La scienza e l’Islam – 3

In occasione dell’incontro “Conoscere attraverso la scienza: l’Islam e l’Occidente” del 7 ottobre a Futuro Remoto, pubblichiamo una serie di articoli sulla storia della cultura scientifica islamica e sul suo rapporto con la scienza moderna

 

Traduzioni: come l’Europa scopre la scienza

Occorre attendere ben 1500 anni e, dunque, l’inizio del XII secolo prima che un europeo possa  leggere, in latino, gli Elementi: il testo con cui Euclide ha fondato  la moderna geometria. Gli abitanti del piccolo continente che vanno faticosamente scoprendo una comune identità, debbono la tardiva scoperta a un monaco inglese dell’Ordine di San Benedetto, Adelardo di Bath, che intorno al 1120 traduce dall’arabo quella fondamentale opera, dando avvio al rapporto, finora inedito, tra l’Europa e la scienza.
Come molti studiosi sostengono, la ricerca scientifica, intesa in senso moderno, è nata una e una sola volta: ai tempi di Euclide, appunto, nell’ambito della civiltà ellenistica. E si è poi estesa al resto del mondo, raggiungendo prima l’India e la Cina e solo dopo (molto dopo), per il tramite degli Arabi, l’Europa latina.

Un ruolo decisivo in questo modello per diffusione della cultura scientifica lo hanno avuto proprio le traduzioni da una lingua all’altra, a partire da quella di Euclide, di Archimede e degli altri scienziati ellenisti: il greco.
Potremmo far iniziare questo processo di traduzione delle opere scientifiche da Gondishapur, in Persia, quando ormai la civiltà ellenistica era tramontata da tempo. In questa città – un’autentica metropoli dell’epoca – hanno trovato rifugio nel VI secolo d. C. quei filosofi fuggiti da Atene dopo la chiusura dell’Accademia di Platone ordinata dal più grande degli imperatori bizantini, Giustiniano. A Gondishapur non coltivano l’ozio, quei filosofi neoplatonici. Al contrario, rinnovano l’antico sapere di cui sono espressione. Compreso  il sapere scientifico. Cosicché nel VII secolo, al momento della conquista da parte di una popolazione emergente venuta dal deserto, gli Arabi, la città persiana è ancora sede di una grande scuola medica di impronta ellenistica: l’Accademia medica. Ed è proprio a Gondishapur che gli Arabi e la loro religione, l’Islam, incontrano per la prima volta la grande cultura. E la assimilano.

Ma la storia ama cambiare spesso le carte in tavola. Durante il periodo degli Omayyadi (661-749), infatti, molti intellettuali – soprattutto cristiani nestoriani, ma anche ebrei di origine araba – lasciano la metropoli persiana e si trasferiscono in altre città del nuovo impero. Per esempio a Edessa, in Mesopotamia. E soprattutto a Damasco, la città siriana eletta a capitale del Califfato islamico. E sono proprio questi intellettuali, per lo più cristiani ed ebrei, che iniziano la prima grande e sistematica opera di traduzione dei classici greci ed ellenistici in siriano.
Sono protetti dal Califfo. Anzi, la dinastia omayyade inaugura una stagione di generoso mecenatismo su cui si fonderà il lavoro dei filosofi e degli scienziati islamici per oltre mezzo millennio. Tre secoli dopo a Cordoba, in Spagna, al-Hākim II, l’unico Califfo superstite della dinastia omayyade, finanza con propri mezzi vere e proprie spedizioni finalizzate  alla ricerca sistematica in Oriente di opere scientifiche, oltre che filosofiche e letterarie. Queste generose intenzioni e, soprattutto, queste concrete azioni appartengono soprattutto a califfi e principi. Ma non sono una loro esclusiva. Il mecenatismo è diffuso fin dall’inizio in tutta la società islamica e a cercare la scienza – fosse pure in Cina, come scrive il Corano – partecipano un po’ tutti gli strati sociali. Molti, aristocratici e non, prima di morire lasciano in eredità a istituzioni scientifiche una parte dei loro beni.

