La natura della conoscenza

La risorsa infinita. Capitolo 4

La natura della conoscenza

La società della conoscenza

Sono passati ormai sessant’anni da quando il padre delle scienze cibernetiche, Norbert Wiener, segnalava l’avvento di una nuova era dell’informazione e della conoscenza e ne prefigurava le enormi opportunità e i rischi non meno grandi. Oggi quasi tutti riconoscono che il mondo è entrato in una nuova stagione dell’evoluzione culturale e dell’economia dell’uomo, fondata sulla scienza e su quel tipo di tecnologia che, come scrive Luciano Gallino, «incorpora volumi senza fine crescenti di conoscenza scientifica».

La società della conoscenza (1) costituisce al tempo stesso lo sviluppo e il superamento della società industriale, fondata sulle macchine e sul lavoro manuale, che a sua volta ha costituito lo sviluppo e il superamento della società agricola, fondata sulla domesticazione di piante e animali e sul lavoro manuale nei campi.
La novità della nostra era, naturalmente, non è la conoscenza in sé. L’evoluzione culturale dell’uomo è, infatti, iniziata con l’uomo stesso. E, quindi, la produzione di nuova conoscenza, di informazione e di tecnologie innovative da sempre accompagna l’uomo. Non a caso gli antropologi hanno chiamato habilis il primo rappresentante del genere Homo, apparso sulla Terra oltre 2,5 milioni di anni fa. E habilis in che cosa se non nella capacità di acquisire nuove informazioni, trasmetterle rapidamente, trasformarle in conoscenza e utilizzarle per manipolare l’ambiente intorno a lui attraverso il lavoro e la tecnologia?
La novità della nostra era risiede nel fatto che la produzione di informazione, di nuova conoscenza e di quel tipo di tecnologie che «incorporano volumi senza fine crescenti di conoscenza scientifica» sono diventati i fattori primari, per dirla ancora con Luciano Gallino, «dell’innovazione, della crescita economica, della competitività internazionale delle imprese e dell’economia nazionale». In altri termini, nella società dell’informazione e della conoscenza la produzione dei beni che hanno maggiore successo di mercato è sempre meno caratterizzata da un’alta intensità di lavoro e sempre più da un’alta intensità di conoscenza.

La variazione strutturale degli stock di capitale reale lordo negli Stati Uniti all’inizio e alla fine del secolo scorso ce ne fornisce una prova quantitativa. Lo stock  di capitale reale è il patrimonio di un paese.  Il patrimonio che gli Stati Uniti possedevano sotto la forma di beni materiali nel 1929 era il doppio rispetto allo stock di capitale immateriale (6.075 miliardi di dollari contro 3.2151 a dollaro costante del 1987). Nel 1990 la qualità del patrimonio risultava radicalmente modificata. Lo stock di capitale reale lordo immateriale prevaleva ormai nettamente su quello fisico (32.819 miliardi contro 28.525). In sessant’anni il patrimonio in forme tangibili è aumentato del 370%, ma il patrimonio in forme intangibili è aumentato del 910%.

Tabella 1. Lo stock di capitale reale lordo negli Stati Uniti
(miliardi di dollari costanti, 1987)
Componenti dello stock reale 1929 1990 Variazione %
Strutture e macchinari 4.585 23.144 ­+ 405
Stock 268 1.537 + 474
Risorse naturali 1.222 3.843 + 214
Capitale tangibile (totale) 6.075 28.525 + 370
     
Istruzione e formazione 2.647 25.359 + 858
Salute, sicurezza, mobilità 567 5.133 + 805
R&S 37 2.327 + 6.189
Capitale non tangibile (totale) 3.251 32.819 + 910
                   Fonte: [Kendrick, 1994] riportata in [Foray, 2006]

In realtà, il ruolo primario della conoscenza – e in particolare della conoscenza scientifica – non riguarda solo la dimensione economica, ma investe l’intera società, rimodellando in maniera incessante il dibattito culturale, etico, religioso, ambientale, politico. La conoscenza è diventata il nuovo e il più importante fattore di inclusione o, purtroppo, di esclusione culturale e sociale all’interno delle nazioni e tra le nazioni. Viviamo, dunque, nell’era in cui l’informazione e la conoscenza sono diventate i perni principali intorno a cui ruota la dinamica della società umana. Tanto che la posta in gioco del conflitto sociale non è più (solo) il possesso dei mezzi di produzione, come nell’era industriale, ma (anche e maggiormente) il possesso dei mezzi di ideazione: ovvero degli strumenti che consentono di generare, elaborare e trasmettere l’informazione e la conoscenza.

La transizione dall’era industriale all’era dell’informazione e della conoscenza non è neutra. Non è avvenuta – non sta avvenendo – senza traumi. D’altra parte ogni nuova fase nella storia evolutiva della cultura e dell’economia dell’uomo è caratterizzata da una carica distruttrice che rompe i vecchi equilibri e da una forza creatrice, che consente di ricomporne di nuovi. In queste «transizioni enormi» sono enormi anche le schiere dei vincitori e dei vinti.
Le grandi innovazioni tecnologiche sono, insieme, causa ed effetto delle grandi transizioni sociali, culturali ed economiche. Esse non sono mai “mutazioni neutre”, ma sempre elementi di forte perturbazione del sistema sociale. Promuovono irreversibilmente “emergenze”: la nascita di nuovi attori sociali, di nuovi conflitti e di nuove poste in gioco dei conflitti, di nuove alleanze e di nuove divisioni tra i gruppi sociali. Le conseguenze di queste perturbazioni – ovvero la risposta del sistema sociale – non sono mai né prevedibili apriori né monotòne. Al contrario, sono diversificate, spesso spiazzanti, sempre contraddittorie.

L’invenzione dei geroglifici e, quindi, della tecnologia che consentiva la scrittura, non determinò solo lo sviluppo della civiltà in Egitto, ma anche la rottura di vecchi equilibri e un forte cambiamento sociale. Nacque la classe degli scribi, che grazie al possesso monopolistico di quel nuovo strumento di ideazione, assunse posizioni di grande potere sulle sponde del Nilo.
Il processo di transizione da un’era all’altra non solo non è mai neutro. Ma neppure è mai deterministico. Né è mai ineluttabile. La transizione può assumere diverse forme, momentanee o stabili, desiderabili o non desiderabili, a seconda di ogni e ciascuna ottica dalle quale la si osserva: economica, culturale e sociale.

La rivoluzione delle macchine tessili, agli albori dell’era industriale, determinò una rottura così traumatica degli equilibri sociali in Gran Bretagna – aumento della disoccupazione, diminuzione dei salari – da indurre nel 1779 Ned Ludd, un operaio tessile di Anstey presso Leicester, a distruggere per rabbia il telaio meccanico, strumento tecnico assurto a simbolo stesso della nuova era. In realtà non sappiamo se il gesto fu effettivamente compiuto e neppure se sia veramente esistito un operaio di nome Ned Ludd. È certo però che – tra il 1811 e il 1813 – nacque in Gran Bretagna un movimento operaio che, nel nome di Ned Ludd e perciò riconosciuto come luddista, reagì in maniera organizzata ai costi tremendi che la nuova fase storica scaricava sulla parte povera della società, il proletariato. La reazione consistette, appunto, nella distruzione delle macchine industriali. Più tardi Karl Marx e Friederich Engels opposero ai guasti sociali prodotti dalla rivoluzione industriale un nuovo progetto, che non consisteva nel fermare la rivoluzione industriale distruggendo le macchine, ma nell’indirizzarla verso forme più democratiche sottraendo il possesso dei beni di produzione a pochi (la grande borghesia industriale) per assegnarlo a molti (il proletariato).

Anche la nuova era della conoscenza, caratterizzata da una rinnovata globalizzazione dell’economia, sta producendo guasti e contraddizioni. Esiste ormai una vasta letteratura che la descrive in dettaglio. Da Joseph Stiglitz a Saskia Sassen, da Amartya Sen a Zygmunt Bauman, da Luciano Gallino a  Manuel Castels, sono molti coloro che hanno indagato le opportunità e i limiti di questo nuovo modo di produrre. Opportunità e limiti che potremmo, in prima battuta, riassumere in due semplici constatazioni: mai l’umanità ha conosciuto tanta ricchezza; mai l’umanità ha conosciuto tanta disuguaglianza.
Ma i “frutti amari” e le “promesse infrante” della società della conoscenza e della globalizzazione dell’economia sono forse ancora più profondi delle crescenti e insostenibili differenze di reddito tra le nazioni e all’interno delle nazioni. Sembra che tra gli equilibri che si vanno rompendo ci siano quelli che informano i valori e le prassi dello stesso vivere civile, della democrazia sostanziale, della solidarietà, della tolleranza. Non a caso, di recente, Alain Touraine ha parlato di «fine del sociale» e di avvento di una «società post-sociale».

Ma non bisogna considerare questi “frutti amari”, queste “promesse infrante”, queste distruzione di equilibri che lacerano il tessuto connettivo della società fin quasi a decretarne la fine, come conseguenze ineluttabili.
Un mondo diverso fondato sulla conoscenza è possibile.
Più tardi affronteremo con una certa definizione di dettaglio molti di questi temi. Prendendo in esame l’insostenibilità sociale e l’insostenibilità ecologica della rivoluzione della conoscenza. Verificheremo come gran parte di questi “frutti amari” e di queste “promesse infrante” derivino sul piano culturale dall’egemonia acquisita nel mondo intero dall’ideologia neoliberista e sul piano economico dal tentativo di appropriazione monopolistica delle conoscenze da parte di pochi.

Le domande cui questo libro tenta di rispondere sono, lo diciamo con modestia ma anche determinazione, proprio queste: è possibile, e come, ricomporre in forme desiderabili gli equilibri distrutti dalla perturbazione enorme che chiamiamo era dell’informazione e della conoscenza? È possibile, e come, costruire una società democratica della conoscenza? L’economia dell’informazione e della conoscenza è necessariamente un’economia di mercato? La cultura economica nella società dell’informazione e della conoscenza è, necessariamente, una cultura neoliberista fondata sul valore assoluto del mercato?
Prima, però, di proporre alcune (provvisorie) risposte a queste domande è necessario porsi alcune domande ancora più fondamentali.
Cos’è la conoscenza che ha iniziato a informare di sé la società umana? Qual è, se c’è, la differenza tra informazione e conoscenza? L’era dell’informazione e della conoscenza costituisce una novità o, come sostengono alcuni, è in naturale continuità con l’era industriale? Quale ruolo gioca la scienza nella società dell’informazione e della conoscenza?

 

Sulla natura della conoscenza.

La domanda sulla natura della conoscenza non è certo nuova. Se la pongono in maniera sistematica, da quasi tre millenni, i filosofi e, più di recente, gli antropologi, i biologi evoluzionisti e un po’ tutti gli scienziati che studiano il cervello e la mente. Tutti riconoscono alla conoscenza un ruolo decisivo nell’agire dell’uomo e delle sue società.
Anche gli economisti, come assicura Dominique Foray, hanno sempre riconosciuto il ruolo dominante della conoscenza nell’economia dell’uomo. Solo che tutti – tranne alcuni, con diverse visioni ma coraggiosi e illuminati, come Adam Smith, Karl Marx e più di recente Joseph Schumpeter – hanno considerato il tema troppo complesso per essere indagato con successo e troppo sfuggente per essere affrontato in concreto.

