Il vantaggio dell’attaccante. Ricerca e innovazione nel futuro del Belpaese

È un libro snello ma denso quello che Lucio Bianco, ingegnere ed ex presidente del CNR, ha firmato con Paolo D’Anselmi, consulente aziendale e politico, e appena pubblicato da Donzelli con il titolo Il vantaggio dell’attaccante. Il sottotitolo chiarisce qual è l’argomento: Ricerca e innovazione nel futuro del Belpaese.

L’idea centrale del libro è: la ricerca scientifica è il motore dell’innovazione e dunque della competitività economica. Gli autori sostengono che l’Italia vive un lungo periodo di crisi economica anche perché persegue un «modello di sviluppo senza ricerca». E che per uscire dal tunnel del declino occorra puntare sulla scienza, perché «niente come la ricerca può rilanciare l’economia nel lungo periodo, conseguendo un miglioramento strutturale e duraturo».

Di grande interesse è la ricetta in dieci punti che Bianco e D’Anselmi propongono. Ve le riproponiamo, in breve, perché è un conciso programma di governo.

  1. Agganciare l’Europa, mettendo al centro una politica della ricerca che miti a ridurre il gap con gli altri paesi dell’Unione. Il che significa aumentare la quantità di risorse e il numero dei ricercatori. Ma anche valorizzare la figura del ricercatore pubblico.
  2. Ristabilire i corretti rapporti tra politica e scienza, riconoscendo nei fatti l’autonomia dei sistemi scientifici e la libertà di ricerca dei singoli ricercatori. È necessaria la costituzione di un’Agenzia nazionale che finanzi la ricerca in maniera indipendente dalla politica.
  3. Rafforzare la ricerca pubblica, investendo nell’università (humboltiana, ovvero università in cui si fa formazione e ricerca) ma anche negli Enti pubblici.
  4. Stimolare la ricerca industriale, particolarmente carente nel nostro paese. Gli strumenti indicati sono: far emergere nelle aziende strutture di ricerca formalmente costituite; incentivare gli investimenti; facilitare la costituzione di personale altamente qualificato.
  5. Investire nelle infrastrutture di ricerca.
  6. Promuovere la ricerca, incentivando università ed Enti pubblici ad “aprirsi all’esterno” e a promuovere, appunto, progetti con soggetti diversi, anche privati.
  7. Valutare la ricerca in ogni momento (ex ante, in itinere, ex post) ma con un approccio che non sia burocratico.
  8. Le politiche dell’innovazione. Lo sviluppo tecnologico non è il semplice risultato di un collegamento tra produzione primaria di nuova conoscenza e imprese. Occorre creare ambienti con una forte vocazione innovativa.
  9. Le risorse. Giungere entro il 2020 a investire in ricerca e sviluppo una percentuale del Prodotto interno lordo non inferiore all’1,5% e prossima al 2,0%. Con particolare attenzione all’aumento del personale di ricerca.
  10. Il governo del sistema. I finanziamenti pubblici devono avvenire a opera di un’Agenzia indipendente, ma il cervello politico in grado di coordinare le attività di ricerca tra stato e regioni, e tra i diversi ministeri, deve essere localizzato presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri.

Pietro Greco

 
 

Il vantaggio dell’attaccante
di Lucio Bianco e  Paolo D’Anselmi

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Recensione di Paola Pilati

 

Per quanti si lambiccano chiedendosi se fare politica economica sia sussidiare l’acciaio o preferire l’import di gas alla ricerca del petrolio in Basilicata, detassare gli utili delle imprese o tagliare il costo del lavoro, ecco una risposta: rilanciare la ricerca. Per fare sviluppo, e accrescere la competitività dell’Italia a tutto campo, non c’è niente di meglio, niente di più efficace. È questa la tesi de “Il vantaggio dell’attaccante”, di Lucio Bianco e Paolo D’Anselmi (Donzelli, 18 euro), un pamphlet che ha più di un merito.

Primo, quello di non accondiscendere alle vulgate che vedono il nostro settore ricerca abbandonato a un nuovo oscurantismo, ultima ruota del carro all’estero e dissanguato dall’emigrazione dei cervelli migliori. Secondo merito, guardare alle possibilità di crescita dell’intero sistema paese con le lenti della ricerca. Diventando, la ricerca, una specie di leva tuttofare, di pietra filosofale con cui attivare talenti, migliorare la pubblica amministrazione, costruire una maggiore libertà intellettuale, educare la politica a valutare (e semmai sanzionare) senza invadere. Il terzo merito del libro è quello di fare proposte. Non esiste una Maastricht della ricerca, scrivono gli autori, cioè uno schema che regoli a livello europeo il percorso virtuoso nel settore, tra vincoli e obiettivi, ma si capisce che lo vedrebbero con favore.

Quando si dice della pervasività della ricerca non si tratta naturalmente si trasformare l’Italia in un grande campus dominato dalla classe degli scienziati. Ma non ci si può neanche accontentare di finanziare pochi poli di eccellenza. Per invertire la strada del declino già imboccata, l’Italia deve sviluppare tecnologie avanzate e innestarle nei settori produttivi che storicamente sono stati i suoi punti di forza, dicono gli autori. Perché oggi il vero “capitale”, più che il denaro, è la conoscenza; è il sapere che determina il prezzo mondiale di uno smartphone ben oltre quello dei suoi componenti materiali. E in questa gara globale siamo tutt’altro che svantaggiati, nonostante la spesa di R&S sia sottodimensionata rispetto ai partner europei, dipenda prevalentemente dalla tasca pubblica con l’industria quasi assente, e la materia prima per fare ricerca, cioè i ricercatori, sia largamente insufficiente. La nostra produttività scientifica però è alta, con consensi e apprezzamenti dall’estero, e una buona posizione nell’ottenere finanziamenti europei.

Cosa ci manca, quindi? Occorre un piano di lungo termine (dieci anni) per accrescere le risorse umane coinvolte nella ricerca. Inoltre “occorre lavorare su tutto ciò che non è ricerca ed è condizione ambientale perché la ricerca scientifica si svolga e prosperi”, scrivono Bianco e D’Alselmi. Un non piccolo programma di “fine tuning” che tutto è meno che una valanga di denaro (anche se il denaro serve), ma è soprattutto buona governance.