L’Islam, tuttavia, crea anche strutture scientifiche di stato. Con scienziati di professione. È, dunque, un luogo comune che gli islamici siano piuttosto degli intellettuali eclettici che non dei veri scienziati. Sappiamo, certo, che Abū ibn Sīnā, conosciuto in Europa come Avicenna, è un grande filosofo, che, a cavallo tra X e XI secolo, coltiva anche la matematica, l’astronomia, la medicina. E che anche altri, tra i più grandi scienziati islamici, abbiano fatto propria questa cultura eclettica. Ma la gran parte degli scienziati islamici sono professionisti specializzati. Con uno specifico settore di interesse prevalente.

Con la dinastia degli Abbasidi (a partire dal 750) inizia il periodo di massimo splendore dell’Islam: militare, ma soprattutto economico e culturale. La trasmissione del sapere greco ed ellenistico avviene ora attraverso una doppia opera di traduzione dei classici: con un’accelerazione della traduzione dal greco in siriano, durante il secolo che va dal 750 all’850, e poi dal siriano all’arabo dall’850 al 950. Questa immensa opera – tutto quanto è scritto in greco viene sistematicamente tradotto – è realizzata sotto la protezione del Califfo islamico da un gruppo di cristiani nestoriani, in particolare dagli appartenenti alla famiglia dei Bukht-Yishu (Gesù ha detto).

La famiglia proviene dall’Accademia di Gondishapur, conosce sia la scienza greco-ellenistica sia la scienza hindu, e dà origine ad almeno sette generazioni di eminenti studiosi che svolgeranno la funzione di cinghia di trasmissione del sapere attraverso la traduzione – una fedele traduzione –  nel periodo che va dal VII ad almeno l’XI secolo.
Con gli Abbasidi, la capitale e il centro culturale dell’impero si trasferiscono da Damasco a Baghdad. In particolare il settimo califfo abbaside, al-Ma’mūn – che ha una vera passione per la scienza – realizza nella nuova capitale islamica una scuola di traduttori presso la ricca biblioteca, la Bayt al-Ḥikma, che in arabo vuol dire Casa della Sapienza e che conterà fino a 500.000 volumi (in un’epoca in cui nessuna biblioteca cristiana supera il migliaio di libri), in lingua araba, greca, siriana, ebraica, copta, persiana e sanscrita. La Baghdad degli Abbasidi somiglia in maniera impressionante all’Alessandria dei Tolomei.

Come ad Alessandria, la biblioteca di Baghdad è il nucleo intorno a cui si svolgono svariate attività culturali originali. A iniziare proprio dalla traduzioni: di raffinata qualità. In tutta la città e in genere in tutto l’impero islamico, l’ammirazione per la scienza greco-ellenistica è davvero grande. Non a caso, nella ricostruirne i lineamenti, gli sciiti sostengono che l’”uomo perfetto” deve essere “greco per scienza”. Il più grande traduttore di opere scientifiche a Baghdad è certamente il medico Hunayn ibn Ishaq, anche lui nestoriano, vissuto nel IX secolo. Ishaq traduce tutta l’opera di Galeno e inizia a tradurre anche l’Almagesto di Tolomeo, oltre alle opere di Aristotele e di Ippocrate.

Nel corso di due secoli nella biblioteca di Baghdad vengono tradotte dal siriano in arabo – diventando comprensibili all’intera popolazione dell’Impero islamico – tutte le opere di Aristotele, dei filosofi greci e degli scienziati ellenisti. Ma queste antiche conoscenze vengono integrate con le conoscenze originali persiane, indiane e cinesi che sono, anch’esse, tradotte. In realtà molte sono le traduzione note dal persiano in arabo, poche quelle diretta dal sanscrito in arabo. Ma è anche vero che molte opere originali indiane vengono tradotte in arabo dal persiano. Una parte rilevante della matematica islamica si sviluppa sulla base di conoscenze che vengono dall’India.
La grande biblioteca di Baghdad andrà distrutta nel 1258 a opera dei Mongoli di Hulagu Khan. Il numero dei volumi perduti è semplicemente incalcolabile. Ma grazie all’opera di traduzione e di diffusione, il sapere che la biblioteca conteneva non viene perduto. Non del tutto, almeno. La gran parte resta conservata nelle altre grandi biblioteche islamiche: al Cairo e nelle città dell’Andalus, prime tra tutte Cordova, e in Sicilia.