Negli ultimi tempi questa ritrosia degli economisti ad affrontare il tema degli effetti economici della conoscenza si è un po’ erosa, sia perché coloro che studiano l’allocazione delle risorse dispongono di nuovi strumenti tecnici (computer) e cognitivi (modelli matematici) per analizzare i caratteri complessi del sistema economico, sia perché nell’età dell’economia fondata sulla conoscenza non è più possibile, per l’appunto, studiare e disporre l’allocazione delle risorse senza tenere in conto la conoscenza.
Sono nati così molti – ma non moltissimi – modelli teorici dell’economia della conoscenza. Tra i molti – ma non moltissimi – economisti che hanno cercato di elaborare questi modelli teorici, quasi tutti sono partiti da un postulato: la sostanziale equivalenza tra conoscenza e informazione.

E poiché l’informazione è un concetto che si presta molto meglio del concetto di conoscenza a un’analisi fisico-matematica formale, ecco che alcuni economisti teorici hanno ridotto la conoscenza a “mera informazione” e hanno finito per elaborare modelli teorici dell’economia dell’informazione invece che modelli teorici dell’economia della conoscenza.
La natura dell’informazione è stata analizzata da molti matematici e da molti fisici già nel corso del XIX e del XX secolo. Alcuni hanno trovato una stringente analogia tra un sistema termodinamico e un sistema che processa informazione. In particolare l’ingegnere americano Claude Shannon, nel 1948, ha elaborato una teoria – nota oggi come teoria dell’informazione di Shannon – basata proprio sulla correlazione tra l’informazione e una classica grandezza termodinamica, l’entropia.

Come in una catena causale lineare, alcuni economisti hanno così iniziato a considerare l’universo della conoscenza (ridotto a “mera informazione”) come un universo vasto, ma finito, di stati possibili, a ognuno dei quali è associata una probabilità. Nei loro modelli la conoscenza diventa un vettore di probabilità nello spazio dell’informazione ed è strettamente associata all’accuratezza con cui si riesce a valutare la probabilità che si realizzi un dato stato del sistema.
Non entriamo nel dettaglio. Diciamo solo che questo approccio consente di matematizzare l’economia dell’informazione. Ma il prezzo da pagare è altissimo: nei modelli teorici non si riesce a catturare molti dei fenomeni culturalmente decisivi per lo sviluppo dell’economia reale della conoscenza, come l’apprendimento e i processi cognitivi.

Occorre elaborare, dunque, nuovi modelli (economici, ma anche sociologici) partendo dal presupposto che i concetti di informazione e di conoscenza non sono affatto omologhi, ma hanno significati diversi e si riferiscono a entità diverse.
Il fatto è che malgrado i tanti studi, di nessuna delle due entità – né della conoscenza, né dell’informazione – conosciamo ancora l’esatta natura. Lo statuto ontologico di entrambe, per dirla con Norbert Wiener, è tutto da scrivere. Tuttavia, natura sostanziale a parte, dell’informazione sappiamo molto più che della conoscenza. Sappiamo, per esempio, che è una grandezza fisica, ancorché immateriale: e, infatti, possiamo misurarla in maniera esatta (per esempio in termini di bit).

Sappiamo anche che, sebbene immateriale, l’informazione è contenuta in sistemi materiali: nelle pagine di questo libro, per esempio. Nei circuiti elettronici del vostro computer. O nel lungo filamento del Dna di noi, autori e lettori, parlanti. Ma l’informazione non si identifica con la materia dei supporti: né con i filamenti di cellulosa della carta, né con le molecole dell’inchiostro assorbito dalla carta, né con il silicio e gli elettroni del nostro computer, e neppure con l’acido deossiribonucleico del Dna.
Sappiamo che l’informazione è correlata al grado di ordine del sistema: come le molecole d’inchiostro sono disposte sul supporto di cellulosa (le pagine del libro) per formare le unità del codice linguistico che usiamo per comunicare a mezzo stampa; come i circuiti del computer si aprono e si chiudono al passaggio degli elettroni per formare una stringa coerente di informazioni; come le singole basi puriniche e pirimidiniche sono disposte lungo il filamento di Dna per formare “triplette”, ciascuna delle quali associabile a un amminoacido nel processo di biosintesi delle proteine.

Possiamo, dunque, dire con Claude Shannon che l’informazione è un’entità fisica immateriale analoga a ciò che in termodinamica è nota come entropia (in realtà l’analogia stretta è con la neghentropia, l’entropia negativa). E come avviene per l’entropia (o per la neghentropia), è possibile esprimere l’informazione in forma matematica come un logaritmo di probabilità.
E così come noi possiamo misurare con esattezza sia l’entropia di un sistema che lo scambio di entropia tra due sistemi che interagiscono, possiamo misurare anche l’informazione contenuta in un sistema (in questo libro, nel nostro computer o nel nostro Dna) e lo scambio di informazione tra due sistemi che interagiscono (tra gli autori e i lettori di questo libro; tra il nostro computer e la rete globale di internet, tra il nostro Dna e l’ambiente cellulare che lo contiene ecc.).

Ebbene in questi scambi di informazione che abbiamo preso a esempio, ci sono contenuti di conoscenza ben diversi. L’informazione che l’autore di uno scritto trasmette al lettore può infatti produrre o non produrre affatto “vera” conoscenza. Quando Albert Einstein ha pubblicato il secondo articolo sulla relatività ristretta, nel suo anno mirabile, il 1905, la formula E = m c2, destinata a diventare la più famosa della storia, aveva sì il medesimo valore informativo (energia e massa sono equivalenti), per il ciabattino, il filosofo e il fisico che la videro stampata su una pagina della rivista Annalen der Physik, ma aveva contenuti cognitivi affatto diversi. Per il ciabattino si trattava di una curiosità priva di alcuna funzione pratica (ha continuato a solare le scarpe come prima); al filosofo ha cambiato la visione del mondo, rimodellando il concetto di realtà fisica; quanto al fisico in carne e ossa, con quella formula ha potuto produrre nuova conoscenza intorno al mondo e nuove tecnologie per intervenire sul mondo.

Il contenuto di conoscenza è dunque dipendente dal recettore e largamente indipendente dalla quantità di informazione trasmessa. Il supporto di cellulosa che state sfogliando, il vostro libro, possiede tutte le informazioni che avete voi, ma non possiamo dire che conosca il tema “società della conoscenza” su cui noi autori e voi lettori stiamo riflettendo e certo nulla può fare per modificare (o conservare) la condizione del mondo.
Naturalmente non possiamo trasferire conoscenza senza trasmettere, anche, informazione. Ma le differenze tra le due entità si colgono in maniera ancor più immediata quando ci poniamo il problema della riproduzione. La duplicazione dell’informazione è un’operazione diventata ormai così banale in così tanti ambiti, da far assurgere questa facilità a caratteristica distintiva della nostra epoca: definita da Walter Benjamin già negli anni ’30 del secolo scorso appunto come quella della riproducibilità tecnica dell’opera d’arte.

Prima di questa epoca, infatti, potevamo ascoltare la nona sinfonia di Beethoven nell’interpretazione dei Berliner Philharmoniker poche volte e solo andando a Berlino (o nel teatro di un’altra città, eventuale ospite dell’orchestra tedesca). Oggi posso farlo quante volte voglio e comodamente seduto sulla poltrona accanto al caminetto di casa, perché tutta l’informazione è contenuta su un piccolo disco utilizzabile, in pratica, infinite volte.
Di più. Se voglio duplicare questa informazione, la nona sinfonia di Beethoven nell’interpretazione dei Berliner Philharmoniker, e distribuirla come regalo ai miei amici lo posso fare ormai in pochi minuti e a costo zero (a parte il costo minimo del supporto fisico su cui copio l’informazione, in questo caso il disco).

La facilità di riproduzione dell’informazione non riguarda solo i suoni e le immagini. Un tempo, prima dell’invenzione della stampa a caratteri mobili, il costo limitava la riproduzione anche dell’informazione scritta. All’inizio del ‘400 un libro poteva essere ricopiato solo a mano e il valore di ogni singola riproduzione era esorbitante:  si calcola che una copia a mano della Divina Commedia all’inizio del XV secolo, prima dell’invenzione di Gutenberg, sarebbe costato non meno di 80.000 euro attuali. Oggi quella copia la posso trovare a 20 euro in libreria e addirittura gratis su internet.
È dunque vero che la riproducibilità dell’informazione per duplicazione è diventata un’operazione tanto facile quanto economica. Basta un clic e ho quante copio voglio della pagina che sto scrivendo senza spendere un centesimo.

Al contrario, la riproduzione della conoscenza è (resta) un processo molto più complesso. E costoso. Perché avviene per apprendimento e imitazione. In alcuni ambiti riprodurre esattamente la conoscenza è semplicemente impossibile. Nelle arti e nella letteratura la conoscenza non è mai esattamente duplicabile. Se Dante non l’avesse scritta all’inizio del ‘300 non avremmo mai avuto la Divina Commedia, perché un’opera d’arte è il frutto unico e irripetibile di un insieme oggettivo e soggettivo di conoscenze. La riproducibilità della conoscenza nelle arti è limitata. Non posso realizzare le medesime opere di Dante o di Pablo Neruda. Ma posso acquisire conoscenze – non solo in termini di nozioni e di tecnica di scrittura, ma anche e soprattutto di sensibilità – che mi avvicinano alla capacità poetica di Dante o di Neruda.

La conoscenza scientifica è, invece, duplicabile. Lo deve essere in linea di principio. Lo è, sostanzialmente, in linea di fatto. Oggi possiamo ragionevolmente pensare di riprodurre a livello di singoli individui la conoscenza necessaria a ricavare esattamente le medesime eleganti equazioni con cui James Maxwell ha unificato nella seconda metà del XIX secolo ottica e magnetismo. Ma occorre molto tempo – il tempo necessario a far laureare un giovane in fisica – ed è, dunque, un processo piuttosto costoso: tra spese della famiglia e investimenti dello stato quella laurea costa alcune centinaia di migliaia di euro, distribuiti in circa venti anni di studio. Riprodurre l’informazione contenuta nelle equazioni di Maxwell costa zero. Riprodurre la conoscenza minima necessaria a ricavarle costa tantissimo in termini di tempo e di soldi.

Il fatto è che, in fisica come nelle arti, non sempre basta leggere tanti libri o frequentare tante lezioni per acquisire la conoscenza. La riproduzione della conoscenza è un processo complesso, cangiante e niente affatto scontato. A lungo la riproduzione della conoscenza si è basata sulla relazione tra maestro e allievo. Giotto ha imparato a dipingere alla scuola di Cimabue. E Bruno Pontecorvo ha imparato la fisica non solo sui libri e nella aule universitarie, ma anche e soprattutto alla scuola di Enrico Fermi, nella palazzina di Via Panisperna a Roma. E tutto ciò per un semplice motivo, perché, come ha intuito il filosofo ed economista ungherese Karl Polanyi, noi tutti «sappiamo più di quanto possiamo dire». E, come hanno dimostrato Giacomo Rizzolati e gli altri neurobiologi che hanno studiato i neuroni specchio, l’acquisizione della conoscenza avviene attraverso l’osservazione e l’imitazione, oltre che attraverso l’ascolto e lo studio.

