Per un programma di governo dell’ economia della conoscenza

L’Italia è in declino. La sua crisi dura da almeno trent’anni, anche se ha subito un’accelerazione dopo il 2008. Molti si chiedono, anche a sinistra, se esista una ricetta per venirne fuori. Nessuno sembra avere quella giusta. Le prescrizioni, le più diverse, si succedono infatti senza soluzione di continuità e senza effetti.
La destra, in Italia come altrove, propone la solita pozione magica: la taumaturgia del mercato. I risultati, In Italia e altrove, sono sotto gli occhi di tutti. Una pressione insopportabile sul lavoro e un aumento intollerabile delle disuguaglianze stanno portando il mondo sull’orlo di una crisi strutturale. L’Italia, da almeno trent’anni appunto, è già oltre quell’orlo.

Toccherebbe alla sinistra tentare di riportarla fuori. Ed è questo il senso, mi pare, dell’incontro “Per una nuova Italia nell’economia della conoscenza” che si terrà alle ore 16.00 di venerdì 4 novembre 2016 a Città della Scienza con Enzo Lipardi, Arturo Scotto, Pietro Folena e Giuliano Pisapia.
Trovare la giusta terapia dipende dalla bontà della diagnosi. Cosicché la sinistra oggi in Italia deve chiedersi quali siano le cause del declino italiano. Secondo molti (ma, ahimé, non moltissimi) osservatori, le ragioni profonde del declino italiano risiedono nella specializzazione produttiva del paese, fondata su quello che è stato definito un «modello di sviluppo senza ricerca» e centrata sulla creazione di beni e servizi a media e bassa tecnologia o, più in generale, a medio e basso contenuto di conoscenza aggiunto.

La scelta di questa specializzazione produttiva, più unica che rara nei paesi più avanzati, risale agli anni ’60 del secolo scorso. Ha retto fino a quando eravamo “i più poveri tra i ricchi”, potendo contare su due leve piuttosto forti: il basso costo del lavoro e una moneta, la lira, resa artificialmente debole con una serie di “svalutazioni competitive”. Ma questo tipo di specializzazione produttiva non regge da quando, oltre un quarto di secolo fa, è iniziata la “nuova globalizzazione”. Sulla scena economica mondiale sono apparsi paesi con un costo del lavoro molto più basso del nostro e, nel medesimo tempo, l’Italia non dispone più della “liretta” svalutabile a piacere: ora c’è una moneta forte, l’euro, sulle cui dinamiche non decide l’Italia. Dunque la vecchia specializzazione produttiva non regge più. Occorre cambiarla.

In questi trent’anni l’Italia – malamente consigliata da economisti liberisti – ha cercato conservare la competitività della vecchia specializzazione produttiva puntando sul “dumping sociale”: fare la concorrenza ai paesi a economia emergente comprimendo i salari e i diritti sul luogo di lavoro. Il che ha finito per deprimere il mercato interno senza per questo riuscire a preservare le vecchie quote sui mercati internazionali.

Un disastro!
È questa, a grana grossa, la catena di cause della lunga crisi italiana.
Se la diagnosi è giusta – come crediamo – allora la ricetta per venirne fuori c’è. Non sembri un paradosso: ma l’ha proposta, oltre settant’anni fa, un conservatore americano, il matematico e informatico Vannevar Bush, consigliere scientifico del presidente degli Stati Uniti, il democratico Franklin D. Roosevelt, in un rapporto, Science, the Endless Frontier (Scienza, la frontiera senza confini), elaborato in risposta a una precisa domanda, la stessa che ci poniamo noi: come è possibile agganciare il futuro (un futuro desiderabile, fatto di piena occupazione e migliore qualità della vita) modificando la specializzazione produttiva del paese?

Quando Roosevelt la pose, questa domanda, nel 1944, gli Usa erano in piena guerra. E quando Vannevar Bush diede la risposta, nel giugno 1945, il conflitto era appena terminato in Europa, ma continuava nel Pacifico e in Asia. Tuttavia il rapporto, una settantina di pagine, fu molto chiaro ed esaustivo. Con la ricetta di Bush, interpretata in maniera più o meno fedele, non solo gli Stati Uniti, ma anche buona parte dei paesi europei e, oggi, molti paesi asiatici hanno fatto proprio il «modello di sviluppo attraverso la ricerca» e sono entrati nell’economia della conoscenza, evitando quella crisi lunga e profonda, strutturale, da cui l’Italia non riesce a uscire.