All’inizio del secondo millennio, il Maghreb si va imponendo sempre più come il nuovo centro di gravità della cultura islamica e molti scienziati, intellettuali, maestri e studenti – alcuni dei quali provenienti dalle terre della Reconquista – si vanno concentrando nelle città di Cueta, Bugia, Tlemcen, Tunisi, Fès o Marrakesh.
Intanto anche l’Europa occidentale si va svegliando dal lungo letargo che l’ha isolata dalle grandi civiltà medievali dei continenti connessi. Così già nella seconda metà del X secolo, presso il monastero di Santa Maria de Ripoll, ai piedi dei Pirenei, si iniziano a tradurre dall’arabo quelle opere geometriche e astronomiche che sono lette e studiate, tra gli altri, da Gerberto d’Aurillac. il futuro papa Silvestro II. Gerberto d’Aurillac non è certo l’unico. Ma altrettanto certamente è ancora uno dei pochissimi europei interessati alla grande cultura araba. E quei pochissimi sono singoli o gruppi isolati in conventi ancora – e, anzi, sempre più – chiusi.

 

Toledo

Ma, oltre un secolo dopo,  nel 1085, la città di Toledo viene conquistata da Alfonso VI di León. Ed è  lì che si indirizza la domanda di conoscenza che sta timidamente iniziando a manifestarsi in Europa. Toledo ha una sua propria capacità di offerta culturale: è una grande città, ricca di documenti, dove si continua a parlare l’arabo e dove la popolazione di origine e di lingua ebraica traduce in maniera sistematica le opere scientifiche e filosofiche dall’arabo. Ma Toledo si trova anche in una posizione strategica tra l’area, l’Europa, che avanza una inedita domanda di conoscenza e l’area – ciò che resta di islamico in Spagna e soprattutto il Maghreb, che è diventato il centro del mondo islamico – che propone la più ricca offerta possibile.

Non è dunque un caso che proprio a Toledo nasca e fiorisca, nel XII secolo, una vera e propria scuola per la traduzione sistematica dall’arabo in latino. Da questa scuola sortisce buona parte di quella prima ondata di traduzioni che rende finalmente accessibile agli europei una parte significativa della filosofia e delle scienze greche, ellenistiche e islamiche.
La Escuela de traductores de Toledo viene organizzata nella prima metà del XII secolo nel capitolo della cattedrale cristiana e gode della protezione dell’arcivescovo Francis Raymond de Sauvetât. Ma ha un carattere aperto e una dimensione internazionale. Del Collegio dei traduttori, inaugurato nel 1116,  prima ancora che Francis Raymond de Sauvetât diventi arcivescovo della città nel 1125, fanno parte, infatti, non solo spagnoli di religione cristiana come Giovanni da Siviglia, Domenico Gundisalvi o Pietro Alfonso , ma anche intellettuali di religione islamica ed ebraica, come Abraham ha-Nasi, noto come Savasorda. E vi sono anche studiosi che provengono da ogni parte d’Europa, come l’italiano Gerardo da Cremona, gli inglesi Adelardo di Bath e Roberto di Chester; l’istriano Ermanno di Carinzia.

La “fuga verso la Spagna” di questi e altri studiosi che diventano traduttori non interessa solo Toledo. Per esempio, l’italiano Platone Tiburtino, nato a Tivoli, traduce anche da Barcellona. Tuttavia è il Collegio di Toledo che si impone come il gruppo di gran lunga più importante e prolifico. Tra il 1116 e il 1187, nei suoi primi settant’anni di vita, nel Collegio di Toledo vengono tradotte per la prima volta in latino più di cento opere fondamentali di scienza e filosofia. Oltre a una serie di opere minori o del tutto trascurabili.
L’opera di traduzione avviene attraverso svariate modalità. Se il traduttore conosce bene l’arabo, traduce direttamente in latino. In caso contrario lavora con accanto un esperto di lingua araba. Altre volte fa tradurre dall’arabo nella nascente lingua spagnola e poi traduce dallo spagnolo in latino.