Con l’evolvere dei gruppi sociali e con l’innovazione tecnologica il processo di acquisizione della conoscenza, ovvero il modo di apprendere, cambia. Internet ci fornisce non solo tanta informazione in più che in passato, ma anche molti nuovi canali di apprendimento. Tuttavia, al di là dei problemi di accesso alla rete, l’acquisizione della conoscenza resta un processo molto delicato e suscettibile di deterioramento. Basta bloccare per poco tempo il turn-over in un gruppo di ricerca, perché tutta la conoscenza esplicita e soprattutto tutta la conoscenza implicita di quel gruppo vada dispersa. Come è avvenuto, in poche settimane, nel 1938, con la scuola di Enrico Fermi a Roma (salvo poi essere ricostituita, in forme nuove e con uomini nuovi, da Edoardo Amaldi e Gilberto Bernardini qualche anno dopo).

Oggi, anche in ambito scientifico, esistono problemi di riproduzione della conoscenza non solo di tipo verticale (da maestro ad allievo), ma anche di tipo orizzontale (tra colleghi) a causa della progressiva dissoluzione delle «reti sociali» che prima ne assicuravano, appunto, la riproduzione a costi accettabili.
È, questo, un punto di possibile crisi della società della conoscenza. Perché la conoscenza non è acquisita una volta e per sempre. Può essere anche perduta. Quando un’intera società perde la capacità di riprodurla, anche la conoscenza organizzata in corpi grandi e complessi rischia di essere dimenticata e di sparire. Lucio Russo ha parlato non a caso di rivoluzione dimenticata per descrivere la conoscenza scientifica acquisita in epoca ellenistica e sostanzialmente perduta, in Occidente, all’epoca della Roma imperiale e dei “secoli bui” del Medio Evo.

Oggi, tuttavia, malgrado tanti punti critici non assistiamo affatto a un blocco della trasmissione della conoscenza. Grazie a un altro carattere intrinseco alla conoscenza stessa: il fatto che essa può essere, almeno in parte, codificata. Ciò avviene quando è abbastanza articolata e chiara da poter essere espressa in un linguaggio comprensibile e immagazzinata su un supporto trasferibile.
Il manuale di meccanica quantistica di Andrei Linde non è solo informazione, è anche conoscenza codificata, disponibile per le presenti e le future generazioni. Si tratta, infatti, di un tipo di conoscenza che può essere separata (sempre in parte) dai singoli individui perché in possesso di una sua forte quanto impersonale capacità di comunicazione.

In realtà la conoscenza trasmessa da Andrei Linde attraverso il suo manuale non è solo codificata, è anche legittimata e in qualche modo certificata attraverso rigorose procedure istituzionali: le procedure della comunità scientifica. Questo tipo di conoscenza è definita, dagli esperti, sapere.
La scienza è oggi considerata il sapere che maggiormente informa di sé l’economia della conoscenza. Tanto che per studiarla molti economisti utilizzano quasi esclusivamente indicatori che afferiscono alle attività scientifiche, come gli investimenti in ricerca e sviluppo (R&S). Si tratta di indicatori molto utili. E la correlazione, anche se non sempre lineare, tra investimenti in R&S e produzione di beni ad alta intensità di conoscenza aggiunta è evidente. Tuttavia la conoscenza non può essere ridotta a un solo indicatore, per quanto importante, o a un solo insieme di indicatori. Ogni tentativo di ridurre la conoscenza (alla sola informazione, alla sola scienza) si risolve in un insuccesso, non solo dal punto di vista culturale e sociale, ma anche da un punto di vista squisitamente economico, perchè non riesce a catturare parti sostanziali delle economie fondate sulla conoscenza.

Conoscenza e informazione sono, dunque, due concetti correlati e correlabili, ma sostanzialmente diversi. L’informazione è misurabile con precisione e a essa può essere attribuito un valore economico preciso. Il problema principale dell’informazione è essenzialmente la sua tutela e il problema dell’accesso: un problema tipico dei “beni pubblici”, che più avanti definiremo.
La conoscenza, in particolare, non è “mera informazione”. Proprio come l’informazione non è né materia né energia. A differenza dell’informazione la conoscenza non è un’entità misurabile in termini precisi. Non può essere espressa attraverso un semplice logaritmo di probabilità. È una risorsa inafferrabile ma assolutamente necessaria all’uomo per interpretare ed elaborare alcuni tipi di informazione. La conoscenza approfondita della fisica ha consentito ai fisici del secolo scorso di produrre nuova conoscenza (e nuove tecnologie), una volta acquisita l’informazione che E = m c2. Una discreta o buona conoscenza della fisica ha consentito a molti filosofi di modificare la loro concezione della realtà. Che il ciabattino avesse una buona conoscenza della fisica o non conoscesse affatto la materia, è risultato del tutto ininfluente quando si è chinato sul tavolo di lavoro per modellare le sue tomaie.

A differenza della «mera informazione», la conoscenza non è misurabile con precisione ed è difficile attribuirle un esatto valore economico. Il problema della conoscenza è quello della sua riproduzione. Per cui, anche quando viene codificata, conserva una sostanziale ambiguità: acquisisce alcune caratteristiche dell’informazione e dei “beni pubblici”, ma per essere riprodotta ha bisogno della mobilitazione di (molte) risorse cognitive.
Infatti la conoscenza, in qualsiasi campo, fornisce a chi la possiede la capacità di agire, in maniera fisica o intellettuale. La conoscenza è un attributo di capacità cognitive. Il possesso dell’informazione E = m c2, integrato in un universo cognitivo ben più ampio, si rivela dunque conoscenza sia per il fisico sia, con modalità diverse, per il filosofo. Non è vera conoscenza per il ciabattino chino al suo tavolo da lavoro. Ciò non toglie che può trasformarsi da mera informazione in conoscenza quando il ciabattino o si stacca dal suo tavolo da lavoro e contribuisce in qualche modo a creare un ambiente cognitivo in cui quell’informazione assume una funzione – per esempio dipinge quadri e si collega a un movimento di avanguardia di arti figurative attento agli sviluppi della fisica; o semplicemente rilegge la storia di Hiroshima e si batte per non doverla ripetere – o, chino al suo tavolo, si mette alla ricerca di nuove tecnologie per manipolare tomaie che puntino, anche in maniera del tutto velleitaria, a sfruttare la formula di equivalenza di Einstein.

In quest’ultimo caso, per quanto ingenuo o addirittura farneticante lo possiate giudicare, l’aspirante ciabattino relativista cerca di mettere a frutto una proprietà reale della conoscenza: la sua eterogeneità. Non esiste, infatti, una relazione lineare tra la conoscenza della relatività ristretta e la conoscenza del manipolare scarpe. Così come non esiste una relazione lineare tra la scoperta dell’alfabeto e l’osservazione di una stella supernova. Tutto, però, contribuisce a creare ambienti cognitivi, alcuni dei quali si rivelano particolarmente adatti a produrre nuove conoscenze e/o nuove tecnologie. Esistono correlazioni non lineari tra questi diversi tipi di conoscenze, di invenzioni, di scoperte, di informazioni. E nel regno di Serendip una piccolissima chance è concessa anche al ciabattino in cerca di nuove tecnologie relativistiche per solare scarpe. Cosa è stata, in fondo, l’invenzione della radio da parte di Guglielmo Marconi se non il tentativo di dar voce al cuoio con onde maxwelliane? Il tentativo di trasmettere suoni senza fili a grandi distanze non sarebbe mai stato coronato da successo se Marconi non avesse trovato un qualcosa di sconosciuto e assolutamente inatteso in atmosfera, strati di ioni che riflettono le onde radio.

Ecco, se una novità c’è, nell’era della conoscenza, è che la conoscenza scientifica è diventata la fonte di gran lunga principale dove si abbevera l’innovazione tecnologica. In questa era c’è sempre meno spazio per il ciabattino impertinente (o per tutti gli altri inventori geniali e/o fortunati) e sempre più necessità di ricerca sistematica e organizzata.
Tuttavia occorre precisare che non esiste – o, almeno, non esiste ancora – alcun modello stabile che consente di collegare gli input cognitivi (la creazione di nuova conoscenza soprattutto mediante la scienza) agli output degli effetti economici. La produzione di conoscenza scientifica davvero nuova – anche nel campo della matematica più astratta e della fisica più fondamentale e matematizzata – non è prevedibile a tavolino. Non sempre, almeno. La creatività scientifica che produce nuova conoscenza non è programmabile ma si esprime soprattutto in un ambiente libero da costrizioni e, come si dice adesso, curiosity-driven.

Né c’è linearità, in genere, tra scienza di base, scienza applicata e produzione di nuove tecnologie. I tre ambiti sono certo collegati e spesso persino sovrapponibili, ma mai completamente. Anche quando un’idea che appare immediatamente utilizzabile viene prodotta in laboratorio, il suo effetto economico dipende da una costellazione di fattori esterni al laboratorio e talvolta persino alla fabbrica dove si cerca di sfruttarla a fini commerciali. Prima che una scoperta scientifica si traduca in un bene di mercato occorre passare i filtri dello spirito di iniziativa del management, dalla capacità competitiva dell’impresa e del sistema paese in cui opera, del sistema sociale dove la scoperta avviene. In fondo nella Cina del XIV secolo venivano effettuate scoperte e innovazioni tecnologiche ben più importanti che in Europa, ma allora il grande paese asiatico – a differenza di oggi – non seppe trasformare quelle conoscenze in leve per lo sviluppo economico. Né quella capacità di mettere a punto nuove tecnologie seppe trasformarsi in scienza. Non nella scienza, almeno, che abbiamo conosciuto in Europa a partire dal XVII secolo.

È anche sulla scorta di queste esperienze storiche che molti – anche tra gli economisti classici, quelli che credono nelle capacità autoregolatrici del mercato – parlano di “capacità di apprendimento” di un’intera società e di “sistema nazionale di innovazione”. Riconoscendo che oltre le forze di mercato, per lo sviluppo economico di un paese, è importante l’ambiente nel quale anche gli animal spirits più consumati si trovano a operare: le relazioni tra imprese e università, la qualità del sistema che regola i diritti di proprietà intellettuale, i mercati finanziari,  il mercato del lavoro.