Science, the Endless Frontier non è (solo) un manifesto di moderna politica della ricerca. È il manifesto di una moderna economia fondata sulla conoscenza.
Ebbene, la ricetta Bush è ancora applicabile. E il nostro paese  farebbe bene a farla propria se vuole uscire dalla crisi accettando la sfida della modernità. La ricetta serve a far crescere la ricchezza prodotta. Naturalmente la sinistra deve farla propria aggiungendo qualche ulteriore ingrediente, se vuole che la crescita della ricchezza sia accompagnata da una maggiore sostenibilità sociale ed ecologica.
Il rapporto Bush è un programma di 70 pagine. Che noi possiamo provare a riassumere in 15 punti. I quindici punti di un programma di governo per lo sviluppo dell’economia fondato sulla conoscenza.

  1. Il paese ha bisogno di innovazioni costanti. L’innovazione continua è necessaria anche in campo economico. Perché crea lavoro e ricchezza. Una delle nostre speranze – scriveva Bush – è di avere un regime di piena occupazione e un tenore di vita più alto grazie alla produzione di beni e servizi di qualità. Solo l’innovazione può soddisfare queste speranze. Per innovare abbiamo bisogno di tutte le energie creative e produttive del nostro paese.
  2. Dobbiamo cambiare la specializzazione produttiva del paese. Dobbiamo pertanto puntare su nuove industrie ad alta tecnologia e capaci, appunto, di innovazione continua. Perché «non otterremo nulla rimanendo immobili, continuando a produrre gli stessi articoli venduti a prezzi uguali o più alti. Non avanzeremo nel commercio internazionale se non offriremo prodotti nuovi, più appetibili e meno costosi».
  3. La scienza è la leva principale per il cambiamento della specializzazione produttiva. Perché solo la scienza, con la sua capacità di produrre nuova conoscenza in maniera incessante, genera innovazione continua. Dunque dobbiamo aumentare sensibilmente gli investimenti in ricerca scientifica.
  4. La storia recente ha dimostrato che la scienza assolve a questo compito. Bush, che era il responsabile primo del Progetto Manhattan, fa riferimento non solo e non tanto alla vicenda della bomba atomica (ormai pronta, nel giugno 1945, ma non ancora usata su Hiroshima e Nagasaki), quanto alla messa a punto degli antibiotici, che consentivano ai soldati americani di non morire per banali infezioni contratte sui campi di battaglia di mezzo mondo, e di altre innovazioni come i materiali polimerici. Bush aveva visto giusto: oggi la scienza e, più in generale, la conoscenza sono alla base dei due terzi dell’economia mondiale.
  5. Per lo sviluppo del paese occorre un flusso costante e sostanziale di nuova conoscenza scientifica frutto di un gioco di squadra che deve coinvolgere l’intera nazione. Occorrono più fondi, ma anche più università e, soprattutto, luoghi particolarmente adatti all’innovazione. Ambienti creativi. È l’intero paese che “deve crederci”.
  6. Ma ha un’importanza decisiva la scienza di base. Occorre puntare prima e sopra ogni altra cosa sulla scienza fondamentale. Quella generata dalla curiosità degli scienziati e non da un obiettivo pratico immediato. Perché è la scienza di base che, nel medio e lungo periodo, crea più innovazione. E che, già nel breve periodo, crea il clima adatto all’innovazione.
  7. Un paese padrone del proprio destino non può dipendere dall’estero per la produzione di nuova conoscenza di base. È miope pensare: “la ricerca la fanno gli altri e io compro il know-how”. Questa idea, ahimé ampiamente diffusa in Italia, crea dipendenza e mortifica la creatività. Alla lunga (ma anche a breve) è un’idea perdente.
  8. L’impresa privata non ce la fa a sostenere la ricerca di base. Le imprese private chiedono risultati certi e immediati. L’esatto contrario di quanto richiede una buona ricerca di base (o, come la chiamiamo oggi, curiosity-driven, diretta dalla curiosità) e anche applicata.
  9. Per lo sviluppo economico fondato sulla conoscenza occorre che intervenga lo Stato a finanziare la ricerca, salvaguardando sempre la ricerca di base. Non ci sono scappatoie. Senza l’intervento pubblico non è possibile creare le condizioni per la ricerca motivata dalla curiosità. Non è possibile investire in progetti scientifici di lungo periodo e di interesse generale.
  10. Lo sviluppo tecnologico deve essere tutto a carico delle imprese. Sono i privati – dice Bush – che devono essere capaci di trasformare la conoscenza scientifica in beni e servizio commerciabili. Lo stato non deve finanziare lo sviluppo tecnologico delle imprese. Su questo il consigliere di Roosevelt aveva in parte torto. La storia ha dimostrato che occorre l’intervento dello Stato anche per evocare una forte domanda di beni e servizi ad alto contenuto di conoscenza aggiunto e, dunque, per favorire la nascita e lo sviluppo di imprese hi-tech. La corsa allo spazio di Kennedy o la “guerra al cancro” di Nixon hanno assolto a questo compito evocativo.
  11. Occorre un programma nazionale. Occorre una politica nazionale pubblica, che non è solo una politica della ricerca ma è anche una politica economica. Il mercato da solo non ce la fa a cambiare la specializzazione produttiva di un paese.
  12. Occorre aumentare il capitale scientifico del paese aumentando il capitale umano. Occorrono non solo più fondi per la ricerca, ma anche più uomini per la ricerca. E queste risorse umane non possono che venire dalle università. Occorrono dunque università che accolgano un numero crescente di studenti e diano loro una formazione di alta qualità. Oggi l’Italia è ultima per numero di giovani laureati tra i 40 paesi dell’OCSE. Questo dato non dovrebbe far dormire politici ed economisti, oltre che gli intellettuali tutti. Ma da noi c’è ancora chi sostiene che i laureati sono troppi e che – pensi signora – anche l’operaio vuole il figlio dottore.
  13. Conta solo il merito. Per selezionare gli scienziati migliori e i progetti di ricerca da finanziare occorre puntare su un unico fattore: il merito. Occorre scegliere i migliori. Ma occorre anche che il bacino entro cui si sceglie sia accessibile alle menti migliori. Per cui occorre che i ragazzi più bravi abbiano facile accesso ai centri di formazione, a prescindere dal reddito delle loro famiglie, dal genere, dal luogo di provenienza, dall’etnia, dal credo religioso.
  14. Occorre rimuovere le barriere. Ci sono molti ostacoli, culturali e burocratici, che impediscono ai migliori, locali o stranieri, di fare ricerca e di partecipare allo sviluppo scientifico del paese. Questi ostacoli – si pensi al Sud d’Italia, dove le iscrizioni all’università sono crollate – vanno sistematicamente rimossi.
  15. Occorre un’agenzia nazionale per la ricerca. Occorre un centro unico di coordinamento – un’agenzia nazionale della ricerca – che, in piena autonomia dalla politica, indirizzi il lavoro e assegni i fondi pubblici sulla base del merito scientifico.

