La scienza e l’Islam – 2

In occasione dell’incontro “Conoscere attraverso la scienza: l’Islam e l’Occidente” del 7 ottobre a Futuro Remoto, pubblichiamo una serie di articoli sulla storia della cultura scientifica islamica e sul suo rapporto con la scienza moderna

 

La scienza islamica

La hikma non trascura affatto la ‘ilm. L’amore attraverso la conoscenza non si esaurisce nella mera conoscenza, ma neppure trascura la conoscenza. Anzi, come incita il Profeta, la va a cercare anche in Cina. E, in alcuni casi, l’indicazione geografica non è solo metaforica.
E infatti non c’è, nell’intera storia dell’Islam, un “caso Galileo”, un aperto conflitto tra scienza e fede. Sia perché quella islamica è una religione tollerante. Sia perché la fede evita di entrare nel dibattito scientifico e di proporre una verità apriori su “come vada il mondo”. Ciò non significa, tuttavia, che le due dimensioni siano separate. Al contrario scienza e fede sono intimamente correlate. Sono parte, con la filosofia, di un unico e inscindibile atto cognitivo d’amore.

Lo scienziato islamico, che crede in Allah e segue le indicazioni del suo profeta, Maometto, è, necessariamente, un uomo di religione. Ma questo suo sentimento religioso non gli impedisce – non deve impedirgli – di cercare le cause dei processi naturali in piena libertà. Le scienze e la filosofia, infatti, non competono con la fede, ma al contrario consentono una visione più diretta di Dio. E più sono profonde le conoscenze scientifiche e filosofiche, migliore è la visione di Dio.

E, infatti, se è vero che la scienza araba si sviluppa soprattutto durante il periodo abbaside a opera di califfi come Abū Ja’far ‘Abd Allāh ibn Muḥammad al-Manṣūr e soprattutto Abū Ja’far ‘Abd Allāh al-Ma’mūn, è anche vero che gli Arabi cercano la scienza fin dall’inizio della loro «avventura internazionale». Quando, già nel corso del VII secolo, vengono a contatto con gli immensi patrimoni culturali bizantini e persiani. Ed è subito contaminazione plurima. La civiltà bizantina è infatti erede della cultura greco-ellenistica. Mentre la civiltà persiana contiene elementi originali propri, in aggiunta sia alla cultura greco-ellenistica sia alla cultura indiana.

La contaminazione scientifica, tuttavia, non è affatto simmetrica. Il VII secolo è infatti un secolo in cui la scienza – dalla matematica alle scienze naturali – ha subito nel bacino del Mediterraneo e nelle aree limitrofe più che una battuta d’arresto. Ha subito un vero e proprio regresso. Ovunque, tranne che Persia e, in particolare, a Gondishapur. In questa città – un’autentica metropoli dell’epoca – hanno trovato rifugio nel VI secolo quei filosofi neoplatonici fuggiti via da Atene dopo la chiusura dell’Accademia ordinata da Giustiniano. Non hanno coltivato l’ozio, quei filosofi. Ma hanno rinnovato l’antico sapere di cui sono espressione. Anche il sapere scientifico. Cosicché nel VII secolo, al momento della conquista araba, la città persiana è ancora sede di una grande scuola medica di impronta ellenistica: l’Accademia medica. Ed è proprio a Gondishapur che gli Arabi incontrano per la prima volta la grande cultura.

Ma la storia usa cambiare spesso le carte in tavola. Durante il periodo degli Omayyadi (661-749), infatti, molti intellettuali – soprattutto cristiani nestoriani, ma anche ebrei di origine araba – lasciano la metropoli persiana e si trasferiscono in altre città del nuovo impero. Per esempio a Edessa, in Mesopotamia. E soprattutto a Damasco, la città siriana eletta a capitale dell’Islam. Questi intellettuali, per lo più cristiani ed ebrei, iniziano a tradurre in maniera sistematica i classici greci ed ellenistici in siriaco.

Sono protetti dal Califfo. Anzi, la dinastia omayyade inaugura una stagione di generoso mecenatismo su cui si fonderà il modo di lavorare degli scienziati islamici per oltre mezzo millennio. Tre secoli dopo a Cordoba, in Spagna, al-Hākim II (961-976), l’unico Califfo superstite della dinastia omayyade, finanza con propri mezzi vere e proprie spedizioni per la ricerca sistematica in Oriente di opere scientifiche, oltre che filosofiche e letterarie. Queste generose intenzioni e, soprattutto, queste concrete azioni appartengono soprattutto a califfi e principi. Ma non sono esclusive della più alta aristocrazia. Il mecenatismo è diffuso fin dall’inizio in tutta la società islamica. Molti, prima di morire, lasciano in eredità a istituzioni scientifiche una parte dei loro beni.

L’Islam, tuttavia, crea strutture scientifiche di stato. Con scienziati di professione. È il caso degli osservatori astronomici, compreso quello della “casa della Sapienza” a Baghdad. Anche se le prima strutture specificamente dedicate all’osservazione astronomica saranno create solo dopo il XIII secolo.
È, dunque, un luogo comune che gli islamici siano piuttosto degli intellettuali eclettici che non dei veri scienziati. Sappiamo, certo, che Abū Alī al-Ḥusayn ibn ‘Abd Allāh ibn Sīnā (980-1037), conosciuto in Europa come Avicenna, è un grande filosofo, che coltiva anche la matematica, l’astronomia, la medicina. E che anche altri, tra i più grandi scienziati islamici, abbiano fatto propria questa cultura eclettica. Ma la gran parte degli scienziati islamici sono professionisti specializzati. Con uno specifico settore di interesse prevalente.

È con la dinastia degli Abbasidi (a partire dal 750) che inizia, come abbiamo detto, il periodo di massima splendore dell’Islam: militare, ma soprattutto economico e culturale. La trasmissione del sapere greco ed ellenistico avviene ora attraverso una doppia opera di traduzione dei classici: con un’accelerazione della traduzione dal greco in siriano, durante il secolo che va dal 750 all’850, e poi dal siriano all’arabo dall’850 al 950. Questa immensa opera – tutto quanto è scritto in greco viene sistematicamente tradotto – è realizzata proprio dai saggi nestoriani, in particolare dagli appartenenti alla famiglia dei Bukht-Yishu (Gesù ha detto).