Ma non è difficile solo costruire un’economia fondata sulla conoscenza. È difficile anche prevedere e persino “vedere” i processi di erosione (per obsolescenza o per dimenticanza) della conoscenza già acquisita. Perché l’evoluzione della conoscenza è in ogni sua fase un processo complesso e non lineare. Come ricorda Lucio Russo, la società romana neppure si accorse che, nel suo opulento espandersi, stava letteralmente dimenticando le conoscenze raggiunte dalla scienza ellenistica.
Spesso sono difficili anche operazioni ben più limitate, come attribuire ex post un preciso effetto economico alla conoscenza. Quanto la scienza del XVII secolo ha contato sulla nascita di un’economia industriale di mercato in Europa? Come gli investimenti in ricerca scientifica di base si traducono, oggi, in sviluppo economico? Non ci sono risposte esaustive a queste domande.

Uno dei motivi è che la conoscenza non è sempre esplicita o osservabile, ma anzi è in massima parte tacita e/o non osservabile e/o implicita. Spesso viene inglobata nelle azioni umane in maniera automatica e non cosciente. La componente osservabile della conoscenza è minoritaria. E da osservabile diventa osservata, in genere, solo quando è comunicata, magari per iscritto, o è possibile associarle un qualche diritto di proprietà. La conoscenza tacita (o non osservabile o implicita) viene sì continuamente ricostituita, ma per vie non sempre perscrutabili: si rinnova restando invisibile.

Eppure la conoscenza è spesso cumulativa. Soprattutto la conoscenza scientifica. In biologia o in fisica una struttura teorica può essere parzialmente sostitutiva di un’altra. La teoria dell’evoluzione per selezione naturale di Darwin ha sostituito quella di Lamarck, fondata sulla trasmissione ereditaria dei caratteri acquisiti. La teoria eliocentrica di Copernico ha sostituito la teoria geocentrica di Aristotele e Tolomeo. Si tratta, in questi casi, di veri e propri «cambi di paradigma», o, come sosteneva Thomas Samuel Kuhn, di ricambio degli occhiali con cui gli scienziati guardano il mondo. Altre volte la sostituzione è solo parziale. Al contrario di quanto sosteneva The New York Times in occasione dell’osservazione della deflessione della luce di una stella lontana da parte del campo gravitazionale del Sole, nel 1919 Einstein non ha sostituito Newton sul trono della meccanica celeste, ma gli si è seduto accanto: la teoria della relatività generale del tedesco non ha sostituito, ma inglobato, la teoria della gravitazione universale dell’inglese. Cumulando nuove conoscenze a quelle antiche.

In matematica la proprietà cumulativa della conoscenza raggiunge, probabilmente, un massimo relativo. La dimostrazione di un teorema matematico è infatti definitiva. Ogni nuovo teorema si aggiunge e non prende il posto di uno vecchio. Per questo da tremila anni il teorema di Pitagora è sempre verde. Nessuno lo ha modificato, né tantomeno sostituito. E gli Elementi di Euclide, benché vecchi di due millenni, sono un libro più che mai attuale.
Con tutte queste caratteristiche, la conoscenza appare dunque come un processo che, con un gradiente di intensità, consente di elaborare informazioni. Ma non è né “mera informazione elaborata”, né una “macchina universale” per elaborare informazione.

Conoscere ed elaborare informazioni sono processi molto diversi. Possiamo, per esempio, elaborare informazione, anche in maniera molto sofisticata, senza conoscere. Quando un supercomputer processa miliardi di dati sui cambiamenti del clima e propone in una mappa sintetica stampabile su una pagina tutti gli scenari possibili da qui a cent’anni, ha prodotto “informazione elaborata”, pur non avendo alcuna cognizione né del concetto di clima né dei concetti di spazio e di tempo. Le macchine, come gli organismi viventi più semplici, elaborano informazione senza conoscere. Anche l’uomo elabora la gran parte dell’informazione che riceve dal mondo esterno senza conoscere. In una maniera che definiamo, non a caso, non cosciente.

Cos’è, dunque, la conoscenza? Si potrebbe parafrasare Agostino e dire: «quando nessuno me lo chiede, lo so; quando qualcuno me lo chiede, non lo so più». Come abbiamo già detto, non conosciamo la natura della conoscenza. Sfugge, ancora, a una definizione precisa sia ai filosofi che ai neurobiologi. Possiamo però tentare di darne una descrizione fenomenologica e dire che la conoscenza è un processo culturale piuttosto complesso, storico, tipico dell’uomo (e, forse, di un numero limitato di altri animali) che la utilizza in contesti specifici per funzioni specifiche. Il panettiere usa una precisa conoscenza per produrre ogni giorno pane fragrante. Il fisico usa le sue precise conoscenze di meccanica quantistica per spiegare il funzionamento del Sole. Il maestro usa la sua conoscenza pedagogica per trasmettere conoscenza.

Il panettiere usa la sua conoscenza per produrre ogni giorno lo stesso bene materiale. Il maestro per trasmettere conoscenza. Il fisico per produrre nuova conoscenza.
La conoscenza assume dunque diverse forme – esplicita e implicita, teorica e pratica – ma è sociale per costituzione. Non c’è conoscenza senza comunicazione. Non c’è scienza senza comunicazione. Le Leggi dell’Ereditarietà di Gregor Mendel sono diventate conoscenza scientifica non quando il monaco ha ultimato, negli anni ’70 del XIX secolo, i suoi esperimenti con le linee di piselli nell’abbazia di Brno, chiudendo però nel cassetto i risultati e la loro interpretazione, ma quando quei risultati e quell’interpretazione sono stati riscoperti da tre gruppi indipendenti nell’anno 1900 e comunicati all’intera comunità planetaria dei biologi.

L’attività scientifica, sostiene John Ziman, consiste di due fasi necessarie: quella “privata” dell’osservazione della natura (a opera di singoli o anche di gruppi estesi di scienziati) e quella “pubblica” della comunicazione dei risultati di questa osservazione alla comunità scientifica. Se non viene portata a compimento anche la seconda fase del processo, persino una scoperta importante come quella delle Leggi dell’Ereditarietà resta un valoroso fatto privato ma non diventa conoscenza scientifica.
La conoscenza è, dunque, un processo essenzialmente sociale che mette in circolo informazioni attraverso un sistema di comunicazione e rafforza o crea contesti cognitivi.

La conoscenza è inafferrabile, ma reale. Sguscia tra le mani di chi vuole definirla in maniera rigorosa e formale. Di chi amerebbe matematizzarla. Ma esiste, tant’è che essa può essere generata e ha molte caratteristiche che si ripropongono stabili nel tempo.
La conoscenza – a differenza dell’informazione – non è presente di per sé in natura. Ma viene creata dall’uomo (e, forse, da qualche altro animale). La nuova conoscenza, in particolare, deriva o da scoperte o da invenzioni.

Nel 1609 Galileo Galilei era in possesso di tutto quanto necessario per osservare la Luna: un’ottima conoscenza di fisica, una straordinaria curiosità e libertà intellettuale, buone capacità artigianali per realizzare lo strumento tecnologico (il cannocchiale) in grado di potenziare la vista dei suoi occhi. Oggi nessun singolo individuo possiede tutte le conoscenze necessarie per realizzare una macchina come LHC (il più potente acceleratore di particelle del mondo, entrato in funzione al Cern di Ginevra) e mettersi alla ricerca di nuova fisica.
Ma, forse, non esiste al mondo alcun singolo individuo che possiede tutte le conoscenze necessarie per realizzare anche macchine più seriali e più semplici, come televisori o lavatrici e realizzare consolidata ingegneria.  La conoscenza è sempre più spesso il prodotto di un’impresa collettiva.

Da tutto ciò deriva che, nella società dell’informazione e della conoscenza, persino la capacità di aggiungere valore ai beni prodotti e, quindi, la capacità di sviluppo economico non è determinata solo e non è determinata tanto dal «trasferimento di pacchetti di informazione» (per esempio dalle università alle imprese; o dai computer degli scienziati a quelli degli ingegneri), ma soprattutto dalla costruzione di ambienti cognitivi con una forte propensione all’innovazione.
La situazione diventa ancora più complessa e gli elementi del sistema, con la loro costellazione di azioni e retroazioni, ancora più intricata quando il progetto diventa molto più ambizioso: come quello di promuovere lo sviluppo complessivo della società o lo sviluppo economico non di un’impresa o di una filiera di imprese, ma di un’intera nazione.

 

La conoscenza come bene economico

Proprio la storia può essere utile, dunque, per rispondere alla nostra domanda – cos’è la conoscenza? – da un punto di vista sociale ed economico. L’industria nasce, come ben sappiamo, con lo sviluppo delle macchine a vapore e la realizzazione, in apposite fabbriche, di oggetti materiali il cui valore d’uso era essenzialmente determinato dal costo delle materie prime e dal costo del lavoro. Quando acquistiamo il pane da quel fornaio un po’ autistico che Adam Smith ha eletto a portatore emblematico degli animal spirits capitalistici, paghiamo non un prezzo arbitrario, dettato dai capricci del padrone del forno, ma un prezzo di equilibrio, correlato alla domanda del mercato, ma anche ai costi sopportati dal panettiere sia per reperire le materie prime (la farina, l’acqua e il sale, ma anche l’energia per far andare il forno) sia per remunerare il lavoro, suo e dei suoi eventuali operai, necessario a trasformare la farina, il sale e l’acqua in pane fragrante con sapiente impasto e giusta cottura.

Noi tutti apprezziamo il pane perché soddisfa un nostro bisogno primario, quello di alimentarci. Ma agli occhi dell’economista il pane ha altre caratteristiche interessanti. Quello che ci vende il fornaio è un bene materiale appropriabile, perché noi possiamo comprarne un pezzo e sottrarlo all’uso di tutti gli altri uomini. È un bene rivale, perché se noi lo usiamo, lo degradiamo irreversibilmente: dopo che lo abbiamo mangiato, il nostro pezzo di pane non è più utilizzabile da nessuno in assoluto (neanche da noi). Ed è un bene confinabile: posso assediare una città e impedire che sia approvvigionata di pane (o della farina necessaria per produrlo).
Tutto ciò contribuisce a creare il mercato del pane. E a determinare il “giusto” prezzo che, nel mondo di un’economia ideale che in realtà non esiste né mai è esistita, è il miglior punto di equilibrio tra la domanda e l’offerta.

Come il fornaio di Adam Smith, neppure Bill Gates ci ha messo a disposizione il sistema operativo Word per scrivere queste pagine al computer in virtù del suo buon cuore, bensì per il suo tornaconto. Ma, a parte il comune animal spirit che spinge entrambi a realizzare un profitto dalla propria attività, Bill Gates è un imprenditore affatto diverso dal nostro amico fornaio. Per molte ragioni. Perché ha fissato il lucroso prezzo del bene che ci ha venduto in maniera sostanzialmente indipendente sia dal costo delle materie prime (la poca plastica del cd o addirittura nessuna materia prima nel caso avessimo “scaricato” il sistema operativo via internet), sia dal costo del lavoro (suo, degli operai, ma anche degli ingegneri elettronici e degli informatici delle sue aziende).