Questi quindici punti esprimono, in sintesi, il programma di Vannevar Bush che ha consegnato agli Stati Uniti la leadership tecnologica ed economica mondiale. Il programma ha trovato applicazione in così tanti paesi da assurgere, ormai, a vero e proprio “manifesto dell’era della conoscenza”.
Il programma, con i suoi quindici punti, è una ricetta per la rinascita anche del nostro paese. L’unica ricetta, forse, che abbiamo. Il programma di Vannevar Bush può (deve) essere fatto proprio anche dalla sinistra.
Va ribadito, tuttavia, che esso è funzionale alla crescita dell’economia (e alla crescita civile) di un paese. Ma nulla dice su una più equa distribuzione della ricchezza prodotta e sul minore impatto ambientale dell’attività economica. Questi sono i due ingredienti aggiuntivi su cui deve lavorare la sinistra per fare del programma Bush il proprio programma di governo.

 

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Venerdì 4 novembre 2016, nella sala Archimede di Città della Scienza (Via Coroglio 104) si terrà l’incontro “Per una nuova Italia nell’economia della conoscenza. La sinistra tra crisi e nuovo modello di sviluppo” durante il quale interverranno Vincenzo Lipardi (Consigliere Delegato di Città della Scienza), Arturo Scotto (Capogruppo di Sel), Pietro Folena (ex presidente della commissione cultura della Camera dei deputati e direttore editoriale di Artemagazine) e Giuliano Pisapia (ex Sindaco di Milano).

4 NOVEMBRE