La famiglia proviene dall’Accademia di Gondishapur, conosce sia la scienza greco-ellenistica sia la scienza hindu, e dà origine ad almeno sette generazioni di eminenti studiosi che svolgeranno la funzione di cinghia di trasmissione del sapere attraverso la traduzione – una fedele traduzione – dal VII fino ad almeno l’XI secolo.
L’attitudine e lo zelo della famiglia Bukht-Yishu per le lingue è, naturalmente, un tramite. Così come è un mezzo il mecenatismo dei califfi omayyadi e abbasidi. La verità è che la società araba, in rapida trasformazione, ha una voglia feroce e persistente di istruirsi. Il sapere è un’esigenza sociale diffusa, che si manifesta nel corso di diversi secoli.
Con gli Abbasidi, la capitale e il centro culturale dell’impero si trasferiscono da Damasco a Baghdad. In particolare il settimo califfo abbaside, al-Ma’mūn – che ha una vera passione per la scienza – realizza nella nuova capitale islamica una scuola di traduttori presso la ricca biblioteca, la Bayt al-Ḥikma, che in arabo vuol dire Casa della Sapienza e che conterà fino a 500.000 volumi (in un’epoca in cui nessuna biblioteca cristiana supera il migliaio di volumi), in lingua araba, greca, siriana, ebraica, copta, persiana e sanscrita. La Baghdad degli Abbasidi somiglia sempre più all’Alessandria dei Tolomei.

Come ad Alessandria, la biblioteca di Baghdad è il nucleo intorno a cui si svolgono svariate attività culturali originali. A iniziare dalla traduzioni: di raffinata qualità. In tutta la città e in genere in tutto l’impero islamico, l’ammirazione per la scienza greco-ellenistica è davvero grande. Non a caso, nella ricostruirne i lineamenti, gli sciiti sostengono che l’”uomo perfetto” deve essere “greco per scienza”. Il più grande traduttore di opere scientifiche a Baghdad è certamente il medico Hunayn ibn Ishaq (809-873), anche lui nestoriano. Traduce tutta l’opera di Galeno e inizia a tradurre anche l’Almagesto di Tolomeo, oltre alle opere di Aristotele e di Ippocrate.

Nel corso di due secoli nella biblioteca di Baghdad vengono tradotte dal siriano in arabo – diventando comprensibili all’intera popolazione dell’Impero – tutte le opere di Aristotele, dei filosofi greci e degli scienziati ellenisti [Gutas, 2002]. Ma quelle conoscenze vengono integrate con le conoscenze originali persiane, indiane e cinesi che vengono, anch’esse, tradotte. In realtà molte sono le traduzione note dal persiano in arabo, poche quelle diretta dal sanscrito in arabo. Ma molte opere originali indiane vengono tradotte dal persiano. Non mancano le influenze cinesi. L’alchimia araba viene, per esempio, molto sviluppata sulla base di conoscenze che provengono direttamente dalla Cina. Mentre buona parte della matematica sulla base di conoscenze che vengono dall’India.

La grande biblioteca di Baghdad andrà distrutta nel 1258 a opera dei Mongoli di Hulagu Khan (1217-1265). Il numero dei volumi perduti sarà incalcolabile. Ma grazie all’opera di traduzione e di diffusione, il sapere che contiene non si disperderà. Non del tutto, almeno. La gran parte resterà conservato nelle altre grandi biblioteche islamiche: al Cairo e nelle città dell’Andalus, prime tra tutte Cordova.
Nella biblioteca di Baghdad non ci sono solo traduttori. C’è anche un centro di alta formazione: una struttura che costituisce, di fatto, la prima università pubblica dell’Eurasia occidentale. E c’è l’osservatorio astronomico, esempio di luogo di ricerca scientifica sistematica.
E tuttavia per quanto polifunzionale sia quel centro ricco di libri e di saperi, a Baghdad non c’è solo la grande biblioteca. La città si distingue anche per lo sviluppo sia della medicina, con una scuola specializzata molto avanzata, sia della sanità, che si avvale di un ospedale pubblico, sull’esempio di quello sassanide di Gondishapur, dove hanno accesso gratuito tutti, indipendentemente dal sesso, dall’etnia e dalla religione.

Non meraviglia dunque se questa città, Baghdad – la Baghdad delle Mille e una notte – diventa in breve il crogiolo creativo della cultura dell’Islam e dell’intera Eurasia occidentale. Il centro della rivoluzione scientifica islamica. Perché, come nota Dmitri Gutas: «Il movimento di traduzione dal greco all’arabo di Baghdad è per molti versi un vero e proprio momento epocale nel corso della storia dell’umanità. Ha lo stesso valore dell’Atene di Pericle, del Rinascimento italiano, o della rivoluzione scientifica tra il XVI e il XVII secolo, e fa, direi, parte della stessa storia».
Fa parte della stessa storia anche di Alessandria e della rivoluzione scientifica ellenistica, perché a Baghdad e in tutto il mondo islamico non ci si limita a tradurre. Ma si produce nuova conoscenza.

 

 La matematica

Nella storia esistono, come rileva Carl Boyer, due livelli di cultura matematica. C’è la cultura matematica pratica. Fatta di quella che Luigi Borzacchini definisce la Matematica dell’Abaco. Nata in Mesopotamia già nel II millennio, ha avuto un seguito e anche un certo sviluppo in Egitto, serve per scopi, appunto, pratici ad amministratori e agrimensori, artigiani e anche architetti, mercanti e marinai. La conoscono un po’ tutti i popoli stanziali nei tre continenti connessi. E continua a esistere nell’Eurasia occidentale anche dopo la caduta dell’Impero romano.

Viceversa la matematica teorica – la scienza matematica – ha una vita più effimera. Appare nella parte orientale del bacino mediterraneo con Archita ed Eudosso, si sviluppa con Euclide, Archimede e Apollonio, sarà ricordata – ma non sviluppata – nel IV secolo da Pappo. Questa matematica, centrata sulla geometria e sul metodo assiomatico-deduttivo, non è mai davvero sbarcata in Occidente – gli Elementi di Euclide non sono stati ancora tradotti in latino – e comunque in Occidente tramonta dopo il IV secolo e viene dimenticata per quasi un millennio.

Ebbene, queste due tradizioni si incontrano nella matematica islamica. Che, per ciascuno dei due livelli, attinge con un’intensità inedita da fonti di ogni parte dei tre continenti connessi.
La scienza matematica islamica consiste infatti di quattro componenti importanti: un’aritmetica di chiara derivazione indiana, compreso il principio posizionale; un’algebra di derivazione mista (indiana, babilonese, greca) ma con profonde innovazioni originali; una trigonometria di fondamento greco (per greco, sia chiaro, intendiamo il mondo ellenistico che utilizza il greco come lingua veicolare), ma innervata dalle concezioni indiane e da sviluppi originali; una geometria di origine greca, cui gli Islamici forniscono un contributo originale.
Tutto è frutto dalle incredibili capacità di relazione che l’Islam dimostra di possedere sia quando guarda a Occidente sia quanto guarda a Oriente.
Gli Arabi entrano subito in contatto con la cultura indiana, già all’inizio della loro «avventura internazionale». Sia direttamente, sia attraverso i Siriani e i Persiani. Per la matematica questi contatti hanno conseguenze profonde. I popoli venuti dal deserto, infatti, apprendono in breve che gli Indiani hanno un sistema di numerazione posizionale, basato su sole nove cifre (più una), che è molto efficace per far di conto. Ed è particolarmente utile ai mercanti.