Bill Gates ha potuto proporre un prezzo (ahinoi, piuttosto esoso) del tutto scorrelato dal costo delle materie prime e dal costo del lavoro non perché ha il quasi monopolio del mercato dei sistemi operativi di scrittura (o, almeno, non solo). Ma anche e soprattutto perché quello che ci ha venduto è un bene immateriale che richiede, per essere prodotto, una bassa intensità di forza muscolare e un’alta intensità di conoscenza.
Inoltre Bill Gates, a differenza del fornaio, ci ha venduto un bene che è non rivale.
È non rivale perchè, anche se noi lo abbiamo comprato, non lo abbiamo sottratto a nessuno. Tutti possono utilizzare il nostro medesimo sistema operativo per scrivere al computer: e infatti la Microsoft fondata a Seattle da Bill Gates, senza praticamente lavoro aggiuntivo rispetto alla realizzazione del prototipo, ha venduto centinaia di milioni di copie identiche dell’ultima versione di Word. Inoltre il sistema operativo con l’uso non si degrada. Può essere utilizzato da milioni di persone senza costi aggiuntivi e senza che nessuno perda qualcosa. In definitiva è un bene non rivale perché ne possiede i tre requisiti fondamentali:

a) vendendo la conoscenza insita nel suo sistema operativo, la Microsoft non perde nulla. La conoscenza necessaria a sviluppare il sistema è stata acquisita in maniera definitiva e non viene perduta quando è venduta o condivisa;
b) noi che compriamo il sistema operativo non abbiamo bisogno di acquistare la conoscenza (la conoscenza necessaria per utilizzarlo) più di una volta, anche se poi usiamo il sistema operativo ripetutamente per molto tempo;
c) noi compratori non siamo in grado di farci un’idea precisa del valore della conoscenza connesso al sistema operativo prima di averlo acquistato.

Una volta acquistato, il sistema potrebbe girare sui computer di tutto il mondo per sempre. È, per certi versi, un bene eterno. Anche se questa potenziale indistruttibilità viene aggirata, dopo una manciata di anni, dall’animal spirit di Bill Gates nella moderna versione della strategia di marketing, che interviene per indurci a sostituire il vecchio ma sempreverde sistema operativo con una sua nuova (e costosa) versione. Che si distingue dalla precedente quasi unicamente per il valore simbolico che le attribuiamo.

La conoscenza si distingue dal pezzo di pane anche perché è un bene (quasi) non escludibile: posso facilmente impedire a una persona di mangiare pane, non posso impedire – non facilmente almeno – a una persona di conoscere.
In realtà nelle economia di mercato i monopolisti cercano di limitare il carattere non escludibile  e non rivale della conoscenza. Ma a costi culturali, sociali e anche economici molto alti. Eppure la conoscenza è difficilmente confinabile, tende a sfuggire all’entità che la produce e, per certi versi, anche all’entità che tenta di metterle le briglia.
Grazie alle sue proprietà di non rivalità, di parziale non escludibilità e di cumulatività la produzione di conoscenza ha la capacità di generare un’«esplosione combinatoria»: ovvero di crescita all’infinito del bene. Prendiamo il caso della matematica, una forma di conoscenza che gode delle proprietà di non rivalità, di non escludibilità e di cumulatività. Ebbene la conoscenza della matematica favorisce l’elaborazione di nuovi teoremi che, a loro volta godono delle tre caratteristiche e che, quindi, diventano occasioni per produrre nuovi teoremi in un processo di crescita senza limiti.

È per questo che alcuni, a proposito del bene pubblico conoscenza, parlano di (possibile) commedia dei commons, ovvero di un processo di segno opposto a quello cui vanno inesorabilmente incontro i beni pubblici escludibili, rivali e non cumulativi come rilevato in un famoso articolo pubblicato nel 1968 su Science dal biologo Garrett Hardin.
Se in un paesino di montagna esiste un pascolo libero cui possono brucare le pecore di tutti i cento pastori del villaggio, ebbene quel bene pubblico (common, in inglese) rischia rapidamente di esaurirsi in caso di improvvisa crescita dell’economia pastorale. L’erba del pascolo è un bene escludibile e rivale, se la bruca una pecora non è più disponibile – non immediatamente, almeno – per un’altra. Ogni pastore ha un grande vantaggio nell’aggiungere una pecora al suo gregge che consuma quel common (quando cresce la domanda di mercato della lana, del latte o della carne di pecora) e un piccolo svantaggio, perché l’erosione del bene comune si ripartisce tra tanti. Quel grande vantaggio individuale, tuttavia, si risolve ben presto in una tragedia per il common. I pastori, stimolati dal mercato, tenderanno ad aggiungere pecore e pecore ai loro greggi e ben presto il pascolo non avrà più erba sufficiente e si esaurirà. I vantaggi individuali si traducono in un danno collettivo, la perdita del bene pubblico comune esauribile, rivale e non cumulativo. È questa la tragedia dei commons.

La conoscenza non è come il foraggio, che si esaurisce con il consumo: non si rischia di brucarne in eccesso. La conoscenza, come l’aria (in un ambiente non confinato), è un bene non rivale: il suo uso da parte una persona non ne impedisce  l’uso da parte di un’altra.  Anzi, è qualcosa di più di un bene non rivale: se uso la conoscenza di tutti per elaborare un nuovo teorema, non solo non sottraggo ma, addirittura, aggiungo erba al pascolo comune della matematica. Possiamo dire quindi che la conoscenza viene arricchita e resa più accurata se aumenta il numero di ricercatori, ingegneri, artigiani e più in generale di persone che vi hanno accesso e la possono utilizzare. Nel caso di un bene pubblico non escludibile, non rivale e cumulativo possiamo, dunque, parlare non più di tragedia, ma di commedia dei commons.

Cos’è Wikipedia se non la prova tangibile di questa caratteristica della conoscenza? Anche Wikipedia, naturalmente, ha le sue regole che tendono a preservarne la natura di common o di bene pubblico. Regole (non tutte ancora scritte) che sono diverse sia da quelle che tutelano i beni privati, sia da quelle che regolano i pascoli e tutti i beni comuni esauribili, rivali e non cumulativi.
La conoscenza ha, spesso, un carattere locale. Vale in un certo ambiente, ha poco valore in un ambiente diverso. Una persona che abita all’equatore o sulle sponde del Mediterraneo non è interessata a come si costruisce un igloo. E neppure alla produzione di nuova conoscenza, scientifica, per migliorare le capacità isolanti o la vivibilità di un igloo.
Sul carattere locale della conoscenza si possono fare esempi meno esotici e, purtroppo, più drammatici. Cosa sono le «malattie orfane» – ovvero le malattie come la malaria che colpiscono una parte dell’umanità e verso cui non si concentra una sufficiente attività di ricerca – se non espressione di una incapacità della gran parte dell’intera popolazione mondiale – o, almeno, della gran parte della popolazione mondiale che potrebbe farlo – di considerare lo sviluppo di nuove conoscenze e di nuove cure della malaria e delle altre “malattie orfane” di interesse globale, invece che di interesse locale?

E, tuttavia, molti studi dimostrano che la produzione di conoscenza ha questo ineludibile carattere locale. Non occorre che tutti, al mondo, sappiamo costruire un igloo. È importante che qualcuno sappia farlo, perché questo consente agli eschimesi di vivere negli ambienti freddi del grande nord. Neppure serve che, per essere ritenuta degna, i benefici della ricerca sulla malaria abbiano una ricaduta diretta per gli svedesi o per coloro che soffrono di diabete. Basta che quella ricerca serva per salvare milioni di vita umane in Africa o in Asia.
La conoscenza ha anche un altro carattere: è poco persistente. Viene utilizzata per risolvere problemi qui ed ora e poi abbandonata. Chi si ricorda più delle prime macchine da scrivere elettroniche, rese in pochissimo tempo obsolete dallo sviluppo dei personal computer? Molte ricerche e anche un po’ di senso comune ci dicono che la conoscenza non è persistente. Se non viene riprodotta e riconquistata continuamente viene dimenticata. Chi saprebbe, oggi, ricostruire i sofisticati sistemi idraulici inventati dagli arabi?

La domanda contiene, tra l’altro, un’intera costellazione di risposte. Pochi ci riuscirebbero perché quei sistemi sono stati realizzati, per larga parte, attraverso una conoscenza non codificata, attraverso una conoscenza tacita. E la conoscenza tacita è più esposta della conoscenza codificata a essere dimenticata. Non solo, ha maggiore difficoltà anche a essere trasferita. In una nuova era glaciale non sarebbe immediata l’acquisizione della conoscenza necessaria per costruire igloo da parte di un italiano o di un francese. C’è chi parla – a tal proposito – di vischiosità della conoscenza.

Ma anche la conoscenza codificata ha le sue difficoltà. Lo sviluppo della scienza, per esempio, ha rapidamente portato alla transizione da una conoscenza eclettica – alla Leonardo da Vinci – a una conoscenza iperspecialistica: pochi o forse nessuno al Cern di Ginevra saprebbe ricostruire da solo, pur avendo accesso a tutta la letteratura scientifica finora prodotta, l’acceleratore LHC. La più grande macchina mai costruita è il frutto di una sommatoria di conoscenze molto specifiche. Ma l’iperspecializzazione, se non è ben governata come invece avviene al Cern di Ginevra, finisce per impedire una visione generale e articolata dei problemi.
Potremmo proseguire la ricerca dei caratteri peculiari della conoscenza. Ma conviene fermarsi a quelli essenziali. Non rivalità, (quasi) non escludibilità, e cumulatività: sono queste le differenze sostanziali tra i beni materiali proposti dalla vecchia economia industriale e i beni immateriali proposti dalla nuova economia della conoscenza. Con qualcosa in più.

Si potrebbe obiettare che non tutto ciò che viene spacciato per conoscenza, nella nuova economia, lo è. Che Wikipedia è un caso particolare, non la regola. Che per poter consultare Wikipedia abbiamo bisogno di un sistema operativo. Per esempio il sistema operativo che abbiamo acquistato dalla Microsoft. Sono i dollari passati di mano con la vendita di questo sistema operativo che, a differenza della generosità gratuita degli estensori di Wikipedia, fanno l’economia della conoscenza. Ebbene, si potrebbe sostenere che quello che ci vende Bill Gates e che costituisce il fatturato su cui si regge una parte decisiva dell’economia della conoscenza in realtà non è conoscenza. Siamo un po’ tutti analfabeti informatici. E usiamo la gran parte dei sistemi operativi del nostro computer, compresi quelli Microsoft, senza avere la minima idea di come siano fatti. Quella che Bill Gates ci ha venduto è una merce particolare, è un pacchetto ben definito di informazione congelata. Anche per questo può quantificare un prezzo per il sistema operativo Word senza correlarlo né al costo delle materie prime e né al costo del lavoro.

Tuttavia, per poter realizzare il suo prototipo, la Microsoft ha avuto bisogno di molta conoscenza. L’informazione congelata contenuta nel suo sistema operativo non la si trova già disponibile in natura. Deve essere creata dall’uomo e organizzata in forma digitale. L’enorme conoscenza necessaria per produrre il sistema operativo Word non è posseduta tutta e neppure in parte preponderante dalla Microsoft. È per larga parte una conoscenza sofisticata e diffusa, conoscenza pubblica, ottenuta per lento accumulo di azioni creative, di innovazioni scientifiche e di scambi culturali (o, se volete, di scambi di beni come sono le idee non appropriabili e non rivali) di un numero imprecisato, ma enorme di persone sparse per il mondo in un periodo di tempo lungo e indefinito. Dietro il sistema operativo Word della Microsoft c’è, almeno, tutta la storia dell’informatica, da Alan Turing in poi. E una parte rilevate della storia delle comunicazioni tra gli uomini.

