Piccole Variazioni sulla Scienza. Una Nota di Marcello Cini

Marcello Cini (Firenze, 29 luglio 1923 – Roma, 22 ottobre 2012) è stato uno dei più autorevoli fisici teorici ed intellettuali del nostro paese. Il “cattivo maestro” non si è limitato a chiarire le incertezze quantistiche – idealmente vicino in questo a David Bohm e Jean Marc Levy Leblond – ma ha anche dato lezioni eleganti di resistenza civile e posto le basi di una visione politica  ampia, in grado di comprendere le rotte di collisione tra economia, ecologia ed epistemologia. In questi giorni è uscito il mio “Piccole Variazioni sulla Scienza” (Dedalo). Generoso come sempre, nonostante i mille impegni ed acciacchi, Marcello lesse la ur-version di questi saggi e mi fece l’inaspettato regalo di una prefazione di grande respiro. Poi, dopo la sua morte, il progetto è rimasto nel cassetto. Senza di lui non mi sembrava più la stessa cosa. Adesso che ha visto la luce grazie alle cure degli amici G. Longo e S. Tagliagambe, riproporre la sua nota qui mi sembra un bel modo di ringraziare e ricordare un grande uomo che qui mostra l’unità del suo pensiero e sua la dolcissima cifra umana.

ignazio-licata_3230Ignazio Licata – Fisico teorico, è direttore scientifico di Isem, Istituto per la metodologia scientifica per studi interdisciplinari di Palermo. I suoi principali ambiti di ricerca sono la fisica quantistica e la cosmologia, i modelli matematici dei processi cognitivi e la teoria della computazione in sistemi fisici e biologici. È autore di numerose pubblicazioni.

 

Con Ignazio Licata ci siamo incontrati di persona poche volte, ma la nostra lunga frequentazione è stata fitta di scambi: articoli di fisica e di argomenti vari, commenti su libri e libri interi, lettere e domande reciproche. Insomma quanto basta da un lato per provare da parte mia – oltre che, qualche volta, un certo affanno nel seguire alcuni arditi collegamenti del suo argomentare – una grande ammirazione e un pizzico di invidia per l’illimitato patrimonio di conoscenze del mio giovane collega e amico, e dall’altro per condividere una visione comune del mondo, della realtà e della scienza che, se volessimo ridurre tutto a un solo riferimento simbolico, fa leva sul pensiero di Gregory Bateson.

Per riassumerne succintamente l’impianto vorrei solo citare due princìpi sui quali essa si fonda. Il primo è la distinzione fondamentale tra sistemi dotati soltanto di proprietà intrinseche, definite dalla propria struttura interna – gli oggetti, magari complicatissimi, ma programmabili e prevedibili – e i sistemi complessi – la materia vivente in tutte le sue articolazioni e in tutti i suoi livelli – le cui proprietà dipendono in tutto o in parte dal contesto. È il pattern (preferisco l’ambiguità della parola inglese alle varie versioni italiane: trama, struttura, disegno, che la rispecchiano solo parzialmente) che connette l’universo gerarchico dei sistemi complessi autorganizzati che Bateson chiama menti a dare un senso al tutto e alle sue parti.

In questo universo, infatti, come leggiamo nel saggio L’orologiaio cieco e la mano invisibile:

Non esistono sistemi isolati o leggi fondamentali nel senso della fisica, si tratta di scienze del mutamento, in cui le condizioni al contorno fissano in modo peculiare l’accadere di una sequenza di eventi, delimitando l’azione delle leggi e disegnando uno scenario di forme e processi possibili.

Il secondo principio – ma non certo in ordine di importanza – è che il “motore” del cambiamento di ogni mente a tutti i livelli è l’evoluzione. «La vita, lo abbiamo detto più volte – scrive Licata in un saggio in polemica con i sostenitori del cosiddetto Disegno intelligente (giustamente Licata usa Piano in luogo della traduzione corrente Disegno dell’inglese Design) – è un fatto “storico”: se alcune forme “ce la fanno”, faranno da “matrici” per quelle che seguiranno». Come affermava già molti anni fa un biofisico di grande acutezza, Mario Ageno: «Non ci sono altre “spiegazioni”, per i fenomeni biologici di quelle evolutive».

La trama che connette e l’evoluzione che crea costituiscono l’architrave portante dei saggi di questa raccolta. Ma ciò che caratterizza l’originalità dell’approccio di Licata è la sua capacità di cogliere, accanto alle fondamenta comuni, quegli aspetti dei processi evolutivi del pensiero e della cultura che ne caratterizzano la varietà. Questo gli permette di polemizzare con la banalizzazione della loro riduzione a una spiegazione “giusta” che si contrappone a una “sbagliata”. Una spiegazione che, per quanto corretta possa essere in partenza, non si apre all’arricchimento che la complessità del reale le offre.

