanda a Fès: dalle porte dell’India alle porte d’Europa. Porte, queste ultime, attraversate in due punti: la Spagna (a partire dal 711, data dell’occupazione di Cordoba e di Toledo) e la Sicilia (conquistata nel IX secolo, tra l’827 e l’878). Questa estensione territoriale fa sì che la cultura araba possa assorbire conoscenze da tre straordinarie fonti: la persiana, l’indiana e la greco-ellenistica.
Quella islamica è una civiltà inclusiva. I conquistatori arabi sono molto spesso bene accolti dalle popolazioni conquistate. Perché, anche in virtù della dimostrata tolleranza religiosa, pongono fine a guerre civili più o meno latenti e non intaccano il la struttura sociale ed economica dei paesi occupati che non si oppongono alla loro conquista. Sono infatti bene accetti sia in molte regioni d’Oriente, sia nella stessa Spagna, stanca dell’oppressivo governo dei Visigoti. Gli Ebrei spagnoli, per esempio, sono perseguitati dai Visigoti, ma rispettati dagli Arabi.

La cultura islamica, come abbiamo detto, può contare su una lingua universale. Sebbene i libri nelle varie parti dell’impero continuano a essere scritti anche nelle lingue locali, favorito da ragioni burocratiche, in poco tempo l’arabo, la lingua del Corano, diventa la lingua veicolare di una cultura unitaria, ma non omologante. Ciò è tanto più vero in ambito scientifico. Ancora nell’XI e XII secolo, per esempio, un autore eclettico come Omar al Khayyām (1050 ca. – 1122) scrive poesie in persiano e trattati di analisi algebrica in arabo.
La nuova civiltà inizia a svilupparsi con la conquista territoriale, ma mostra i suoi caratteri più ricchi e originali soprattutto a partire dal IX secolo, quando si forma una classe nuova ed estesa di intellettuali capaci non solo di tramandare le conoscenze degli antichi provenienti dagli vari angoli dell’Eurasia e dell’Africa, ma di produrre nuove conoscenze. Che non restano appannaggio di ristrette elite, ma attraverso un’imponente produzione di libri, si diffondono in tutta la società. Mercanti, marinai e anche agricoltori consultano i manuali scritti per loro dai grandi intellettuali. Le classi colte e ricche delle città leggono libri di poesia e di prosa. I principi curano con attenzione la formazione anche delle loro figlie femmine. Alcune delle quali diventano giuriste, calligrafe, poetesse. Ma le scuole, che sono molto frequentate e non solo dai ricchi, consentono un processo di diffusione del sapere anche tra le masse popolari. Tanto che i suq diventano veri e propri mercati del libro.

Le scuole sono organizzate soprattutto presso le moschee o in locali che appartengono a moschee. In questo caso sono scuole pubbliche, sostenute dalle offerte dei cittadini o dei genitori degli studenti. Ma vi sono anche scuole private. È solo dopo l’XI secolo che nasce la madrasa: la scuola di stato che ha come obiettivo l’insegnamento della religione ortodossa. Con programmi di studio, dunque, non più liberi, ma molto controllati.
Lo sviluppo culturale è favorito dall’interpretazione prevalente della religione. Alla luce del Libro – o meglio, alla luce di una sua interpretazione egemone – nell’Islam la cultura assume un ruolo centrale. «La ricerca del sapere è un dovere per ogni musulmano, uomo o donna», recita il Corano. E ancora: «Ricerca il sapere dalla culla alla tomba».
La conoscenza della natura è parte integrante della ricerca del sapere. Il Profeta incita espressamente il fedele musulmano: «Cerca la scienza, sia pure in Cina». D’altra parte la parola scienza, o altre parole a essa correlate, compaiono 400 volte nel Corano.

Questa idea di cultura si fonda sulla “nuova visione” della filosofia che propone l’Islam. La filosofia, per i seguaci del Libro, è amore della sapienza, proprio come per i Greci. Ma poiché la sapienza ultima per il buon credente musulmano è nel Corano, la filosofia è intesa come la migliore preparazione possibile per accedere a tutta la sapienza contenuta nel Corano.
In altri termini, la sophía che per i greci è conoscenza, nell’Islam si propone come hikma, saggezza. E la filosofia non è dunque amore della conoscenza (come per i Greci), ma amore attraverso la sapienza.
Ciò non significa affatto che l’Islam trascuri la ‘ilm, parola che in arabo significa tanto conoscenza della natura e dell’uomo, quanto ricerca della tradizione del Profeta e studio delle norme che regolano la lettura del Corano. Cosicché la ricerca dell’amore attraverso la scienza assume il significato sia di ricerca filosofica e naturale, sia di ricerca della sapienza come “imitazione di Dio a seconda della capacità umana”.

Naturalmente la cultura islamica – così come la religione dell’Islam – non forma un monolite compatto, ma è molto variegata al suo interno. La divisione tra sunniti e sciiti, per esempio, non è solo religiosa, ma appunto anche culturale. E le differenze teologiche possono essere drastiche. Così succede che, già in epoca omayyade e poi soprattutto in epoca abbaside, si affermino sette razionaliste, come quella mutazilita, con una forte impronta aristotelica, che affermano il libero arbitrio totale dell’uomo e mettono in discussione la stessa origine sacra del Corano.

Succede anche, all’opposto, che in nome della fede alcuni teologi, singoli o organizzati in gruppo, mettano in discussione specifici aspetti della filosofia, soprattutto greca. Ivi inclusi alcuni concetti generali della filosofia naturale, come l’universo finito o infinito, la indivisibilità o la struttura atomica della materia.Ma, al netto di questi estremi, come sostiene Maxime Rodinson: «La razionalità della teologia musulmana è estrema, ammirevole. Tutto l’Islam intellettuale del Medio Evo si colloca sotto gli auspici della ragione».
Un carattere persistente. Anche quando inizierà il declino della cultura islamica e le scienze naturali inizieranno addirittura a regredire, gli studi di logica continueranno e avranno persino una decisa ripresa. Se non in alcune componenti estremistiche, l’Islam non sarà mai contro la ragione.