Malgrado tutti questi passaggi – e tenendo presente che molte opere in arabo sono, a loro volta, frutto di una sequela di traduzioni dal greco – i risultati sono davvero soddisfacenti. Se una qualche difficoltà esiste, riguarda soprattutto il latino, lingua antica e nobile, ma che non ha, semplicemente, le parole per esprimere i concetti e raccontare gli oggetti della scienza più avanzata. Molti termini vengono così traslitterati. È per questo che ancora oggi molte parole usate dagli scienziati hanno una chiara origine araba.
Tra i grandi traduttori a Toledo c’è, come abbiamo detto, Adelardo di Bath, autore non solo della prima traduzione in latino degli Elementi, m anche di quel Libro sull’addizione e la sottrazione secondo il calcolo degli Indiani con cui l’islamico al-Kwarizmi propone, appunto, il sistema di numerazione posizionale indiano. Adelardo, che visita la Siria e Cordova, e dimora sia a Toledo sia poi in Sicilia, scrive anche un libro a mo’ di dialogo, le Naturales quaestiones, con l’intenzione di offrire un breve compendio della scienza islamica.

Intanto Roberto di Chester realizza sia la prima traduzione in latino del Corano, sia di testi di alchimia e di una versione dell’Algebra di al-Kwarizmi. Come Adelardo anche Roberto, tornato in Inghilterra, propone opere scientifiche originali: per esempio, le tavole astronomiche per il calcolo della longitudine di Londra, realizzate nel 1149, che riprendono i lavori realizzati da al-Battānī nel IX secolo, e come le tavole per il calcolo della latitudine basate sugli studi di al-Kwarizmi.
Ma il traduttore di gran lunga più importante è l’italiano Gerardo da Cremona, leader di un gruppo che riscrive in latino decine di opere diverse. Gerardo (o Gherardo) è un intellettuale che si è formato in Italia, dove ha maturato una certa insoddisfazione per l’insegnamento ricevuto. Lui vuole conoscere il meglio delle scienze naturali. Decide così di recarsi a Toledo, con l’esplicito intento di trovare e leggere direttamente l’Almagesto di Tolomeo. Ma una volta giunto nella città spagnola si avvede che l’offerta di libri di primario interesse va ben oltre quello che immaginano gli Europei di lingua latina. Decide così di restare a Toledo, imparare l’arabo e tradurre per ogni argomento le più preziose tra quelle perle di conoscenza.

In breve: sono opera di Gerardo e/o dei suoi collaboratori non solo le trascrizioni in latino dell’Almagesto, ma anche: La misura del cerchio di Archimede; l’Algebra di al-Kwarizmi e la Geometria dei tre fratelli (i fratelli Banū Mūsā, vissuti a Baghdad nel IX secolo) che ripropone diverse tecniche matematiche di Archimede; il Libro delle divisioni di Rhazes; l’Ars Medica di Galeno; il Canone di medicina di Avicenna; la Chirurgia di Abbas al-Zahrāwī; tutte le opere di fisica di Aristotele (La fisica, Il cielo, La generazione e corruzione, La meteorologia); e gli Analitici secondi in cui lo stagirita propone il suo metodo scientifico.

Alla fine Gerardo e il suo gruppo avranno tradotto in latino tra 70 e 85 libri. E tutte queste traduzioni di spicco modificano non solo il corso della scienza occidentale ma anche il corso della storia culturale tout court dell’Europa. A chi poi avesse dubbi sul fatto che Gerardo da Cremona debba essere considerato il più grande dei traduttori occidentali, basti ricordare che è a lui che la maggioranza degli Europei deve la possibilità di leggere per la prima volta (in latino) gli Elementi di Euclide, a quasi un millennio e mezzo dalla sua stesura. Sebbene la traduzione di Gerardo da Cremona venga dopo quella di Adelardo, risulta di gran lunga migliore e sarà la più utilizzata.