E così, anche se respingono l’uso dei numeri negativi, apprendono le tecniche matematiche ormai molto sviluppate tra l’Indo e il Gange, ma ancora sconosciute in Occidente. Il primo riferimento alla nove cifre indiane (più una) e alla numerazione posizionale decimale avviene già intorno al 662, a opera del vescovo siriano nestoriano Severo Sabokt (?-?; vissuto nel VII secolo). Dopo la chiusura dell’Accademia filosofica, come abbiamo già ricordato, molti intellettuali da Atene sono emigrati in Siria e in Persia. Sono intellettuali di gran vaglia, cui non manca una certa dose di sussiego, convinti come sono di possedere l’unica vera cultura. Sabokt reagisce a quel disprezzo per le culture altre così poco saggio. Così poco colto. E ricorda, a coloro che parlano greco, che «vi sono anche altri popoli che hanno qualche conoscenza scientifica». In particolare gli Indiani, i quali hanno realizzato «sottili scoperte astronomiche» e hanno messo a punto «preziosi metodi di calcolo che superano ogni descrizione […] Voglio soltanto dirvi che questi calcoli vengono effettuati per mezzo di nove segni».

Tuttavia e solo nella seconda parte dell’VIII secolo, nel 766 per la precisione, che giunge a Baghdad la copia di una delle versioni del Siddhānta, probabilmente del Brahmasphuta Siddhānta, con tanto di riferimento al sistema di numerazione hindu e alla trigonometria indiana. Il libro viene ben studiato e nel 775 è tradotto in arabo. A disposizione di tutti.
La matematica e, più in generale, la scienza hindu arrivano nella nuova capitale dell’impero, Baghdad, addirittura prima della matematica e della scienza dei Greci. Anche se non di molto. Nel 780 è in città, tradotto dal greco in arabo, il Tetrabiblos, l’opera astrologica di Tolomeo. E subito dopo vengono tradotti gli Elementi di Euclide e l’Almagesto di Tolomeo.

Cosicché alla fine dell’VIII secolo la cultura scientifica indiana e la cultura scientifica ellenistica iniziano praticamente in contemporanea a essere studiate, metabolizzate, fuse e rinnovate dagli Arabi. Ha dunque ragione Carl Boyer quando afferma che il “miracolo arabo” non sta tanto nella rapidità con cui sorge l’impero, ma nella alacrità con cui i popoli del deserto assorbono il sapere dei vicini.
In realtà più che di “miracolo arabo” occorre parlare di “miracolo islamico”, perché ormai sono svariati le popolazioni e i gruppi (anche di religione differente) che vivono nel nuovo impero. E che si ritrovano, fianco a fianco, a Baghdad. Contagiandosi. La matematica islamica è un esempio luminoso di questo contagio originale e creativo, foriero di nuova conoscenza.  È traducendo dall’hindu e dal greco (direttamente o attraverso il siriano) che gli Islamici possono realizzare un’operazione davvero inedita: intrecciare le conoscenze geometriche occidentali con le conoscenze algebriche a aritmetiche orientali.

La geometrica islamica è tutta di matrice ellenistica: fondata soprattutto sulle opere tradotte di Euclide, Archimede ed Erone. La trigonometria ha invece una matrice indiana e, proprio come quella hindu, ha un’impostazione aritmetica e non geometrica. I matematici islamici tuttavia la arricchiscono con contributi originali: introducendo, per esempio, il concetto di tangente, accanto a quelli di seno e coseno proposti dagli Indiani. Ma la creatività islamica nell’ambito della trigonometria non si limita all’introduzione del concetto di tangente, anzi tende a essere sistemica. Tanto che all’inizio del X secolo i matematici dell’impero non solo hanno definito tutte le sei funzioni classiche della trigonometria (seno, coseno, tangente, cotangente, secante e cosecante) e le loro relazioni, ma applicano regolarmente questo corpo di nuove conoscenze in vari settori delle scienze della natura, a iniziare dall’astronomia.

Ma il maggiore contributo arabo alla matematica si ha, probabilmente, in campo algebrico. Il primo grande matematico dell’Islam è Abū Ja’far Muhammad ibn Mūsā Khwārizmī, abbreviato al-Khwārizmī (780 ca. – 850 ca.). Nato, probabilmente, nel Kharazm (odierno Uzbekistan), studia e vive a Baghdad, dove al-Ma’mūn lo ha posto a capo della Bayt al-Ḥikma, la grande biblioteca definita Casa delle Sapienza o, se si vuole, della Saggezza. Gli interessi scientifici di al-Khwārizmī sono molteplici. Ma la matematica vi ha sempre una posizione centrale. E lui ha un ruolo centrale nella storia della matematica, non solo islamica.
Non è un caso che dal titolo della sua opera più importante, Al-jabr wa’l muqābalah, venga il moderno termine di algebra (che significa ristabilire; e dunque, nel contesto matematico, ristabilire l’equilibrio di un’equazione).

Certo, nel suo libro – che tira le fila delle conoscenze algebriche di tradizione ellenistica, persiana e indiana – al-Khwārizmī non usa simboli. Né affronta i problemi difficili dell’algebra indeterminata, cosicché quella che propone è meno avanzata sia rispetto all’algebra ellenistica di Diofanto sia rispetto all’algebra indiana di Brahmagupta. E tuttavia Al-jabr è il testo più simile a un manuale di algebra moderna che sia stato scritto nell’antichità. Sia perché il termine algebra è utilizzato per intendere lo studio del calcolo e la ricerca del modo migliore di risolvere equazioni e problemi, dunque in maniera molto simile al modo in cui noi oggi l’intendiamo, sia perché affronta in maniera sistematica i problemi dell’algebra determinata, soprattutto quelli risolvibili con equazioni di secondo grado.  Insomma quella di al-Khwārizmī è un grande libro di didattica algebrica. Tanto che, secondo alcuni, l’Al-jabr di al-Khwārizmī rappresenta per l’algebra ciò che gli Elementi di Euclide rappresentano per la geometria: la migliore opera elementare disponibile fino ai tempi moderni. E in questo senso al-Khwārizmī può essere considerato “il padre dell’algebra”, proprio come Euclide può essere considerato il “padre della geometria”.