Prendiamo ancora come esempio il confronto fra biologia ed economia. Scrive Licata:

La storia delle molte identità del darwinismo è forse l’esempio più evidente di come uno scenario scientifico fondamentale può esercitare un’influenza fortissima su altri ambiti e provocare una serie di battaglie ideologiche che nascono proprio come necessità di gestire le emergenze di influenza culturale e gli eventuali “vantaggi” sociali di una teoria. […] Tra biologia ed economia c’è sempre stata quella che potremmo definire un’affinità epistemologica: insofferenti dentro lo schema meccanico-riduzionista, limitate da una trattazione puramente formale e impoverite dalla statistica, sono entrambe discipline sistemiche e di processo.

Prosegue tuttavia:

Queste teorie “classiche” dei sistemi sociali ed economici sono in grado di offrire una buona rappresentazione dei rapporti tra gli agenti in gioco, ma si mostrano di scarsa utilità nei casi di mutamenti repentini o di meccanismi di scelta imprevedibili, ossia non inquadrabili in una gerarchia di soluzioni predefinite in base a un “razionale” criterio di “desiderabilità”.

Non solo, aggiungo io, ma possono portare, come è storicamente accaduto, da un lato a una biologizzazione dell’economia ideologicamente parziale e socialmente dannosa, e dall’altro a una antropomorfizzazione troppo fantasiosa e caricaturale della biologia del mondo animale.

Il vecchio concetto di “sopravvivenza del più adatto” sfuma oggi dunque, e si specifica assieme, in una complessa modellistica dove sono possibili più equilibri; ci sono molti modi di essere “adatto”. Il linguaggio della biologia teorica comincia a mutare e diventa progressivamente quello dei sistemi complessi: parametri d’ordine, valori di soglia, catastrofi, nicchie, equilibri punteggiati, anticaos, autorganizzazione, criticità.

E in una sorta di simbiosi ormai storicamente ben definita, questo è oggi anche il linguaggio della teoria economica, volta a esplorare territori in cui la razionalità limitata e l’informazione imperfetta di ogni singolo agente creano panorami di fitness variabili in continuo riassestamento.

Ma non è tutto. Rilancia infatti l’autore:

Sappiamo che le affinità tra biologia ed economia sono più forti di molte metafore culturali cui hanno dato vita, ma c’è un punto essenziale sul quale differiscono, e che ci restituisce parte della visione originale di Adam Smith: un ecosistema non ha un modello cognitivo di se stesso, un sistema economico sì! La Natura non fabbrica cose buone o cattive, belle o brutte. […] L’orologiaio della Natura può anche essere cieco, ma i tempi dell’economia vanno monitorati con attenzione perché misurano l’evoluzione naturale della democrazia.

Lo stesso stile si manifesta nel saggio già citato Il Piano intelligente che polemizza contro i sostenitori della dottrina secondo la quale la varietà e la complessità delle forme naturali non sono spiegabili attraverso un meccanismo di tipo darwiniano, ma richiedono una matrice intelligente legata a un intervento divino. La maggior parte del saggio è dedicata a controbattere i pretestuosi argomenti dei neocreazionisti travestiti da scienziati che argomentano le loro tesi con riferimenti probabilistici che ignorano del tutto gli sviluppi degli ultimi trent’anni delle scienze della complessità e del caos, e dichiarano “falsificata” la teoria di Darwin sulla base dei suoi spettacolari sviluppi e arricchimenti teorici e sperimentali.

Conclude Licata su questo tema:

Quello che davvero manca alle posizioni creazioniste, all’Intelligent Design o alle varie forme di teologia scientifica, al di là delle forzature teoriche, è l’assenza di stupore, quell’entusiasmo conoscitivo che ogni scienziato ha provato almeno una volta in vita sua e che i mistici evocano nel loro linguaggio, gioco di risonanze, significati e intuizioni senza il quale nessuna conoscenza può trasformarsi in autentica esperienza interiore.

Di nuovo dunque un cambiamento di livello che sposta il discorso dal banale al problematico.

È ancora il discorso sulla natura e sul significato della scienza che Ignazio Licata riprende nel saggio, intitolato Anything Goes, che ha per oggetto il pensiero di Paul Feyerabend. Ne riporto alcuni passaggi che condivido in pieno. «Com’è noto – spiega – la riflessione di Feyerabend utilizza una puntuale analisi storica contro le generalizzazioni della cosiddetta epistemologia ortodossa».