Nonostante il fondamentale recupero di Euclide, di Archimede o di Tolomeo, le traduzioni dall’arabo non riguardano solo il passato. Al contrario, a essere tradotti, studiati a fondo e metabolizzati ci sono anche libri dei filosofi e degli scienziati islamici contemporanei, come Averroé.
Abū ibn Rushd, noto appunto come Averroé, nasce a Cordova nel 1126: ovvero dieci anni dopo l’inaugurazione della scuola di traduzione di Toledo. A dimostrazione che la cultura scientifica europea non viene alla luce quando la cultura scientifica islamica declina. Al contrario, i tempi si sovrappongono e le due culture si intersecano.

In Spagna vengono tradotti e letti anche i testi degli ebrei colti che hanno scritto e scrivono tuttora in arabo, come Solomon ibn Gabirol di Saragozza e Moses ben Maimon che vive a Cordova.

Sta di fatto che quello che gli Europei scoprono in Spagna nel XII secolo è un mondo non solo vivo e di saperi alti, ma un vero e proprio crogiolo di culture che interagiscono in un clima di razionalismo e di tolleranza sconosciuto nelle terre cristiane. E lo riconoscono: Adelardo di Bath, per esempio, va sostenendo che gli Islamici, a differenza dei maestri parigini, sono «sapienti dai quali ho imparato a farmi guidare dalla ragione». Mentre nel Dialogo fra un filosofo, un giudeo e un cristiano, Pietro Abelardo assegna allo studioso islamico il ruolo dello filosofo della natura autenticamente libero, perché privo dei pregiudizi e dei condizionamenti religiosi che, invece, nel mondo cristiano bloccano la ricerca e, dunque, il progresso della conoscenza.

 

A Palermo

Mentre l’Europa sta imparando a riconoscere la sua identità, il Mezzogiorno d’Italia viene unificato dai Normanni. Il suggello avviene il 25 dicembre 1130, con l’incoronazione a Palermo di Ruggero d’Altavilla a Re di Sicilia, col nome di Ruggero II.
L’uomo è persona colta e abile. Di quelle che lasciano il segno. La grandezza di Ruggero risiede nella sua personale filosofia politica. Nella sua idea laica di stato. È lui, per esempio, che, a partire dal 1140, consegna al suo regno e all’Europa quella sorta di prototipo di carta costituzionale nota come Assise di Ariano.

Le persone che il re normanno chiama ad amministrare la cosa pubblica sono spesso scelte tra quelle che hanno servito un governo islamico (arabi) o bizantino (greci). Ma Ruggero chiama a sé anche amministratori dal nord d’Europa, che inevitabilmente tendono a restringere gli spazi di greci e arabi. Tutta l’opera di Ruggero è all’insegna della contaminatio. E la contaminazione risulta davvero produttiva: l’ordinata amministrazione fiscale fa infatti affluire nelle casse dello stato centrale, a Palermo, notevoli quantità di denaro. Ruggero II dispone di molte risorse. Il Regno di Sicilia è il più ricco d’Europa.

I documenti ufficiali del Regno sono emanati in tre diverse lingue: latino, greco e arabo. Anche se il greco può essere considerata la lingua principale, non fosse altro perché preferita dal re.

La scelta delle tre lingue ufficiali sta a indicare non solo che la realtà sociale del nuovo regno è composita. Ma anche che Ruggero vuole governarla con una politica improntata alla tolleranza, nel tentativo convinto di tenere insieme pacificamente i cinque popoli (Normanni, Lombardi, Arabi, Greci ed Ebrei) e i quattro gruppi religiosi (Cristiani, cattolici e ortodossi; Islamici, Ebrei). Il Regno di Sicilia diventa così il primo modello di tolleranza – un vero e proprio stato laico multietnico e multireligioso – concepito e realizzato nel mondo cristiano. Sulla base di queste premesse, Ruggero inaugura una originale e tollerante politica culturale.

Palermo è la capitale del regno di Ruggero. D’altra parte, quale altra città del Sud d’Italia potrebbe far concorrenza a quella che è una delle maggiori città dell’Eurasia occidentale? Se il Regno di Sicilia è il più ricco del continente neonato, Palermo, con i suoi 200 o forse 300.000 abitanti, ne è la città più popolosa]. Anzi è la maggiore di tutto il bacino mediterraneo, dopo Baghdad, Cordoba e Costantinopoli.