Non è un caso che è proprio leggendo l’Al-jabr di al-Khwārizmī che, quattrocento anni dopo la sua prima pubblicazione, Leonardo Fibonacci apprende quel sistema di numerazione posizionale che poi porta in Europa. D’altra parte se noi oggi commettiamo l’errore storico di definire semplicemente notazione araba il sistema di numerazione posizionale con dieci cifre, è perché, dopo Fibonacci, molti Europei si sono riferiti ad al-Khwārizmī e al suo libro, dimenticando che lui fa a sua volta riferimento al sistema hindu.
Al-jabr è l’opera principale, ma non l’unica di al-Khwārizmī. Gli sono attribuite più di una dozzina di opere, sia di matematica sia di astronomia. Per la gran parte fanno riferimento molto più alle conoscenze prodotte dalla scienza indiana che non a quella ellenistica o persiana. Il capo della grande biblioteca di Baghdad non pretende affatto una qualche originalità. Anzi, riconosce apertamente l’origine indiana della sua esposizione. Ivi inclusa quella relativa al sistema di numerazione posizionale. In definitiva: è solo una cattiva trasmissione del sapere che in Europa finirà per attribuirgli per lungo tempo ciò che lui stesso non ha mai preteso.

al-Khwārizmī non è certo il solo matematico nato nel mondo islamico. Nel IX secolo, per esempio, vive Thabit ibn-Qurra (826-901). Per lui, a maggior ragione, vale quanto detto per al-Khwārizmī: più che un matematico originale è un grande commentatore di matematica, un po’ come Pappo. Gran traduttore, riscrive in arabo le opere di Euclide, Archimede, Apollonio e Tolomeo. Ma neppure Thabit si limita a coltivare la matematica: al contrario, è un matematico che produce anche nuova conoscenza originale (per esempio nel campo dei numeri amicabili). Ed è un innovatore anche in astronomia: è lui che riforma il sistema astronomico greco, aggiungendo una nona sfera alle otto del sistema aristotelico-tolemaico.
Tra le tante opere tradotte da Thabit mancano quelle di Diofanto e dello stesso Pappo. Il primo diventa noto agli Arabi solo nel X secolo, tradotto da Abu’l-Wafa (940-997), ed è studiato a fondo da al-Karkhī (953 ca.-1029 ca.). A riprova che nel mondo islamico è conosciuta a fondo tutta la matematica ellenistica, oltre che quella indiana.
Un altro matematico originale è Omar al-Khayyām (1048-1131), che diventerà noto in Europa soprattutto come poeta, ma in grado di apportare notevoli contributi allo sviluppo dell’analisi algebrica. Scrive, tra l’altro, Algebra e studia le equazioni di terzo grado, proponendo metodi generali di soluzione a carattere geometrico. Scopre le regole per trovare le potenze di un binomio di ordine superiore al tre. In contemporanea, peraltro, con i matematici cinesi. Probabile, ma non certo, una reciproca conoscenza e influenza.

Ma al di là dei singoli personaggi, è l’insieme della conoscenza matematica islamica che ci interessa.
È vero che molti storici, come Charles Singer, sostengono che al-Khwārizmī non sia affatto un matematico originale. E che in ogni caso il livello, pur elevato, che raggiunge la matematica islamica resti inferiore a quello raggiunto in geometria dagli Ellenisti e in algebra dagli Indiani. Mentre gli Islamici, compreso, al-Khwārizmī, sarebbero davvero bravi nell’applicare la matematica alla fisica.
Ma se questo è vero, sono vere anche due altre constatazioni. I matematici islamici sono molto bravi a mettere insieme la geometria ellenistica e l’algebra indiana, raggiungendo con questa fusione, un inedito livello di conoscenza matematica. Tuttavia il contributo islamico allo sviluppo della matematica va ben oltre la mera assimilazione e fusione della matematica ellenistica e di quella indiana (opera che, da sola, sarebbe comunque eccezionale). L’Islam ha contribuito con un suo apporto originale lo sviluppo della matematica. E ha consentito all’Europa di scoprirla, a partire dal XIII secolo.

 

Le scienze naturali e la ricerca delle cause

La traduzione diretta in arabo dei classici della filosofia greca inizia solo nel IX secolo. Non è un caso. Nell’Islam, la filosofia è considerata la forma primaria della  conoscenza. E tuttavia nell’Islam delle origini molti vi si avvicinano anche con sospetto. Ai musulmani non piace in particolare la tensione aristotelica verso la “ricerca delle cause”. A molti teologi – e i filosofi islamici sono per forza di cose teologi – la ricerca di cause oggettive fondamentali sembra negare l’onnipotenza di Dio, che invece è considerato libero da ogni vincolo.
Un simile approccio, è chiaro, potrebbe compromettere la ricerca della cause anche nella filosofia della natura. In pratica, potrebbe compromettere lo sviluppo della fisica e delle altre scienze naturali.

Ma una reazione molto forte alla posizione diffidente delle origini viene dagli sciiti, che propongono una filosofia (una visione della filosofia) affatto diversa: nella ricerca della conoscenza, sostengono, occorre “tornare alle origini” e dunque scoprire la cause più profonde che determinano i fenomeni naturali. Nella visione sciita la ricerca della cause, in metafisica e in fisica, è un modo – anzi, il modo migliore – per avvicinarsi a Dio. In questo nuovo quadro che si ricompone, già a partire dall’VIII secolo, il rapporto tra teologia, scienza e filosofia.
Anche l’approccio epistemologico favorisce la ricerca sul campo. Attraverso le scienze naturali, sostengono gli sciiti, si può comprendere, parte per parte, l’universo nel suo insieme e, di conseguenza, si può cogliere la sua matrice divina. È una visione epistemica che ha una sua matrice ionica: la fiducia nell’unità e coerenza dell’universo fisico. Che consente di recuperare la visione d’insieme del cosmo anche con un metodo che oggi definiremmo riduzionistico.
In definitiva, la storia islamica delle scienze naturali è ricca di personaggi e produce notevoli risultati.

 

La Fisica

Primo tra tutti c’è lo studio dei cieli. Che è certo favorito, all’inizio, dalla necessità sia di conoscere con esattezza l’inizio del mese del digiuno, sia di saper individuare da qualsiasi luogo la direzione precisa per rivolgersi alla Mecca. Ma che, ben presto, diventa un’attività più ricca e matura, motivata anche da interessi squisitamente scientifici. L’astronomia – che gli islamici chiamano scienza della forma (dell’universo) – diventa così una delle discipline più sviluppate dell’Islam. Tanto che i libri di astronomia sono persino più numerosi di quelli di matematica.