E qui nasce una prima serie di problemi. La Microsoft ha brevettato l’informazione congelata contenuta nel suo sistema operativo, ma non distribuisce la sue royalties agli eredi di Alan Turing e a tutti coloro che hanno dato un contributo, piccolo o grande, allo sviluppo dell’informatica. Men che meno agli eredi di coloro che hanno inventato l’alfabeto e il linguaggio simbolico o sviluppato la logica e la matematica, su cui si fonda l’informatica. La verità è che – a differenza del fornaio che non ci fa pagare un costo per la ricetta del pane, un bene intellettuale comune elaborato nel corso di secoli dalla saggezza popolare, ma solo per la trasformazione delle materie prime in prodotto finale – l’azienda di Seattle fattura per la gran parte un bene pubblico, la conoscenza informatica, che non le appartiene certo in esclusiva. Né può sostenere che le royalties le sono dovute, perché necessarie a remunerare il lavoro dei suoi tecnici che hanno tradotto quella conoscenza in un pacchetto di informazioni congelate molto funzionali. Il prezzo unitario di Word è largamente indipendente dagli stipendi degli ingegneri della Microsoft.

Il caso delle aziende biotech che, per esempio, brevettano alcuni beni comuni, come i geni contenuti nel Dna dell’uomo o di altri esseri viventi e le conoscenze molecolari diffuse intorno a questi geni, e pretendendo royalties da chiunque e in qualsiasi modo li utilizzi a prescindere dalla metodologia che usa, è ancora più eclatante.
Il brevetto per la protezione intellettuale dell’informazione congelata è uno dei sistemi adottati per promuovere il mercato delle idee immateriali nell’era dell’economia fondata (sull’informazione e) sulla conoscenza.
Di qui almeno due tipi di domande.

  1. Fino a che punto è giusto concedere a imprese private il brevetto per la protezione intellettuale di “pacchetti di informazione” congelati grazie soprattutto all’uso di un bene comune, come la conoscenza pubblica? Tanto più che spesso queste imprese utilizzano in maniera piuttosto aggressiva il sistema di protezione intellettuale sia per costituire monopoli o cartelli, sia per imporre un prezzo così alto da impedire l’accesso al bene prodotto a larga parte dell’umanità. Può il bene comune conoscenza diventare, attraverso i pacchetti discreti di informazione congelata confezionati dalle imprese, un fattore di esclusione sociale? La faccenda è ancor più inaccettabile e diventa francamente odiosa quando la protezione intellettuale concorre a impedire a milioni di persone di accedere a farmaci salvavita (come succede con i cocktails anti-aids, il cui costo taglia fuori decine di milioni di ammalati soprattutto in Africa).
  2. Il sistema della protezione intellettuale a tutela dell’informazione congelata in alcuni beni immateriali è un fattore di sviluppo o di inibizione per la produzione di nuova conoscenza? La domanda è tanto più delicata se, alla corsa ai brevetti, partecipano anche le università e i centri pubblici di ricerca. In un suo recente libro Marcia Angell, una ricercatrice americana che ha diretto per dieci anni una delle riviste mediche più prestigiose del mondo, il New England Journal of Medicine, ha raccontato lo sviluppo booming che hanno realizzato le imprese farmaceutiche negli Stati Uniti a partire dagli anni ’80 dello scorso secolo anche grazie al sistema dei brevetti. Queste imprese investono da anni in ricerca e sviluppo molto più risorse di quanto il governo federale Usa ne metta a disposizione per le università e i centri pubblici di ricerca. Eppure il 90% delle reali innovazioni (scoperta di nuove formule) viene realizzato proprio dalle università e dai centri pubblici di ricerca.

Da notare che nessuno, negli Stati Uniti, chiede la diminuzione della spesa federale in ricerca e la privatizzazione dei laboratori pubblici. Anche i neoliberisti più radicali si limitano a plaudire al sistema di trasferimento delle conoscenze dai centri pubblici di ricerca alle aziende private (che acquistano a basso costo i diritti di protezione intellettuale) in un processo che fa sì che, grosso modo, chi (i centri pubblici di ricerca) produce il 90% dell’innovazione realizzi il 10% del fatturato, mentre chi (le imprese farmaceutiche) produce il 10% dell’innovazione realizzi il 90% di un fatturato enorme che cresce a ritmi sconosciuti ad altri settori.

 

L’economia della conoscenza

Come abbiamo già detto, non intendiamo affrontare in questa sede in maniera sistematica ed esaustiva tutti i tipi di argomenti che andiamo sollevando sul rapporto tra economia, informazione e conoscenza. Il nostro non è un manuale di economia dell’informazione e della conoscenza. È, piuttosto, una proposta politica – come utilizzare l’informazione e la conoscenza per costruire un mondo migliore – fondato su un’analisi socio-economica: viviamo in una nuova era fondata sull’informazione e sulla conoscenza, per molti versi caotica e densa di laceranti contraddizioni sia sociali (l’ineguale distribuzione della ricchezza) sia ecologiche (stiamo consumando i capitali della natura, sottraendoli alle future generazioni).

La nostra proposta politica si basa su un assunto: il nuovo modo di produrre beni, materiali e immateriali, fondato sull’informazione e sulla conoscenza non contribuisce necessariamente a creare un mondo peggiore – un mondo insostenibile socialmente ed ecologicamente, ma, volendo, può contribuire a creare un mondo migliore (1).
Il lettore scuserà se, con un eccesso di schematismo, ridurremo l’enorme portata di questo discorso a tre soli punti: la transizione dall’economia industriale all’economia dell’informazione e della conoscenza è un processo che, a grana grossa, è pressoché ineluttabile; dobbiamo imparare a governarlo, perché le sue modalità a grana fine non sono già scritte; nessuno, neppure l’Italia, può e/o deve restarne fuori, tutti, anche l’Italia, possono e/o devono contribuire a renderlo sostenibile.

  1. Che l’economia fondata sull’informazione e sulla conoscenza sia, almeno a grana grossa, un processo ineluttabile (per come possono esserlo i processi umani, naturalmente) sia dello sviluppo industriale sia dello sviluppo della scienza e della tecnologia non siamo noi a dirlo. Come Marcello Cini ci ricorda, lo diceva un secolo e mezzo fa un certo Karl Marx:
Nella misura in cui si sviluppa la grande industria, la creazione della ricchezza reale viene a dipendere meno dal tempo di lavoro e dalla quantità di lavoro impiegato che dalla potenza degli agenti che vengono messi in moto durante il tempo di lavoro, e che, a sua volta, non è minimamente in rapporto al tempo di lavoro immediato che costa la loro produzione, ma dipende invece dallo stato generale della scienza e dal progresso della tecnologia, o dall’applicazione di questa scienza della produzione.

Agli occhi di Marx, già nel XIX secolo, l’economia dell’informazione e della conoscenza appariva, dunque, come l’evoluzione naturale sia del sistema industriale di produzione sia dello sviluppo della scienza e della tecnologia.

In questo processo evolutivo delle modalità di produzione «determinato dallo stato generale della scienza e dal progresso della tecnologia, o dall’applicazione di questa scienza della produzione» non tutto si trasforma in beni immateriali (men che meno in prodotti finanziari più o meno tossici). La produzione dei beni materiali resta. Sia perché c’è sempre bisogno che il nostro fornaio ci fornisca ogni giorno del nostro tangibile pane: ovvero perché i nostri bisogni primari restano, anche, bisogni materiali, soddisfatti, in genere, con prodotti a basso o medio contenuto di conoscenza. Sia perché nell’economia della conoscenza, non tutti i beni di nuova concezione ad alto contenuto di conoscenza sono prodotti immateriali, come il sistema operativo di scrittura Word. Molti prodotti che chiamiamo hi-tech sono in realtà beni materiali. Consideriamo, a puro titolo di esempio, i bisturi-laser o le macchine per la tomografia assiale computerizzata (Tac) utilizzati in molti ospedali. Si tratta, per l’appunto, di macchine: di oggetti fisici tangibili. Ma con un alto tasso di conoscenza aggiunto (in questo caso conoscenza è molto più appropriato di informazione, perché i medici, siano essi chirurghi o analisti, devono possedere un buon bagaglio culturale per utilizzarle). Ebbene, è possibile dimostrare che nell’economia dell’informazione e della conoscenza, la gran parte della produzione non riguarda beni essenzialmente immateriali come il software della Microsoft, ma soprattutto beni materiali con incorporato un alto tasso di conoscenza come un bisturi-laser o una macchina per la Tac.

Anche negli stock di capitale reale – ovvero nel patrimonio strutturale che contribuisce a definire l’ambiente in cui i processi produttivi avvengono – i capitali tangibili diminuiscono in termini relativi, rispetto ai capitali intangibili, ma non spariscono. Anzi, come è avvenuto negli Stati Uniti tra il 1930 e il 1990, aumentano, sia pure meno velocemente dei capitali intangibili.
Il processo previsto da Karl Marx è, dunque, in atto. Pur con tutte le distorsioni sociali tipiche dell’apertura di ogni nuova fase e analoghe a quelle che portarono, all’alba della rivoluzione industriale, l’operaio Ned Ludd e pensare di rifiutarla, distruggendo le macchine.

Ma non serve rifiutare la rivoluzione produttiva in atto. Illudersi di poterla fermare. Proprio come non è servito il gesto (pre-politico) di Ludd a impedire lo sviluppo della produzione industriale. E, infatti, Marx si è guardato bene dal farlo.

  1. Si tratta di prenderne atto, per viverla al meglio, e soprattutto di indagarla, per conoscerla a fondo nel tentativo, questo sì politico, di incrementare le opportunità, minimizzarne i rischi sociali ed ecologici e cercare di indirizzare il processo verso un futuro desiderabile. Occorre, in altri termini, cercare di governare il nuovo processo produttivo. Non solo per ridistribuire gli enormi profitti generati dalla imprese in maniera socialmente accettabile e impedire che gli animal spirits dei nuovi agenti del mercato dell’informazione e della conoscenza diventino (come spesso accade) troppo aggressivi. Ma anche e soprattutto per cogliere le opportunità di liberazione che i nuovi processi produttivi portano con sé. Opportunità, ancora una volta, previste da Karl Marx.
Non appena il lavoro in forma immediata ha cessato di essere la grande fonte della ricchezza, il tempo di lavoro cessa e deve cessare di essere la sua misura e quindi il valore di scambio deve cessare di essere la misura del valore d’uso […] Con ciò la produzione basata sul valore di scambio crolla e il processo di produzione materiale  immediato viene a perdere anche la forma della miseria e dell’antagonismo. Subentra il libero sviluppo delle individualità e dunque non la riduzione del tempo di lavoro necessario per creare pluslavoro, ma in generale la riduzione del tempo di lavoro necessario della società a un minimo, a cui corrisponde poi la formazione e lo sviluppo artistico, scientifico, ecc. degli individui, grazie al tempo divenuto libero e ai mezzi creati tutti per loro.

