Se cinquant’anni vi sembran pochi… alluvioni d’Italia

Era il 4 novembre del 1966 quando gran parte dell’Italia si svegliò sotto piogge abbondanti e incessanti e, soprattutto, fu informata dai giornali radio che l’Arno, enormemente ingrossatosi già dal giorno prima, stava allagando Firenze.

Gran parte dell’Italia e anche quelli come me soldati nella Caserma di San Giorgio a Cremano dove ci insegnavano a fare i radiotelegrafisti. Cioè ad ascoltare e a mandare segnali utilizzando l’alfabeto Morse. Oggi sembra una cosa degli anni di Marconi, ma poteva essere utile anche in aree come quella alluvionata. Perché interrottosi il “moderno” modo di comunicare, durante le prime ore dell’alluvione la radio telegrafia riusciva a risolvere i problemi di comunicazione. È anche per questo che per un po’ fui inserito tra i giovani soldati destinati a  partire per Firenze per dare una mano a quelli che dopo qualche giorno Giovanni Grazzini, sul “Corriere della Sera” definì “gli angeli del fango”[1]

angeli[1] “Chi viene anche il più cinico, anche il più torpido, capisce subito […] che d’ora innanzi non sarà più permesso a nessuno fare dei sarcasmi sui giovani beats. Perché questa stessa gioventù […] oggi ha dato, […] , un esempio meraviglioso, spinta dalla gioia di mostrarsi utile, di prestare la propria forza e il proprio entusiasmo per la salvezza di un bene comune”,10 Novembre 1966.

Sono, dunque, passati cinquant’anni e se cinquant’anni vi sembran pochi… No non sono pochi. Anzi, sono tanti da potere modificare anche radicalmente le caratteristiche di luoghi e territori. E di poterlo fare non solo, come purtroppo spesso avviene, imbruttendo il paesaggio ed esponendo a rischio le aree in cui si interviene, ma anche, al contrario, mettendolo in sicurezza il territorio per evitare che le sciagure che vi si sono abbattute si ripetano.
E cinquanta sono gli anni passati da quando in quei primi giorni del novembre 1966, un’eccezionale ondata di maltempo giudicata “uno dei più gravi eventi alluvionali accaduti in Italia” si abbattè sull’intero bacino idrografico dell’Arno allagando drammaticamente Firenze. Né solo Firenze: i fiumi del Veneto, del Friuli, del Polesine strariparono allagando campagne e paesi. Tutta l’Italia, dove più dove meno, fu coinvolta in questo evento.

Un evento certamente di eccezionale portata, ma non casuale dal momento che quasi ogni anno tra ottobre e novembre l’Italia era stata ed è interessata da fenomeni atmosferici di questo tipo. Se la storia, il ricordo degli avvenimenti, insegnassero qualcosa, questo ripetersi di eventi in periodi “prestabiliti” dalla natura porterebbe a classificare quei fenomeni tra le “calamità” prevedibili. E, in quanto tali, in grado di poter essere preventivamente affrontati per limitare sino ad annullare il rischio di danni e, soprattutto, vittime.
Non è così. Non è stato così come attesta la storia dei disastri che annualmente sotto forma di alluvioni, frane e terremoti in modo particolare interessano vaste aree del Paese (la lunga dorsale appenninica soprattutto) e la tiritera delle catastrofi annunciate e che si potevano evitare. Si potrebbe andare in emeroteca e sfogliare le pagine dei quotidiani, anche senza andare molto indietro nel tempo. Bastano, come dicevo, cinquant’anni per apprendere che cosa è accaduto, dove, con quanti morti, con quanti e quali danni e quanto tutto questo è costato in termini economici e sociali.