Cosicché molte delle cospicue risorse del sovrano sono investite per animare la vita culturale della corte palermitana. Dove si incontrano e spesso si confondono amministratori e intellettuali, appunto, di cultura greca, islamica, ebraica e latina.

Gli intellettuali hanno le più diverse vocazioni e attitudini. La reggia di Ruggero, per esempio, accoglie poeti musulmani di grande valore, che spesso cantano le lodi del sovrano. E non solo per i soldi e i privilegi che vengono loro concessi. Ma perché sono convinti ammiratori della saggezza del re. Molti intellettuali dividono il loro tempo tra la Sicilia e l’Africa. E almeno uno tra loro, Mohamed ibn Hamdis, gode di una fama che va ben oltre il Mediterraneo occidentale.
Un altro tipico intellettuale del regno di Ruggero, un filosofo della politica, è l’islamico Ibn Ẓafar al-Ṣiqillī, il Siciliano: nato, appunto, in Sicilia, studia a la Mecca, in Egitto e a Mahdia, nell’odierna Tunisia. È autore di Sulwān al-muṭā, un’opera che si configura come una sorta di anticipazione del Principe di Machiavelli. Il filosofo islamico sarà dimenticato in Occidente – finché non sarà riscoperto e tradotto da Michele Amari a metà dell’Ottocento – ma resta molto noto nel mondo islamico. La Sicilia dell’XII secolo è dunque al centro della cultura mediterranea e come gli intellettuali che ruotano intorno alla corte di Ruggero siano di valore assoluto.

In città giungono filosofi e poeti da tutto il Mediterraneo. Ruggero è però attratto dal seducente mondo della scienza. E, dunque, il re normanno chiama alla sua corte anche e soprattutto matematici, filosofi naturali, medici, ingegneri e alchimisti d’ogni parte e di ogni religione. Cosicché la sua corte diventa il luogo dove, più di ogni altro, è possibile incontrare tutto il sapere esistente nel mondo mediterraneo, di lingua greca, araba e latina appunto.

La contaminatio coltivata da Ruggero nel XII secolo viene riproposta a Palermo anche dal nipote, Federico II, nella prima metà del XIII secolo. Come quella del nonno, la corte dello stupor mundi, re di Sicilia e Imperatore del Sacro Romano Impero, è ricca di persone istruite nelle più varie arti. Aperta a ogni cultura: un crogiolo di saperi che, appunto, si contaminano reciprocamente, costituita da uomini di ogni lingua e religione che vengono da ogni parte d’Italia, d’Europa e anche da molte altre regioni mediterranee. Uomini (e donne), che in un regime di reciproco rispetto e di grande tolleranza, portano avanti i loro studi in ogni direzione.
Si tratta di intellettuali, funzionari, notai, giudici e avvocati, cavalieri, dotti di diverse discipline e impegnati in diverse funzioni. Tra loro traduttori dal greco di grande valore, come Giovanni Grasso d’Otranto, Giorgio Cartofilatto o Bartolomeo da Messina: è quest’ultimo che riscrive in latino l’Etica di Aristotele. Presso la corte di Federico, oltre a quella latina e a quelle di derivazione latina (italica, francese, tedesca) si coltiva proprio la cultura greca. E la corte di Federico si impone come il primo centro europeo di traduzione dal greco in latino (e, spesso, anche dal latino in greco). Nel regno di Federico la cultura greca ha come un revival, si diffonde ben oltre la sua corte e i suoi funzionari, per coinvolgere anche la società civile: i notai e gli avvocati, i segretari, i vice comites, i generali, i medici, gli insegnanti e i semplici monaci.

La diffusione è tanto capillare e radicata che in Puglia le scuole in lingua greca, volute da Federico, sopravvivranno fino al XIV secolo. Nei monasteri si conservano i testi in greco dei classici della letteratura, ma anche dei libri di medicina e delle scienze. È a Palermo che gli Elementi vengono tradotti per la prima volta in latino direttamente dal greco.
Non basta. La biblioteca del monastero di Casole non solo possiede una ricca collezione di testi greci, ma, cosa che conta ancora di più, è aperta: i libri non sono a disposizione solo dei monaci, ma di tutti. Una caratteristica, questa della diffusione della cultura greca nel Regno di Sicilia, che non è questione da poco. Perché, se è vero che in tutta  Europa si vanno ormai riscoprendo e traducendo le opere degli antichi greci, in primo luogo di Aristotele, è anche vero che su molte di quelle opere riscoperte e tradotte in latino inizia a operare la censura della Chiesa. Una censura che non giunge nelle regioni meridionali controllate da Federico.