Tra gli astronomi degni di nota ci sono il già citato siriano nestoriano Severo Sabokt, autore di un prezioso Trattato delle costellazioni, e l’ebreo persiano Messahala (740-815). Entrambi scrivono intorno all’uso dell’astrolabio. Ma non bisogna dimenticare Abu Abdallah Muhammad ibn Ibrahim al-Fazārī (?-morto tra il 796 e l’806), che inizia a tradurre le opere astronomiche direttamente dal greco oltre che dal persiano, e a scrivere libri  sulla sfera armillare e l’astrolabio ancor prima di Messahala.
Un grande astronomo è Ahmad ibn Muhammad ibn Kathir al-Farghani (?-?; vissuto nel IX secolo) che lavora alla corte di al-Mam’un ed è noto in territorio latino come Alfragano. E di gran valore è anche Abū l Hasan Thābit ibn Qurra’ ibn Marwān al-Sābi’ al-Harrānī (826-901), sostenitore della teoria, sbagliata, del moto oscillatorio degli equinozi e noto in Europa come Thebit.

Anche per lo studio dei cieli il processo delle traduzioni è davvero importante. Fino al IX secolo, infatti, l’astronomia islamica si fonda essenzialmente su quella indiana. Solo dopo la traduzione dell’Almagesto, realizzata proprio nel IX secolo per volontà del califfo Al Ma’mun, a Baghdad e altrove diventano preminenti le influenze dell’astronomia ellenistica. In realtà in questo periodo presso l’osservatorio Shammasiyya, costruito nell’829 a Baghdad, si manifesta un’autentica esplosione di interesse che determina sia un approfondimento teorico sia lo sviluppo di nuove tecniche per l’osservazione diretta del cielo, grazie alla continua evoluzione dell’astrolabio. L’interesse contagia l’intero mondo islamico e la diffusione delle tecniche di osservazione è generale. Cosicché la comparazione degli studi effettuati presso svariati osservatori, da quello di Damasco agli altri sparsi per i territori islamici, consente agli astronomi islamici di redigere mappe sempre più accurate del cielo.

L’osservazione sistematica e la costruzione di precise tavole astronomiche consente lo sviluppo dell’astronomia teorica, caratterizzata dall’elaborazione di modelli che descrivono i moti apparenti nei cieli; dalla discussione sulla posizione relativa nel cielo di Mercurio, di Venere e del Sole (che coinvolge in particolare gli astronomi dell’al-Andalus tra l’XI e il XII secolo) e, soprattutto, dalla discussione sul problema della rotazione della Terra.
Discussione cui parteciperanno sia filosofi, come Avicenna e Fakhr al-Din al-Rāzī (1149 ca.–1210), sia astronomi in senso stretto, come al-Bīrūnī. Quest’ultimo, in particolare, ricorda che anche gli indiani, in particolare Āryabhata, hanno avanzato l’ipotesi della Terra che ruota su se stessa, al contrario di Aristotele e Tolomeo che la vogliono fissa e immobile al centro dell’universo. al-Bīrūnī sostiene che entrambe le ipotesi sono possibili sulla base dei pochi fatti significativi osservabili. Si tratta di difficoltà pratiche che non sarà semplice superare. Poco importa che al-Bīrūnī non sia equidistante tra le due ipotesi. E che finisca per prendere posizione a favore della teoria della Terra immobile. Il suo resta un approccio laico e scientificamente  piuttosto solido. Ci sono due teorie in competizione in grado di “salvare i fenomeni” e non è facile discriminare tra loro.

al-Bīrūnī non è certo il solo ad assumere questo approccio. Alla discussione sul moto della Terra partecipano in molti, come abbiamo detto, sia astronomi sia filosofi. Ma il suo carattere è di tipo scientifico. Sono i fatti osservati a dover dirimere la questione. E per ottenere fatti nuovi in grado di discriminare tra teorie e modelli, gli astronomi islamici mettono appunto, proprio come gli scienziati moderni (e gli scienziati ellenistici), nuove tecnologie. Per esempio, costruiscono astrolabi allo scopo specifico di verificare l’ipotesi che la Terra ruoti su se stessa e si muova nei cieli.
La discussione assume una dimensione epistemica molto profonda, che investe la relazione tra fenomeni e spiegazioni teoriche. Sebbene gli astronomi islamici, soprattutto dopo il IX secolo, siano essenzialmente tolemaici, non mancano critiche di merito al suo modello. Le più dure sono quelle di Abū ‘Alī al-Hasan ibn al-Hasan ibn al-Haytham (965 – 1038), nato a Bassora e morto al Cairo, che contesta il valore fisico del modello matematico di Tolomeo. La teoria astronomica, sostiene al-Haytham, deve spiegare ciò che c’è realmente nei cieli, non deve limitarsi a “salvare i fenomeni”. La teoria non può essere solo un modello matematico, per quanto efficace. Deve descrivere la realtà. Il modello di Tolomeo “salva i fenomeni”, ma non è certo la descrizione della realtà dei cieli. al-Haytham si dice convinto che esiste un procedimento matematico in grado di esprimere i movimenti reali dei corpi celesti, in grado di sostituire il modello tolemaico. Tuttavia non riesce a proporne uno. Occorrerà aspettare Copernico per avere un modello matematico oggi considerato “realista”.

Il più grande astronomo islamico è probabilmente Muhammad ibn Jābir al-Harrānī al-Battānī (858 ca. – 929), noto come Albategno. E anch’egli non esita a elaborare in maniera critica l’eredità culturale ellenistica. Rielabora, per esempio, il sistema di Tolomeo e giunge alla conclusione che in questa descrizione del cosmo l’eccentrica solare (ovvero la forma dell’orbita solare) non può essere fissa, ma deve essere variabile. Un rilievo che è in aperta contraddizione con l’idea aristotelica e tolemaica dell’eterna immutabilità del cosmo.
L’astronomia islamica, dunque, è ricca di contenuti concettuali e di osservazioni originali. Anche se alcuni storici, come John Dreyer, sostengono che l’Islam lascia l’astronomia lì dove l’aveva trovata, senza apportarvi nulla di originale, è certo che in Europa occorrerà attendere almeno il XVI secolo e Tycho Brahe (1546-1601) prima di avere osservatori e osservazioni analoghe.