Basterebbe leggere un paio di volumi (Emanuela Guidoboni e Gianluca Valensise L’Italia dei Disastri. Dati e riflessioni sull’impatto degli eventi naturali 1861-2013 Bononia University Press, e Vincenzo Catenacci, Il dissesto geologico e geoambientale in Italia dal dopoguerra al 1990 in Memorie descrittive della Carta Geologica d’Italia, vol. 47, Roma 1992) per addottorarsi quanto basta. Il cittadino qualunque lo può fare, se vuole, ma gli amministratori della cosa pubblica a qualunque livello territoriale lo devono fare. Devono, cioè addottorarsi per sapere come è fatto il paesino, la città, la metropoli, il Paese che sono stati chiamati a governare.

Ma tant’è – non mi stancherò mai di fare questa citazione – “l’ignoranza del Paese che governano è una caratteristica che gli uomini di governo si tramandano dal Risorgimento in poi”. 
Lo ha detto Italo Calvino e l’ignoranza alla quale si riferisce è quella geografica tanto da indurlo ad auspicare lo studio obbligatorio della Geografia per ministri e sottosegretari.
 Se questa ignoranza fosse colmata esisterebbero ed esistono di fatto, le condizioni per realizzare al meglio la prevenzione dei danni provocati dal disastro.

L’elenco delle cose che si potevano fare e, colpevolmente, sono state trascurate è lungo. E i cinquant’anni ai quali mi riferivo sarebbero e sono abbondantemente sufficienti per provvedere una volta per sempre.
Invece ancora oggi non si ha la certezza di essere intervenuti a sufficienza sullo scolmatore dell’Arno. Su quel canale artificiale, cioè, che dovrebbe “scolmare” l’Arno dell’acqua esuberante dopo precipitazioni particolarmente intense. Il progetto risale al 1954, cinque anni dopo l’alluvione del 1949. Ma nel 1966 il mancato completamento di quell’opera produsse i disastri ben noti nella città di Firenze oltre che a Pisa e Pontedera. E oggi, trattandosi di Firenze si può far ricorso al Magnifico Lorenzo per dire che “del doman non v’è certezza”.

 

Un Paese fragile

I cinquant’anni dall’alluvione del 1966 sono uno spunto per ricordare che il nostro è un paese fragile del quale, amministratori a parte, gli studiosi della materia (geologi, vulcanologi, sismologi…) sanno bene dove e come si devono mettere le mani. Perfino per i terremoti per i quali dopo il 1980 (l’anno – il 23 novembre – del tremendo terremoto che sconvolse Irpinia e Basilicata) è stata costruita una carta precisa della sismicità del Paese che ci dice quali aree sono a rischio sismico; a quale grado di rischio e, questo ce lo ricorda la storia, con quale presumibile periodo di ritorno, cioè di riproposizione del fenomeno. Che si vuole di più per un rischio che è caratterizzato dalla massima imprevedibilità?

Invece no. E ogni più o meno violenta scossa di terremoto ci trova sorpresi e impreparati. Specialmente quando il fenomeno tocca regioni come l’Emilia che se lo erano proprio scordato.
E poiché l’impreparazione provoca vittime e danni materiali, scatta subito, talora con lodevole rapidità, l’opera di assistenza dei superstiti sinistrati e, in più lungo periodo, quella di ricostruzione delle aree distrutte. È quella che ho sempre definito la “politica del rattoppo” che mette pezze, tampona falle, ma non rimuove le cause del disastro che, appunto, è pronto a riproporsi, a far danni e vittime e a richiedere interventi di riparazione.

Il paradosso di tutto questo è che questi interventi fanno crescere il PIL. 
Qualcuno ha detto che l’irrita sentir parlare di crescita del PIL. Mi permetto di dire che questa irritazione è una sciocchezza che prova a far breccia nell’opinione pubblica. Perché il PIL cresce non solo costruendo automobili, frigoriferi, computer, telefonini; non solo con l’aumento dei flussi turistici in alberghi e ristoranti; non solo incrementando la produzione agricola, ma anche costruendo armi e risanando il territorio dopo che il loro uso lo ha distrutto e, quindi, anche l’indomani di una frana, di un terremoto, di un’alluvione… Ma il PIL potrebbe crescere in modo “buono” e per tutti se quella ricchezza che misura fosse prodotta mettendo in sicurezza una volta per sempre il nostro fragile territorio.
 È così che si può porre rimedio.