Inoltre le traduzioni dal greco in latino nel Regno di Sicilia sono così sistematiche da determinare, per paradosso, la diminuzione della diffusione delle opere originali. A poco a poco le opere in greco scompaiono dalle biblioteche e diventano sempre più rare. Il fenomeno è in realtà più generale. Riguarda l’intero continente ed è accelerato dalla latinizzazione voluta della Chiesa, dalla penetrazione della lingua latina nelle varie amministrazioni e dalla stessa decadenza di Bisanzio. Anche se quest’ultima provoca una diaspora degli intellettuali greci, che si diffondono in tutto il Mediterraneo. E persino nei mari del nord: Ruggero Bacone testimonia dell’arrivo di eruditi di lingua greca in Inghilterra. Mentre Nicola, detto appunto il Greco, collabora con Roberto Grossatesta di Lincoln nelle traduzioni di Aristotele.

È, questa, una seconda ondata di traduzione (durerà fino al 1270) che consente di acquisire alla nascente cultura europea non solo l’intero corpo della logica di Aristotele, presente solo in parte dai tempi di Boezio, ma anche e soprattutto nuovi libri di matematica, astronomia, fisica che nelle terre d’Europa non erano mai prima giunti.
La differenza rispetto al sistema di traduzione del secolo precedente, oltre alla sistematicità, è che alla corte di Federico vengono tradotte, lo ripetiamo, soprattutto opere originali in greco che provengono direttamente da Costantinopoli, come gli Elementi di Euclide. Opere originali che sono in parte diverse da quelle in arabo.

Le traduzioni facilitano un’inedita analisi comparata, filosofica e teologica. Mosé di Salerno, per esempio, lavora con Niccolò da Giovinazzo al confronto delle due versioni, l’ebraica e la latina, della Guida dei Perplessi, l’opera in tre volumi che l’ebreo Rabbi Moshe ben Maimon, noto in occidente come Maimonide, ha scritto in arabo per riconciliare la filosofia con le Sacre Scritture.
La corte estesa e cosmopolita di Federico è nota per la qualità dei giuristi e dei poeti che la frequentano. Ma in realtà non sono da meno filosofi naturali e alchimisti, matematici e astronomi. Federico chiama accanto a sé Giovanni da Palermo. Di lui sappiamo poco. Non sappiamo neppure se sia un siciliano nativo o un arabo. Non sappiamo se sia solo un matematico, o anche un notaio e un diplomatico che tiene i contatti con Tunisi per conto di Federico. Certo è uno degli esponenti della scuola scientifica araba in Sicilia e che ha tradotto dall’arabo un trattato di matematica, il De duabus lineis. Ed è altrettanto certo che è con Federico a Pisa quando, nel 1226, lo svevo si ferma in città e incontra Leonardo Fibonacci: il matematico che ha studiato nelle grandi città dell’Islam e che ha portato in Europa le cifre arabe e la numerazione posizionale indiana.

A introdurre a corte Giovanni da Palermo è Domenico Ispano, un altro matematico e astrologo dell’entourage di Federico molto in vista. Tanto che Fibonacci nel 1220 gli dedica il Practica geometriae.
Ancora più noto è Mastro Teodoro, chiamato anche Teodoro di Antiochia, un siriano che sa di filosofia, medicina e astrologia. È giunto alla corte di Federico su indicazione del sultano d’Egitto, al-Malik al-Kāmil. E assolve a ruoli importanti, addirittura di leadership, perché sostituisce Michele Scoto quando lo scozzese muore. Cura la corrispondenza di Federico con il sultano di Tunisi e segue, in particolare la medicina: su richiesta del re, scrive una lettera sul «governo del corpo per conservare la salute».