La previsione di Marx è che nella società fondata sulla conoscenza il rapporto tra il lavoro e il valore d’uso dei beni si modifica. Ancora una volta, non si tratta di ritornare al rapporto di valori tipico dell’era industriale. Ma di generare nuovi valori: per esempio il valore dello sviluppo culturale e dell’integrazione sociale nel nuovo mondo globalizzato dall’informazione e dalla conoscenza (oltre che dalla rete produttiva, dal commercio e dalla finanza). Oppure di ritornare, con una prospettiva moderna, ad antichi valori, come quello greco dell’eudonomia che, soddisfatti i bisogni primari, considera che il benessere dell’uomo non venga dall’acquisizione compulsiva e  dal possesso di beni materiali, ma nella qualità della vita, individuale e collettiva.

L’eudonomia nell’antica Grecia era una prospettiva realistica, appannaggio di molti perché la società – contraddizione enorme delle ere passate – poteva contare sugli schiavi per i lavori manuali più indesiderati. Oggi lo sviluppo scientifico e tecnologico, come indicato da Marx, consente almeno parzialmente di sostituire l’uomo con le macchine in molti lavori, compresi i più pesanti e usuranti. Il filosofo di Treviri aveva dunque intuito gli effetti possibili della transizione a un’economia informata dalla scienza e dalla tecnologia: la liberazione dell’uomo dalla fatica per ottenere i beni materiali di cui ha bisogno e sviluppare la qualità della vita, realizzando la propria personalità secondo le proprie inclinazioni e attitudini.

La storia, come rileva Marcello Cini, si è incaricata di dimostrare che questa dimensione della nuova rivoluzione produttiva non è scontata. È solo una delle opzioni in gioco. La cui effettiva realizzazione dipende dai rapporti di forza nella società. Una dimensione socialmente sostenibile dell’economia della conoscenza può e deve essere conquistata, mediante le scelte politiche dei governi, delle parti sociali e dei cittadini tutti.  La storia – per esempio quelle dei paesi scandinavi o della stessa Germania – dimostra infatti che i dividendi economici, culturali e civili della nuova realtà produttiva possono essere meglio distribuiti di quanto non accada in genere nel resto del mondo, con un vantaggio per tutti e senza far perdere a un sistema paese la possibilità di essere costantemente alla frontiera del processo d’innovazione. Non è un caso se tanto la sostenibilità sociale quanto gli investimenti in educazione e ricerca nei paesi del nord Europa raggiungano i maggiori livelli al mondo. C’è una correlazione tra la qualità della vita e lo sviluppo della conoscenza.

  1. È questa la ragione per la quale i dubbi di tutti dovrebbero essere definitivamente fugati: l’Italia deve partecipare all’economia dell’informazione e della conoscenza. Sia per coglierne tutte le opportunità: se non partecipa è, nel suo insieme, economicamente e culturalmente più povera. Sia perché può fornire un contributo non banale al suo ulteriore sviluppo: il nostro paese possiede conoscenze e creatività in misura tale che possono essere significativamente utili al resto dell’umanità. Sia, infine, perché grazie alla sua cultura e alla sua tradizione politica, può fornire un contributo non banale a rendere il processo socialmente più sostenibile.

È questa una prospettiva che non riguarda solo in maniera generica l’intera umanità. Riguarda in maniera specifica il nostro stesso paese. Che investe meno degli altri paesi europei e di molti altri paesi al mondo in educazione e ricerca e che, unico tra i paesi a economia avanzata, ha una specializzazione produttiva che non è centrata sulla produzione di beni, materiali e immateriali, ad alto tasso di conoscenza. Ebbene, negli ultimi due decenni l’Italia ha sia subito un peggioramento relativo rispetto dal resto d’Europa e a gran parte del mondo nella capacità di produrre di ricchezza sia visto costantemente aumentare la disuguaglianza sociale interna. A dimostrazione che l’iniquità sociale non è figlia della società della conoscenza, quanto di un clima politico generale e di un equilibrio dei rapporti di forza tra i gruppi sociali che favorisce il capitalismo più aggressivo (sia in un sistema produttivo pre-industriale o industriale, sia in un sistema produttivo fondato sulla conoscenza).

È dunque necessario, persino impellente, diminuire nel nostro paese le inusitate differenze tra le fasce sociali che hanno di più e quelle che hanno di meno. Attraverso un’espansione sostenibile della ricchezza, un netto incremento del tasso di eudonomia e una qualificazione del sistema produttivo (che consenta, per esempio, un aumento medio degli stipendi degli addetti) tutto ciò sarà più facile da realizzare.

 

La conoscenza come “bene pubblico globale”

Resta il problema generale. Come impedire che un’economia fondata sulla conoscenza generi ricchezza e disuguaglianza, ovvero che la conoscenza diventi un’utile strumento nelle mani del capitalismo più aggressivo?
La nostra risposta – peraltro mutuata dalle proposte di molti economisti e di molti politici – è: progettando una società in cui la conoscenza sia sempre meno un “bene privato” e sempre più un “bene pubblico globale”.
Già, ma cos’è, esattamente, un “bene pubblico”? E quand’è che esso può essere definito “globale”?

Le domande non sono affatto nuove. Le prime risposte e, persino, le prime teorie sui “beni pubblici” risalgono addirittura al XVIII secolo. Fu nel 1739 infatti che David Hume propose il suo parere sulla fornitura dei common goods, i beni comuni. Dopo quelle del filosofo e storico scozzese, sono seguite molte e attente riflessioni da parte di tutti i principali esponenti del pensiero liberale, da David Ricardo a Thomas Malthus, fino allo stesso Adam Smith, considerato il teorico fondatore dell’economia classica, il cui succo in buona sostanza è questo: anche in un’economia di mercato la ricchezza delle nazioni non si fonda solo e unicamente sulla “mano invisibile” che regola lo scambio dei beni privati, trovando per ciascuno il giusto valore. Non si regge solo sull’egoismo del fornaio che ogni mattina produce il pane per venderlo a un prezzo che è il frutto dell’equilibrio dinamico tra la sua offerta e la domanda degli abitanti del villaggio.

La ricchezza delle nazioni si fonda, necessariamente, anche sulla fornitura non egoistica da parte dello stato di quei beni che risultano socialmente indispensabili non meno del pane, ma che – o a causa del loro scarso potenziale economico, o a causa dei loro costi tropo elevati – non trovano nessun agente economico razionale (o meglio, nessuno di quegli agenti economici  più che razionali un po’ autistici di cui parla Adam Smith, mossi da alcun’altra ratio se non quella di ottenere il massimo profitto economico dalle sua attività) disponibile a produrli o a scambiarli, impegnando proprie risorse per ricevere dei benefici che otterrebbe comunque adottando un comportamento opportunistico. Il fornaio investe nell’allestimento del forno e lavora per produrre il pane perché vendendolo al prezzo stabilità dal mercato ne trae immediato beneficio economico per sé e per la sua famiglia. Ma – si chiede Adam Smith – quale agente economico razionale volete che sia disponibile a fare altrettanto, a impegnare enormi risorse proprie – in termini di danaro o di tempo – per garantire la sicurezza, amministrare la giustizia, curare i malati ed educare i bambini dell’intero villaggio, se a trarne beneficio non è solo lui e la sua famiglia, ma, appunto, il villaggio intero? Il fornaio continuerà a spendere il suo tempo e le sue risorse per produrre il pane e venderlo, aspettando o che siano altri a sobbarcarsi i costi dei beni utili a tutti. Al più è disponibile a compartecipare per la sua quota parte a una spesa collettiva per la produzione e l’acquisto di quei “beni pubblici”.

È evidente, allora, che per una vita sociale ordinata e per la stessa prosperità del villaggio occorre che qualcuno si accolli l’onere di regolare la produzione e l’accesso ai “beni pubblici”. Questo qualcuno nel villaggio non può che essere il sindaco e in una nazione non può che essere lo stato, nelle sue varie articolazioni.
Adam Smith individuò i “beni pubblici” nella difesa nazionale, nel sistema della giustizia e dell’ordine pubblico, nella sanità (gli ospedali), nelle opere pubbliche (le strade e i ponti) e nell’educazione (le scuole). Questi sono beni cui deve provvedere lo stato perché la mano invisibile del mercato non riesce né a procurarli né a dispensarli, rilevava nel 1776 Adam Smith in un libro, La Ricchezza delle Nazioni. Destinato a diventare la bandiera dell’economia libera di mercato. Il guaio è che molti neoliberisti, oggi, hanno dimenticato il saggio ammonimento di Adam Smith. E tocca a noi – che liberisti non siamo – ricordarlo.

Naturalmente la riflessione sui “beni pubblici” è andata oltre Adam Smith. Ma è solo nel 1954 che un altro grande del pensiero economico – Paul Samuelson – in un altro libro – The Pure Theory of Public Expenditure – ha proposto una vera e propria teoria economica dei “beni pubblici”, individuando, tra l’altro, alcuni beni che possono essere definiti “beni pubblici puri”. Si tratta di beni dotati di due caratteristiche di cui abbiamo già parlato: la non escludibilità dei benefici (è impossibile escludere un individuo dal consumo di quel bene) e la non rivalità dei consumi (il consumo da parte di un individuo di quel bene non preclude il consumo da parte degli altri).

L’acqua della ruscello che attraversa il piccolo villaggio, lassù in montagna, dove abita il nostro ormai famoso fornaio è un “bene pubblico puro”, sia perché nessun abitante del paesino può impedire a un altro di berla, sia perché l’appagamento della sete da parte di un paesano non impedisce né limita la possibilità di bere da parte dei suoi concittadini (l’esempio regge solo se la portata d’acqua del ruscello è di gran lunga superiore alla domanda di acqua potabile del villaggio).
Di “beni pubblici” come l’acqua del ruscello di montagna, ce ne sono molti. Anche l’aria presente nell’atmosfera del pianeta Terra è un “bene pubblico puro”, così come lo definisce Samuelson. Ma poiché è diffusa globalmente, poiché nessun individuo può impedire a un ciascun altro abitante del pianeta di respirarla, poiché infine la respirazione di ognuno di noi non impedisce né limita la respirazione di tutti gli altri individui membri dell’umanità, possiamo definire l’aria presente nell’atmosfera terrestre un “bene pubblico puro e globale”.

In definitiva: i “beni pubblici globali” non sono altro che quei beni dotati del carattere di non escludibilità dei benefici e di non rivalità dei consumi il cui uso interessa l’intera umanità o, almeno, una parte rilevante di essa.