 

La Campania

Ma che parliamo a fare? Per dire le stesse cose anno dopo anno.
I geologi, innanzitutto, caso mai qualcuno se lo fosse scordato, ci ricordano che in una terra come la nostra (e come il resto d’Italia) la natura, se maltrattata, risponde nel modo in cui sta rispondendo, come avviene ogni anno di questi tempi stagionali.
Qualcuno più avanti negli anni ricorda, oltre le alluvioni di Firenze e Venezia dalle quali siamo partiti per questo “ricordo”, quelle di Benevento (1949), di Salerno (1954), di Sarno e Quindici (1998), ancora di Benevento (2015) e via elencando avvicinandoci ai giorni nostri e sempre tra ottobre e novembre.

Che vuol dire? Che è autunno; in questo periodo piove; quando la pioggia è più abbondante fiumi e torrenti si ingrossano e portano più acqua i torrenti nei fiumi e i fiumi nel mare.
Questo secondo le regole della natura.
Poi, però, vi sono le sregolate regole umane. Quelle che hanno irreggimentato il corso di torrenti e fiumi in alvei innaturali e li hanno indirizzati in mezzo ad una selva di costruzioni che sottraggono suolo alla campagna dove qualche corso d’acqua più esuberante tenderebbe ad espandersi se ne trovasse la possibilità. Quando questa naturale possibilità non la trova esonda per le strade, nelle cantine e travolge tutto quello che trova lungo la strada.

È così che vanno le cose anno dopo anno. E, come dicevo, una spolverata ai quotidiani in emeroteca consente agevolmente di ricostruire la storia. La storia che, ci hanno insegnato sin dai primi livelli scolastici, è magistra vitae, ma che, in realtà non insegna proprio niente: certamente a chi non sa o non  vuole imparare.
Per esempio per sapere che dal 1989 con il varo della legge n. 183 così come era avvenuto per il rischio sismico l’indomani del terremoto del 1980, si è provveduto ad individuare e perimetrare le aree a rischio idrogeologico e ad individuare le misure di salvaguardia di persone e beni materiali e i programmi di interventi urgenti per la riduzione di questo rischio. L’analisi ha consentito di individuare e perimetrare 11.468 aree a rischio idrogeologico molto elevato che interessano il territorio di 2.875 comuni (oltre un quarto dei comuni italiani) in tutte le regioni. Ai primi tre posti sono la Valle d’Aosta con il 20% del territorio esposto a rischio, la Campania con il 16,5% e l’Emilia Romagna con il 14,5% del territorio.

La Campania, molto più popolosa e densamente popolata della Val d’Aosta, è al secondo posto, ma non basta. Perché, come sappiamo e ci ha ricordato anche Di Gennaro, ci sono pure i terremoti e le eruzioni vulcaniche. Con una non trascurabile differenza nella ricerca delle responsabilità. Ed è che di terremoti ed eruzioni sappiamo che “certus an incertus quando”, mentre per alluvioni e frane certus est se e quando. Voglio dire, tornando a parlare la lingua più ricorrente, che nel primo caso sappiamo con certezza che quei fenomeni si verificheranno, ma non abbiamo certezze sul quando. Nel secondo caso la certezza è sia sul verificarsi, sia sul quando, annualmente, ciò avviene.
Che significa saperlo? Semplicemente che esistono il dovere e la possibilità di prevenire una volta per tutte, vittime e danni materiali l’indomani di ogni pioggia più intensa del solito. Una prevenzione, fra l’altro, che comporta investimenti e gente che lavori per dare sicurezza e vivibilità ad un territorio nel quale risiedono sei milioni di persone.