Grande influenza a corte hanno l’astrologo e astronomo Guido Bonatti di Forlì. E tre filosofi, astronomi e matematici ebrei: Ja’aqov Anatoli, Mosé ibn Tibbōn e Giuda ben Salomone ha-Cohen. Basterebbero questi nomi, in aggiunta ai medici di Salerno, per dare un’idea della vastità e del carattere cosmopolita del gruppo di uomini di scienza alla corte di Federico.
Ma la figura più importante è certamente quella di Michele Scoto. Nato in una famiglia nobile in Scozia nel 1175, Michael Scot ha studiato filosofia e matematica a Parigi e Oxford, prima di trasferirsi a Toledo, dove apprende l’arabo e l’arte di tradurlo. E dove entra nel vivo del dibattito culturale su alcune questioni cosmologiche controverse, come la struttura dei cieli. Nella città spagnola traduce, appunto, quel De Sphaera con cui Alpetragio (al-Biturgi) ha ripreso la critica al sistema tolemaico dei cieli proposta da filosofo, matematico, medico e giurista spagnolo di cultura araba Averroé sul finire del XII secolo e l’ha integrata, proponendo a sua volta un modello omocentrico di tipo aristotelico.

Michael Scot è un vero esperto di Aristotele, di cui traduce dall’arabo in latino il De Animalibus, il De Caelo, il De Anima con i commenti di Averroé e, probabilmente, anche la Fisica e la Metafisica, nonché le considerazioni di Averroé sul De Generatione, sulle Meteore e sui Parva Naturalia. In definitiva, lo scozzese è tra i primi in Europa a tradurre in latino le opere di Averroé ed è il primo in assoluto a tradurre dall’arabo la biologia di Aristotele.
Federico II è noto per aver promulgato le Costituzioni di Melfi. Ebbene in quel prototipo  di carta costituzionale vari capitoli riguardano in maniera esplicita la scuola medica della Hippocratica Civitas, Salerno: la prima scuola medica europea.

Ai tempi del nonno di Federico, Ruggero II, è a Salerno che, per la prima volta in Europa, la medicina si afferma come disciplina scientifica. Con Costantino l’Africano, ma anche con Trotula de Ruggiero e tanti altri, l’antica Scuola medica salernitana effettua un salto di qualità e si afferma come la migliore e la più nota del continente. Tuttavia è nei primi decenni del XIII secolo, quando già inizia la competizione con l’università di Montpellier,  che il prestigio della “Schola Salerni” raggiunge il suo apice. Tutti in Europa la conoscono. E moltissimi, studenti e docenti, da tutta Europa vengono a Salerno per apprendere e/o per insegnare la scienza medica.

A determinarne le nuove fortune contribuiscono, nel 1231, proprio le Costituzioni di Melfi, con cui il re, Federico II, rende più stringenti le norme che regolano la professione medica, disponendo che possano esercitarla solo ed esclusivamente persone che hanno studiato presso la Scuola Medica di Salerno. Le Costituzioni ribadiscono che la Schola Salerni è una scuola pubblica, ma con uno statuto indipendente, diretta da un Præses di nomina regia e con un corpo docente costituito da medici di chiara fama e di qualsivoglia provenienza. La Scuola di Salerno, come lo Studium di Napoli, è una grande scuola laica e libera. Dove possono studiare sia uomini che donne, come è nella tradizione salernitana.

Ma tutto questo non basta. Il contributo più rilevante alla scienza fornito dalla corte di Federico è quello dato dall’imperatore in persona. Nel suo celebre trattato di falconeria, il De arte venandi cum avibus, non solo riassume tutta la conoscenza del suo tempo, ma propone nuova conoscenza ottenuta con vere e proprie sperimentazioni, talvolta crudeli ma sempre perfettamente ripetibili. È il segno che i nani europei – come sosteneva Bernardo, filosofo e cancelliere della nota scuola cattedrale di Chartres – riescono finalmente a salire sulle spalle dei giganti del passato e a guardare, talvolta, più lontano. È il segno che le traduzioni hanno avuto il loro effetto: anche l’Europa ha finalmente scoperto la scienza.