Certo, accanto all’astronomia si sviluppa l’astrologia, ovvero lo studio della (presunta) influenza dei corpi celesti sulle vicende umane. Ma questo è quanto si verificherà anche in Europa nel XVII secolo e quanto si verificava ad Alessandria nel pieno della stagione ellenistica. Anche se, occorre dire, alla corte di al-Mansur e dei suoi successori l’astrologia assume un ruolo particolare e gli astrologi assumono grande influenza, anche politica.
L’astronomia non è la sola componente delle scienze naturali dove l’Islam produce nuove conoscenze. Non a caso quello che è considerato il più grande fisico islamico, Abū Yūsuf Ya’qūb ibn Isḥāq al-Kindī (801-866), si occupa, tra Basra e Baghdad, di meteorologia, di oceanografia (è un esperto di maree), di studi sui pesi specifici, di meccanica teorica. Di musica e teoria della musica. Tema ripreso anche da Abu Nasr Muhammad al-Fārābī (870-950).

Ma al-Kindī – che è considerato anche il “primo filosofo islamico” – si interessa soprattutto, di ottica: in particolare di riflessione della luce. È tra i protagonisti della traduzione diretta delle opere dei filosofi greci in arabo. In particolare traduce Aristotele. E si interessa della teoria della luce dello Stagirita messa in discussione da Euclide. In breve: Aristotele sostiene che, affinché l’occhio percepisca un oggetto, occorre che tra i due sia presente un mezzo trasparente, come l’aria, pieno di luce (al buio l’occhio non vede l’oggetto). Euclide sostiene, invece, che l’occhio emana dei raggi che raggiungono in linea retta l’oggetto illuminato e ne vengono riflessi. L’occhio vede grazie a quei raggi riflessi, sempre in linea retta. Lo scienziato islamico cerca di verificare quale delle due teorie sia la migliore per spiegare i fatti noti. Sostiene che la teoria di Aristotele è incapace di spiegare l’influenza tra percezione dell’oggetto e angolo di osservazione. La teoria geometrica di Euclide, invece, spiega questi fatti e, dunque, deve essere considerata la migliore spiegazione.

Gli studi di ottica vengono ripresi da Abū Sa’d al-‘Alā’ ibn Sahl (?-?; vive nel X secolo) e da Abū ‘Alī al-Ḥasan ibn al-Ḥasan ibn al-Haytham, noto in ambiente latino come Alhazen, che contesta al-Kindī e mette in discussione la teoria Euclide. Secondo Alhazen l’occhio non si limita a una ricezione passiva, ma grazie al cristallino, il “corpo trasparente”, elabora le informazioni ottiche. Ecco perché l’angolo di incidenza influenza la percezione degli oggetti osservati.
La disputa dimostra non solo che l’ottica è al centro degli interessi dei grandi fisici islamici, ma anche che la comunità scientifica è usa dar vita a dibattiti che a volte diventano anche accesi.

Talvolta molto accesi. Nei secoli  X e XI una serie di gruppi filosofici e anche di sette esoteriche iniziano a sostenere la dottrina atomistica della materia, ed entrano in contrasto con la visione aristotelica accettata dalla maggioranza degli uomini di scienza. Ne scaturisce una lotta che vede perdenti gli atomisti. Tra questi vi sono gli Ikhwan, o “Fratelli Puri”, sciiti, autori di svariate ed estese epistole raccolte a mo’ di enciclopedia, che sono molto diffuse in Spagna.
Nel XII secolo l’opera enciclopedica dei “Fratelli Puri” verrà dichiarata eretica e bruciata. L’enciclopedia degli Ikhwan è divisa in 4 parti. Le prima contiene 14 epistole che riguardano le scienze cosiddette propedeutiche: matematica, astronomia, geografia, musica e logica. La seconda si occupa delle scienze fisico-naturali e mette a fuoco i concetti di materia, forma, moto, tempo, spazio, vita, posto dell’uomo nel cosmo. La terza parte riguarda le scienze psicologiche e filosofiche: si occupa di concetti come magantropri (primati umani e non), amore, resurrezione, moto, causa ed effetto. La quarta parte, infine, tratta delle scienze metafisiche (ascesa a Dio, fede, rivelazione).

Scrivendo l’enciclopedia essi sottolineano e cercano di dimostrare come, che nella loro interpretazione della fede, la scienza sia la via migliore per raggiungere la verità.
Anche in questo caso, non deve stupire il fatto che molti tra gli islamici si interessino alla natura sia con approccio scientifico sia con un approccio esoterico. Nessuna rivoluzione scientifica, neppure quella europea del XVII secolo, ha mai distinto in maniera netta tra il razionale e il magico.
Non meraviglia, dunque, che gli Arabi dedichino molta attenzione all’alchimia. Che per loro non è magia. O meglio, nel mondo islamico l’alchimista è considerato un “mago buono”, che cerca soluzioni pratiche a problemi pratici. E, infatti, accanto a tratti chiaramente esoterici, l’alchimia islamica propone un modo di interrogare la natura molto vicino a quello scientifico.

L’alchimia si sviluppa soprattutto nell’Islam orientale, grazie sia al recupero delle conoscenze alessandrine sia all’innesto delle conoscenze cinesi. Il più noto alchimista arabo è certo Giabir ibn Hayyan (813 ca. – ?), noto in lingua latina come Geber). Qualcuno lo considera il padre della chimica moderna.
È proprio organizzando le conoscenze ellenistiche e cinesi che Giabir elabora un sistema di classificazione molto puntuale ed esteso sia dei minerali sia delle sostanze polverizzabili (non malleabili). Di suo ottiene non molti risultati originali, anche se mette a punto, tra l’altro, la sintesi del carbonato di piombo, un composto che sarà utilizzato come colorante e per smaltare la ceramica.

Di grande importanza è anche l’opera alchemica di Abu Bakr Mohammad Ibn Zakariya al-Razi (865 – 925; in latino Rhazes) capace di operare ad alto livello sia nell’ambito dell’alchimia pratica sia nell’ambito della teoria alchemica. Il suo Segreto dei segreti può essere considerato il prototipo dei manuali di laboratorio chimico.
Infine Abū Alī al-Ḥusayn ibn ‘Abd Allāh ibn Sīnā, noto in Occidente come Avicenna, è un alchimista. Avicenna in realtà è uno dei più grandi intellettuali dell’Islam, con interessi anche in matematica e, soprattutto, in medicina e filosofia. Come filosofo tenta una conciliazione profonda tra la cultura greca e quella islamica. Come medico scrive il Canone di medicina: il trattato della scienza islamica più studiato.