Ebbene, le domande sono due: può la conoscenza essere definita un “bene pubblico globale”? Deve la conoscenza essere definita un “bene pubblico globale”?
Alla prima domanda molti economisti sostengono di sì, la conoscenza è un “bene pubblico globale”, per il semplice fatto che è un bene non rivale. Per corroborare questa tesi Joseph Stiglitz – uno degli economisti che con più vigore e autorità si batte per la conoscenza BPG (bene pubblico globale) – cita Thomas Jefferson, l’autore della dichiarazione di indipendenza americana (1776):

 

Colui che riceve un’idea da me, riceve un’istruzione senza diminuire la mia; così come colui che accende il suo cero al mio, riceve luce senza lasciarmi al buio.

Tuttavia la conoscenza non è – di per sé – un “bene pubblico globale” come lo sono l’aria o la luce. Ha caratteristiche un po’ diverse.

Per esempio è “più che non rivale”.

Quando io respiro non impedisco al mio vicino di respirare, ma neppure aiuto la sua respirazione. Quando il paesano beve l’acqua del ruscello non impedisce al suo fornaio di fare altrettanto, ma neppure lo aiuta a soddisfare la sua sete. Invece l’utilizzo da parte di un individuo di una conoscenza non solo non impedisce ad altri di usarla, ma addirittura aumenta la conoscenza di tutti. Ciò che dispensa il maestro nella scuola del villaggio è un bene che fa crescere i suoi alunni e l’intera comunità. E più il maestro dispensa, più la conoscenza generale cresce.
Questa peculiare caratteristica – più la uso e più aumenta – consente alla conoscenza di partecipare da protagonista assoluta alla commedia dei commons. Una commedia a lieto fine, che determina una crescita complessiva del benessere – del ben essere – non solo del villaggio o della nazione, ma dell’intera umanità.

Il guaio è che, sebbene sia non rivale – anzi, più che non rivale – il bene conoscenza è, sia pure con difficoltà, esclusivo e confinabile: a differenza dell’aria, qualcuno se ne può appropriare, anche in forma monopolistica, impedendo ad altri di usarla o comunque limitandone il libero utilizzo. Basta chiudere o restringere i canali di comunicazione, erigendo (con strumenti fisici, legali, intellettuali) barriere di segretezza e la conoscenza è intrappolata. E il bene conoscenza cessa di essere pubblico. Cos’era la cultura ermetica nell’antico Egitto o ancora nel Rinascimento se non una barriera intellettuale che erigeva mura di segretezza intorno al sapere – che veniva così messo a disposizione di pochi iniziati e di fatto impedito a tutti gli altri? Cosa sono la censura militare, l’oscuramento di alcuni siti internet o, in maniera più sofisticata, gli impedimenti normativi o economici o di classe o religiosi se non dei tentativi più o meno radicali di confinare alcuni tipi o, nei casi più estremi, l’intera conoscenza impedendo a molti individui di accedervi?

Vi sono molti modi per appropriarsi della conoscenza e confinarla. Alcuni sono connessi a precise scelte economiche o politiche o religiose da parte di singoli o di organizzazioni. Il ricorso ai meccanismi di tutela della proprietà intellettuale è un tentativo di limitare la libera circolazione della conoscenza. L’imposizione della segretezza assoluta sui risultati di una ricerca (per esempio quando un’azienda farmaceutica impone ai suoi dipendenti di non divulgare i risultati di test che dimostrano la presenza di effetti collaterali indesiderati di un farmaco molto venduto) è, invece, il tentativo di bloccare del tutto la diffusione di una certa conoscenza.

Spesso basta davvero poco per trasformare la conoscenza in un bene escludibile. Basta, per esempio, comunicarla attraverso media costosi: basta confinarla in un libro o un disco perché il problema dei costi – che non è inerente alla conoscenza, ma al mezzo attraverso cui viene comunicata – si ponga e, quindi, si ponga il problema del libero accesso.
Gli articoli scientifici, per esempio, sono stati per lungo tempo pubblicati solo su riviste cartacee il cui costo è stato spesso deciso, in regime praticamente di monopolio, dalle case editrici. Ciò ha costituito e costituisce tuttora una barriera, spesso insormontabile, per molti ricercatori che operano in paesi poveri.

La comunicazione di una conoscenza acquisita – si pensi ai laboratori militari o a certi laboratori industriali – può essere persino del tutto impedita. In questo modo la conoscenza cessa del tutto di essere un bene pubblico e diviene un bene detenuto in esclusiva da pochi.
Non ci sono solo le barriere passive. Spesso agiscono altri impedimenti, più liquidi e sofisticati. Per esempio la conoscenza delle fonti di conoscenza. Se io conosco dove sono le fonti, posso attingere alla conoscenza. Se ne ignoro l’esistenza non saprò mai dell’opportunità perduta.

Vi sono anche fattori limitanti che sono indipendenti dalle scelte degli agenti economici – o dei politici o dei religiosi. Vi sono fattori intrinseci, per così dire, alla conoscenza stessa che ne limita la diffusione a livello globale. Non tutta la conoscenza che viene prodotta in un contesto locale – per esempio la conoscenza necessaria per costruire un igloo oltre il circolo polare artico – è di interesse generale. La cultura degli igloo come bene pubblico globale è limitata, dunque, da fattori intrinseci: lo scarso interesse da parte della maggioranza della popolazione mondiale ad acquisirla.

La conoscenza può, dunque, diventare un bene esclusivo e confinato. Anche se con estrema difficoltà, perché – per fortuna – fugge da ogni parte e non è stato ancora inventato il contenitore a tenuta integrale capace di intrappolarla definitivamente. Anche chi non apparteneva alla classe degli scribi poteva, sfidando il potere, imparare a leggere e a scrivere. Anche chi nell’Italia fascista subiva la censura del regime riusciva a sintonizzarsi su Radio Londra. Anche chi non è dentro le segrete stanze dell’Epa (l’Environmental Protection Agency) ha finito per conoscere il giudizio sui cambiamenti climatici elaborato dall’agenzia federale che si occupa di protezione dell’ambiente negli Stati Uniti, malgrado il Presidente George W. Bush abbia tentato di impedirne la pubblicazione.

 Tabella 2
Bene privato locale Bene pubblico globale Bene pubblico globale progettuale
 
Il pane L’aria La conoscenza
 
Rivale

 

L’uso da parte di qualcuno limita o addirittura impedisce l’uso da parte di un altro.

Non rivale

 

L’uso da parte di qualcuno non ne limita o addirittura impedisce l’uso da parte di un altro.

Più che non rivale

 

L’uso da parte di qualcuno ne favorisce l’uso da parte di un altro.

Escludibile

 

È realistico che qualcuno abbia interesse e riesca ad escludere qualcun altro dall’uso

Non Escludibile

 

Non è realistico che qualcuno abbia interesse e riesca ad escludere qualcun altro dall’uso

Quasi non escludibile

 

Può diventare escludibile (sia pure con difficoltà) in mancanza di libera comunicazione

Confinabile

 

È realistico che qualcuno riesca a limitarne geograficamente o socialmente la circolazione

Non Confinabile

 

Non è realistico che qualcuno riesca a limitarne geograficamente o socialmente la circolazione

Quasi non confinabile

 

Può diventare confinabile (sia pure con difficoltà) in mancanza di libera comunicazione o a causa di ostacoli, anche immateriali

         Fonte: libero adattamento da [Cerroni, 2006]

Insomma: le dighe che, di volta in volta, si erigono per fermare il fiume della conoscenza come bene pubblico fanno acqua da tutte le parti. Ma anche facendo acqua da tutte le parti, creano laghi artificiali di “conoscenza privata” più o meno stabili.
In definitiva possiamo dire che la conoscenza non è naturaliter un “bene pubblico globale”, perché è, come rileva Andrea Cerroni, un bene quasi escludibile e quasi confinabile.

Tuttavia, se lo vogliamo, le dighe che formano laghi artificiali di “conoscenza privata” possono essere abbattuti. Nulla, in linea di principio, lo impedisce. E l’abbattimento delle dighe è il risultato di un equilibrio di forze sociali che può essere spostato, grazie all’azione politica.
In realtà, oltre alla fase di distruzione (delle dighe che impediscono la libera circolazione della conoscenza), occorre una fase ancora più impegnativa di costruzione della conoscenza come bene pubblico globale. Occorrono le scuole e le università per tutti, internet per tutti, la possibilità per tutti di fondare imprese basate sulla conoscenza.

Bisogna essere consapevoli che anche la fase di costruzione della conoscenza come “bene pubblico globale quasi perfetto” si scontra, come rileva Luciano Gallino, con una serie di poteri economici, politici, culturali che tendono a farne un bene privato nazionale o transnazionale.
Tuttavia, al netto delle difficoltà, è possibile costruire un mondo in cui la conoscenza sia un “bene pubblico globale”. Si tratta di avviare un processo che, secondo le Nazioni Unite, si basa su un triangolo: il “triangolo della pubblicità”:

  • la conoscenza deve essere pubblica e l’accesso alla conoscenza illimitato;
  • il processo di pubblicizzazione della conoscenza deve prevedere la partecipazione attiva dei cittadini e l’accesso senza limiti deve riguardare non solo la fruizione passiva ma anche l’utilizzo e la creazione di conoscenza;
  • ogni cittadino del pianeta deve poter beneficiare della conoscenza.

La conoscenza è, dunque, un “bene pubblico globale progettuale”. Possiamo lavorare – rispettando, per esempio, i tre passaggi indicati dalle Nazioni Unite – a un progetto per la costruzione della conoscenza come un “bene pubblico globale”.

Resta da rispondere all’altra domanda: è desiderabile? Il desiderio non è, per definizione, una condizione oggettiva. Dipende dalla volontà dei singoli, dalla loro visione del mondo. Chi vuole una società più democratica deve lavorare perché la conoscenza cessi di essere un bene di cui qualcuno si può appropriare e diventi sempre più un bene a disposizione di tutti.
La realizzazione concreta e razionale di ogni desiderio è accompagnato da una valutazione dei rischi e dei benefici. Cosa guadagniamo e cosa perdiamo se la conoscenza cessa di essere un “bene privato” e diventa un “bene pubblico globale”?

I vantaggi culturali, sociali e politici di una simile trasformazione sono autoevidenti ed è superfluo parlarne. In termini economici si ridurrebbe, forse, la capacità locale di produrre ricchezza, ma consentendo il libero accesso e il libero uso della conoscenza si libererebbe una quantità enorme di forze produttive in tutto il pianeta. Persino su una bilancia che pesa solo i beni economici i più benefici risulterebbero superiori alle perdite.
Ma c’è, infine, un ulteriore argomento a favore della conoscenza come “bene pubblico globale”. L’argomento ecologico. Se non modifichiamo il nostro modello di crescita, se non rinunciamo a uno stile di vita fondato sui consumi e non costruiamo una società fondata sull’eudonomia avremo grandi difficoltà a vivere in pace sul e col pianeta.

 

Note

(1) Ciò ha delle implicazioni anche per il nostro paese. L’Italia, infatti, è fuori dalla società della conoscenza. Chiedere che vi entri non significa aderire a un modello di sviluppo sempre più insostenibile, ma imparare a utilizzare l’informazione e la conoscenza per costruire, tutti insieme, un nuovo modello di sviluppo socialmente ed ecologicamente sostenibile.