Ben venga dunque un’analisi contrometodologica che sposta l’asse non più sul confronto ingenuo e univoco fatto-teoria, ma sulla fecondità della dinamica competitiva di molteplici strategie di ricerca rispetto alla possibilità di creare un frame coerente di informazioni sul mondo. La “coerenza” qui non è il risultato di un’acquisizione definita nei termini della vecchia verificabilità neopositivista o della falsificabilità popperiana, bensì l’assetto che deriva da un gioco dialogico tra saperi procedurali e locali legati a diversi stili di ricerca, contesti economici, convinzioni extrascientifiche.

Tuttavia «la liquidazione del metodo non implica […] alcuna controproposta, ma ribadisce l’inadeguatezza di ogni procedura metodologica che non sia mirata a un’indagine specifica. Un metodo, senza un problema, è un contenitore vuoto che cerca pericolosamente altre funzioni». Ogni epistemologia formale può cogliere soltanto piccole frazioni del fare scientifico, ma il vero problema è che queste descrizioni spogliano l’attività scientifica delle sue concrete ricchezze procedurali e mirano piuttosto a dare alla scienza un vestito ideologico per presentarsi come forma di conoscenza fondamentale e privilegiata. Ogni buona scienza, in definitiva, è un’arte sottile che non si può imparare studiando un metodo, ma praticando i problemi.

Dobbiamo dunque accettare l’idea di una razionalità non asettica, bensì capace di nutrirsi di tutte le risorse strumentali e culturali possibili, in un processo di confronto e arricchimento che non può essere risolto in una direzione univoca di progresso, quanto in un ampliamento delle domande possibili e del numero di soluzioni effettivamente praticabili in relazione alle molteplici definizioni di un obiettivo di conoscenza.

In sostanza, come scrive altrove Licata:

l’assenza di metodo non è la caduta nel caos, ma la richiesta energica di strategie e argomentazioni sempre nuove in grado di articolare meglio i problemi più strani e inusuali. La sfida dell’esperienza contrometodologica che non dovremmo perdere è la possibilità di demitizzare la scienza, toglierle i paramenti ideologici e le sovrastrutture, l’aggressività e il dogmatismo miope, e riscoprirla come attività creativa e liberatoria: «L’apparente irrazionalità di molti importanti sviluppi scientifici – scrive Feyerabend – fu dovuta a un’idea inutilmente ristretta di ciò che dev’essere considerato razionale».

Potrei terminare qui la mia breve nota a questo volume, se non fosse che con l’autore di questi saggi abbiamo in comune una professione alla quale ci siamo dedicati con passione; un percorso per me ormai concluso ma per Ignazio ricco di successi passati e di brillanti promesse future. Sarebbe strano se non ne accennassi brevemente per mettere in risalto anche qui le nostre comuni basi di partenza e la varietà delle scelte che abbiamo fatto. Due sono i temi sui quali ci siamo scambiati interrogativi, critiche e consensi.

Il primo riguarda la rappresentazione del mondo atomico e subatomico fornita dalla meccanica quantistica, cioè dalla teoria fondamentale della quale tutti i fisici condividono unanimemente i risultati e le applicazioni, ma che solleva ancora dibattiti all’interno di una ristretta cerchia di specialisti per le sue possibili valenze epistemologiche. Un dibattito che Richard Feynman, uno dei più grandi, e probabilmente il più originale e fantasioso fisico teorico del XX secolo, aveva riassunto, prima di morire prematuramente, con l’affermazione: «È onesto dire che nessuno capisce la meccanica quantistica». In breve, la questione della duplice natura ondulatoria e particellare dei corpuscoli del mondo microfisico è ancora irrisolta. La maggior parte dei fisici la considera un falso problema e forse ha ragione. Abbiamo invece scelto, Licata e io, andando controcorrente, di cercare un’interpretazione realistica della teoria, intesa come un’interpretazione basata sulla premessa che nessuna mente, umana o extraumana, può avere alcuna influenza su ciò che avviene al di fuori di noi su scala atomica e subatomica. Al di là della differenza delle premesse di partenza che abbiamo assunto – da parte mia quella di Richard Feynman sul carattere irriducibile dell’aleatorietà degli eventi a livello quantistico, e da parte di Licata quella di David Bohm dell’ordine implicito del mondo a questo livello – entrambi siamo d’accordo nel mettere in guardia non solo i nostri colleghi fisici, ma i cultori di scienze in generale, dall’attribuire proprietà fisiche concrete e “tangibili” agli enti matematici che introduciamo per rappresentare, in modo sempre e comunque incompleto e parziale, i fenomeni del mondo reale e le loro connessioni. È un errore che si paga caro. Mi limito a ricordare che i fisici, prima di Einstein, si ruppero la testa a lungo per conciliare, senza riuscirci, le proprietà contraddittorie dell’etere, un ente matematico che successivamente la teoria della relatività ha messo in cantina ormai da un secolo.