 Non solo Avicenna, ma molti altri alchimisti si interessano anche e soprattutto di medicina. È il caso del già citato Rhazes, che realizza un’opera di sistemazione delle conoscenze mediche importante quanto quella alchemica. Un suo libro, che diventerà famoso in Occidente col titolo latino di Liber continens, raccoglie appunto tutto lo scibile medico e propone le sue personali esperienze. Ma la letteratura araba che si occupa di medicina è davvero abbondantissima e ha in Galeno il suo punto di riferimento. Numerosi sono i grandi medici. Tra loro Isaac Judaeus (855 – 955), medico ebreo di origine egiziane e autore di un libro Sulle febbri. Il maggiore scienziato ebreo è il medico Mosè Maimonide (1135 – 1204), nato in Spagna vive al Cairo al tempo del grande Saladino. Critica Galeno, scrive di igiene. Il suo pensiero cosmologico influenzerà Tommaso d’Aquino.

Il medico islamico più importante è certamente Abū al-Rayḥān Muḥammad ibn Aḥmad al-Bīrūnī. Esperto di medicina, appunto, ma uomo colto e aperto. Discute, sia pure senza prendere una posizione definitiva, sul tema se la Terra ruoti o meno intorno al proprio asse. Studia la fisica, si interessa di pesi specifici e pozzi artesiani, ma soprattutto di ottica. In ambito matematico fornisce un apporto, critico, davvero importante: perché più di ogni altro contribuisce a far conoscere agli Arabi (e, di conseguenza, a noi) la cultura indiana. Scrive, appunto, India. E si interessa di conseguenza della matematica indiana. Riconosce che l’opera di Aryabhata non è un diamante puro, come quella di Euclide. E che è, piuttosto, un collage costituito da comunissimo vetro e da preziosissimi cristalli. al-Bīrūnī ipotizza che l’indiano abbia appreso molto dai matematici ellenisti, senza raggiungerne le vette. Ciò non impedisce che lo scienziato islamico si proponga come un entusiasta sostenitore e uno scrupoloso divulgatore del sistema di numerazione posizionale indiano.

 

L’Islam occidentale

Finora abbiamo descritto un Islam sostanzialmente unitario. In realtà il mondo musulmano, anche da un punto di vista culturale, non è affatto omogeneo. Anzi, si possono distinguere – come propone Charles Singer – un Islam orientale, che ha al centro Baghdad, in cui la cultura e in particolare la cultura scientifica raggiunge un grado di sviluppo maggiore rispetto all’Islam occidentale dall’Africa, della Sicilia e dell’al-Andalus.

Da questo punto di vista l’Islam somiglia a Roma, con un oriente dell’impero culturalmente più avanzato dell’occidente.
La Spagna, tuttavia rappresenta una sorta di eccezione nell’Islam meno avanzato dell’occidente. Grazie all’impulso che le viene dalla inattesa creazione di un califfato omayyade a Cordoba proprio mentre a oriente si affermano gli Abbasidi. Succede, infatti, che l’unico superstite della dinastia omayyade trovi rifugio nella penisola iberica, venga eletto califfo nel 756 e instauri un regime che gode di quasi totale autonomia, ma non di indipendenza (almeno non fino al 929) rispetto a Baghdad. Gli omayyadi di Cordoba trattano con tolleranza cristiani ed ebrei, sviluppano l’economia e la cultura. Con loro Cordoba diventa la città più brillante dell’Europa tanto che, a partire dalla fine del X secolo, rivaleggia con Baghdad come città culturalmente più brillante dell’intero Islam.

È proprio in questo periodo che nell’Occidente islamizzato arriva la scienza più avanzata. Cordoba ne è il centro propulsore. Grazie soprattutto al califfato di Abd al-Rahman III (889 – 961; califfo dal 929) che impone l’indipendenza politica della città e del suo territorio e ad al-Hakam II.
La crisi del Califfato nell’XI secolo porterà alla divisione della Spagna islamica, alla nascita di piccoli stati e al passaggio della leadership culturale da Cordoba a Siviglia. La crisi politica non danneggia, anzi sembra funzioni da stimolo per la cultura islamica in terra iberica. Mentre, infatti, in Oriente il culmine dello sviluppo culturale e scientifico viene raggiunto tra il IX e il XII secolo, in Spagna l’apice viene toccato proprio tra l’XI e il XII secolo, duecento anni dopo.

Tra gli esponenti di punta della scienza araba occidentale c’è l’ebreo Hasdai ibn Shaprut (915-990). È nato a Jaén, nel centro della Spagna, ma vive appunto a Cordoba, dove diventa ministro, medico di corte e protettore della scienza. È noto per aver tradotto in arabo molti manoscritti greci.
La medicina e, ancor prima, l’alchimia sono particolarmente sviluppate nell’al-Andalus. Ma è in astronomia che gli Islamici di Spagna raggiungono il massimo livello. Molto celebre è l’astronomo Abū Isḥāq Ibrāhīm ibn Yaḥyā al-Naqqāsh al-Zarqālī, Arzachel in latino (1029-1087), che vive tra Toledo e Cordoba, che migliora la tecnologia degli astrolabi e che, anche grazie a questa innovazione, compone tavole astronomiche molto accurate e precise, note come tavole toledane,.

Di notevole importanza è anche l’attività di Abū Ishāq Nūr al-Dīn al-Bitrūjī,  noto come Alpetragius (?-?; vissuto nell’XII secolo), nato in Marocco ma vissuto a Siviglia, che in un suo un libro popolare di astronomia preconizza il modello copernicano.
A Cordoba nasce e vive l’ultimo grande esponente della filosofia islamica,  Abū l-Walīd Muhammad ibn Ahmad Muhammad ibn Rushd, Averroé in latino (1126-1198). Sul suo pensiero ritorneremo. Per ora citiamo solo i suoi interessi astronomici. Che lo portano a studiare la Luna, riconoscendo che non è una stella, bensì un corpo “opaco e scuro”. E a individuare, per primo, le macchie sulla superficie del Sole.

Tutti questi nomi ci dicono quanto sia ricco il lavoro degli scienziati islamici in Spagna. In pratica i primi a calcare il suolo europeo dopo Archimede. Tuttavia l’al-Andalus svolge un ruolo decisivo nel rapporto tra la scienza e l’Europa soprattutto perché a Toledo (prima e dopo che nel 1085 cada nella mani cristiane) e nelle altre città spagnole islamizzate possono giungere ed essere accolti studiosi da ogni parte dell’Europa cristiana per tradurre dall’arabo le opere filosofiche, letterarie e anche scientifiche. È attraverso l’al-Andalus e le traduzioni arabe che l’Europa scopre e, per la prima volta, traduce in latino i classici ellenistici.

 

Tecnologia

L’interesse per la scienza nell’Islam si accompagna, come ad Alessandria, a un grande sviluppo tecnologico, alimentato soprattutto dopo il IX secolo, dalla domanda di innovazione dell’intero sistema produttivo, a sua volta fondato, come nelle città ellenistica, su una serie di vere e proprie industrie: tessile, metallurgica, cantieristica, cosmetica. Cartaria. Proprio la produzione di carta, con grandi fabbriche a Samarcanda e a Baghdad, ci parla dei continenti connessi. Proviene infatti dalla Cina. E giunge nel Medio oriente già nell’VIII secolo, anche se non sappiamo esattamente come.

Fuori dalle città, nei campi, il mondo islamico organizza una progredita agricoltura resa più ricca mediante sofisticati sistemi di irrigazione. L’affermazione anche di una sorte di borghesia agraria vogliosa di investire e di non vivere di rendita, consente un notevole sviluppo delle tecnologie a servizio dell’agricoltura. Per rispondere a questa domanda di innovazione gli ingeneri islamici mettono a punto complessi sistemi di regolazione delle acque, di irrigazione, di bonifica, di sollevamento, di distribuzione di acqua calda e fredda. Significativa è la diffusione ubiquitaria del mulino ad acqua, una tecnologia che esiste intorno al Mediterraneo fin dal primo secolo a.C., ma che non si è radicata da nessuna parte prima del IV secolo a causa della scarsa domanda d’innovazione nelle terre dell’impero romano. Che sia la domanda di innovazione a favorire la diffusione del mulino ad acqua lo dimostra il fatto che, sebbene ormai ben noto, in Europa inizia a essere usato con una certa sistematicità solo a partire dal XIII secolo.

Non ci sono, tuttavia, solo le macchine. Grazie all’aiuto dei botanici, gli agricoltori islamici introducono nei loro campi sia nuove piante importate dall’Oriente (cotone, canna da zucchero, meloni), sia nuove tecniche di coltivazione, come la rotazione delle colture. Il tutto consente un vistoso aumento della produzione di grano, riso, agrumi e delle piante che vanno a rifornire l’industria tessile.
Con questa organizzazione agricola fondata sull’innovazione, le carestie nella storia dell’Islam diventano un fatto eccezionale.

Come nota Lucio Russo, non c’è sviluppo possibile della scienza se non legato a una domanda di innovazione tecnologica. E questa relazione tra scienza e tecnica è molto presente ai pensatori islamici. Avicenna, per esempio, elenca una serie di scienze pratiche che dipendono dallo sviluppo delle conoscenze in geometria: la geodesia, la scienza degli automi, la scienza dei pesi e della bilance, la scienza degli strumenti di misura, la scienza delle lenti e degli specchi, la scienza idraulica.
Gli Arabi sviluppano molto la scienza applicata, soprattutto nei primi tempi. Anzi, sostiene Dmitri Gutas, è proprio l’esigenza della ricerca applicata e dello sviluppo tecnologico uno dei co-fattori che innescano la grande e lunga stagione delle traduzioni.

 

Prime conclusioni        

Nel secolo XII il pensiero islamico subisce una radicale trasformazione. Anche per impulso del filosofo e teologo persiano Abu Hāmid Mohammad ibn Mohammad al-Ghazzālī (1058 – 1111) la tradizionale tolleranza cede il passo a una sostanziale intolleranza. La cultura cessa di essere un valore e diventa causa della perdita di fede in Dio.
Naturalmente non è il pensiero di un singolo a fare la differenza. Per un al-Ghazzālī che sostiene che i filosofi si contraddicono l’uno con l’altro e che, pertanto, la filosofia non è una via affidabile per conseguire la verità, men che meno uno strumento che dà diritto a interpretare il Corano, c’è nel medesimo periodo un Averroé che rivendica non solo il diritto del filosofo a interpretare il Libro, ma anche l’esplicito riconoscimento da parte del Corano delle maggiori capacità dell’uomo di scienza e del filosofo di arrivare alla verità. La conoscenza, sostiene Averroé, aiuta ad arrivare alla verità.

Se il pensiero di al-Ghazzālī si impone e diventa egemone è perché tutto, nel mondo islamico, sta cambiando. Quel mondo effervescente conosce e subisce, come è già successo ai Romani, ai Cinesi e agli stessi Indiani, il fenomeno delle migrazioni dalle steppe dell’Asia orientale. A ondate successive i Turchi respinti ai confini di Cina e Mongolia giungono nell’Occidente islamico e lo destabilizzano. In breve: nel X secolo tramonta la dinastia abbaside e assume il potere nel mondo islamico un gruppo dirigente formato da Turchi e Berberi. L’Islam si divide. In Oriente, nel secolo successivo, assumono il potere i Turchi Selgiuchidi. Ormai, tranne che in Egitto, sono i musulmani non arabi a detenere il potere nel mondo islamico.
In questo ambiente completamente cambiato, cambia anche il rapporto tra religione, filosofia e scienza. L’Islam conosce un declino, anche e soprattutto intellettuale, da cui non si è più ripreso.

La scienza islamica – come quella cinese e anche indiana – raggiunge risultati davvero importanti e produce nuova conoscenza. E, proprio come quella cinese e indiana, è molto concreta ma troppo poco astratta. In altri termini non raggiunge il livello epistemologico del periodo aureo della scienza ellenistica, da cui peraltro molto attinge.
Resta il fatto che gli Arabi hanno sviluppato una capacità scientifica senza pari nel periodo tra il VII o l’VIII secolo e il XII secolo. Una capacità straordinaria, se si pensa che risulta incomparabilmente superiore anche a quella dell’Impero Romano d’Oriente, nonostante Bisanzio possieda per intero il patrimonio di conoscenze ellenistiche. Lo possiede, ma non lo sa rivitalizzare.
La verità è che per fare scienza non bastano i libri. Occorre un’attitudine culturale e sociale complessiva verso l’innovazione. Un’attitudine che l’Islam ha e Bisanzio no.

L’Islam, dunque, è l’anello di congiunzione tra la scienza ellenistica, ma anche indiana e persino cinese, e la scienza europea. Ma non è solo un anello di congiunzione. È anche un motore creativo. A dimostrazione che: «tutte le culture sono coinvolte l’una con l’altra, nessuna è unica e pura, tutte sono ibride, eterogenee, straordinariamente differenziate e non monolitiche» [Said, 1993; citato in Gutas, 2002].
La scienza moderna è, probabilmente, il contributo più importante che ci ha lasciato in eredità la civiltà islamica.