Questa osservazione mi permette di concludere questa visione a volo d’uccello del pensiero di Ignazio Licata con un cenno al secondo tema del nostro scambio culturale. Si tratta del suo recente libro La logica aperta della mente, nel quale Ignazio propone una teoria della conoscenza centrata sul rapporto dinamico tra la mente e il mondo. È un libro “seminale” in cui i potenti concetti interdisciplinari dell’apertura logica dell’emergenza e della computazione naturale superano le dicotomie e i limiti del modello cibernetico, definendo una gerarchia di complessità dei rapporti tra osservatore e osservato che descrive come la mente costruisce il mondo in un accoppiamento profondo radicato nella natura fisica e biologica dell’attività cognitiva.

Il libro si colloca nella prospettiva di una possibile convergenza concettuale tra scienze cognitive e fisica teorica. Ne è un esempio il concetto di Quantum Brain che propone di costruire un modello della relazione tra la mente e il mondo utilizzando il formalismo della teoria fisica più potente oggi disponibile, la teoria quantistica dei campi. Ebbene, è proprio l’autore a fornire, in un recente scambio di domande e risposte tra noi l’interpretazione autentica di questa convergenza.

Gli scrivevo:

Forse sono troppo legato all’idea tradizionale di una transizione graduale tra mondo microscopico (quantistico) e mondo macroscopico (classico), capisco però che ci possono essere analogie profonde tra il mondo matematico degli stati mentali del sistema biologico del cervello (e della loro dinamica) e quello matematico degli stati quantici degli oggetti fisici quantistici (anzi meglio del campo quantistico).

Se questa mia interpretazione è condivisibile, allora comincio a cogliere il profondo senso del tuo libro. In altri termini capisco che si possa parlare di un “paradigma quantistico della conoscenza”. Tuttavia, vista la diffusa tendenza a scambiare per oggetti reali gli oggetti matematici che parzialmente li rappresentano, non vorrei che qualcuno lo interpretasse come “paradigma quantistico della conoscenza del mondo”. Condivido perciò completamente la conclusione che “il fondamento stesso della conoscenza è il processo stesso della conoscenza”, e le considerazioni che chiudono il libro (in particolare la dura critica alle “Teorie del Tutto”), ma insisterei per parte mia nel mettere in guardia un lettore troppo frettoloso dal dedurre che le stesse “leggi” regolano il comportamento di un elettrone e quello di un cervello umano.

E Ignazio mi ha risposto:

Il Quantum Brain e modelli simili sono soltanto analogie matematiche tra mondi diversi… Esso resta uno strumento formale e per di più poco maneggevole; ignoro se le neuroscienze del futuro utilizzeranno modelli simili, ma tendo a vederli come possibilità matematiche che ci indicano i limiti profondi dell’Intelligenza artificiale e delle reti neurali tradizionali. Il mondo dell’estrema soggettività e dei significati resta “altro”, non per sfiducia programmatica verso la scienza, ma per consapevolezza della complessità autentica in gioco. Non a caso, il libro non si chiude con il Quantum Brain, ma con un paradigma che non va preso come rinnovata forma di riduzionismo omnicomprensivo, ma come un’immagine, spero vivida, della necessità di linguaggi plurali.

Mi piace dunque chiudere questa mia nota riportando la frase con la quale concludevo il mio messaggio:

Caro Ignazio, è possibile, anzi probabile, che queste mie considerazioni siano in parte anche frutto di pregiudizi e lacune. Sono comunque certamente dettate dalla voglia di capire, per quanto posso alla luce del mio bagaglio culturale ormai vecchiotto, la profondità del tuo pensiero e di imparare dalla tua vastissima cultura professionale cose che non conosco abbastanza. Ti sono veramente grato per avermi dato la possibilità, attraverso la lettura e l’approfondimento di questo libro, di continuare, finché posso, a capire cose nuove sul mondo. Con grande affetto e profonda stima, Marcello.

marzo 2010