Interviste sul futuro del Mezzogiorno

Prosegue la pubblicazione delle interviste sul Futuro del Mezzogiorno svolte nei mesi scorsi dal Centro studi di Città della Scienza

Nilla Romano, insegnante dell’Istituto comprensivo Bovio-Colletta di Napoli

 

Tutto intorno a noi sta cambiando in maniera rapida: il mondo, l’Europa, il Mediterraneo, la stessa Italia. Lei è insegnante in una scuola, come si dice, “di frontiera”: un istituto comprensivo nel centro di Napoli, come le appare il futuro del Mezzogiorno dal suo luogo di lavoro?

Oggi siamo in una fase di instabilità globale, nel senso che veniamo da tanti anni di crisi economica globale e di instabilità legata a guerra e terrorismo, e soprattutto alla politica di destabilizzazione dei paesi del Mediterraneo – Libia, Siria, Iraq – con scompensi che si sono riversati sulla nostra Europa. Europa, che a sua volta, vive una fase di crisi profonda, perché l’idea di un’Europa connotata dalla partecipazione democratica è sempre più contraddetta dall’Europa dei vincoli e del liberismo, delle politiche che sgretolano il sistema pubblico dei singoli paesi che abbiamo conosciuto in questi anni. Di conseguenza anche in Italia, nel nostro Mezzogiorno, in un contesto così difficile, delicato e instabile, in cui sono cresciute esponenzialmente le diseguaglianze, c’è un divario abbastanza profondo nonostante le iniziative positive che pure si producono. Quindi il futuro è molto complicato, non sono una pessimista, ma lo vedo molto complicato. Dunque è necessario che ciascuno nel Mezzogiorno faccia il suo dovere fino in fondo per reggere questa fase così difficile.

 

La sua, è una scuola multietnica in una zona “complessa”, come vede le dinamiche demografiche, a partire dai processi di emigrazione e di immigrazione in atto.

Come dicevo, noi viviamo una fase di guerra e di crisi e siamo in una posizione strategica del Mediterraneo, e quindi siamo attraversati dalle correnti migratorie provenienti dal Medio Oriente e dall’Africa che sono la cifra di una destabilizzazione mondiale che in gran parte ha la sua origine nell’Occidente. Avendo noi prodotto catastrofi umanitarie in tutto il mondo, soprattutto con le ultime guerre, avremo il problema, anche nel medio periodo, di dovere e sapere accogliere queste ondate migratorie, saperle includere respingendo le spinte razziste e xenofobe presenti in Europa, in Italia e anche nel nostro Mezzogiorno.
L’immigrazione ci raggiunge ma solo in alcuni casi diviene stanziale, a seconda se trova lavoro oppure no. Chi riesce a trovare un lavoro, lo trova in alcuni settori come quello agricolo o nei servizi, spesso andando ad ingrossare le fila del lavoro nero, la maggior parte si dirige verso realtà economiche più strutturate, nel nord Italia o nel resto dell’Europa, e quindi siamo un luogo di passaggio.
Dall’altro lato abbiamo la “fuga dei cervelli”, dei giovani, ed è un fenomeno che dura da più generazioni perché  non si investe nella ricerca di base, non si investe nell’innovazione e c’è una forte deindustrializzazione e deperimento del sistema produttivo:  non ci sono occasioni di lavoro e, quindi, i ragazzi, sia quelli formati e con titoli di studio universitari o postuniversitari, sia quelli meno scolarizzati non trovano occasioni di lavoro e si registrano percentuali alte di emigrazione dei nostri giovani.

 

Come vede, a questo punto il futuro della stessa società meridionale? Magari a iniziare da questioni fondamentali come la salute e il welfare sanitario?

E’ incredibile la maniera in cui il diritto alla salute non sia garantito nel Mezzogiorno. Abbiamo centri di eccellenza, abbiamo anche dei medici molto bravi però non abbiamo un sistema efficiente. Innanzitutto, la sanità regionale crea molti problemi, perché grava il bilancio delle Regioni e fa sì che esse si occupino prevalentemente di contabilità mentre la salute è un diritto che dovrebbe essere garantito dallo Stato, cioè ci dovrebbero essere degli standard uguali per tutti ovunque e il servizio dovrebbe essere gestito nazionalmente. Nel breve e medio periodo ritengo che questa situazione continuerà a persistere, perché c’è una negazione dei diritti ed è diffusissimo il fatto che il diritto alla salute sia considerato in termini di “favore”, cioè esiste una pratica costante e continua di chiamare gli amici per avere una visita medica in breve tempo, per avere un certo esame senza dover attendere a lungo, per essere sicuro della qualità del medico da cui ci si fa visitare. Questo è molto grave perché attiene a diritti fondamentali e credo sia una priorità risolvere questi problemi, ma credo non avverrà nel breve e medio periodo.

 

E il mondo del lavoro? Le questioni dell’occupazione, il lavoro flessibile, la disoccupazione?

Lo stesso credo valga per il lavoro. La Campania è deindustrializzata, ma se io penso alla Calabria, per esempio, c’è un vero e proprio deserto. Forse negli ultimi anni in Puglia ci sono state delle iniziative positive in termini di occupazione, però per quanto riguarda gli strumenti nuovi di lavoro flessibile – come il job act – in sostanza si è diffusa la precarizzazione. Cioè non ci sono più occasioni di lavoro strutturato ma c’è un lavoro destrutturato, frantumato, precario.
È ovvio che adesso nella percezione dei ragazzi nel Sud non c’è proprio nessuna speranza. Quelli che vanno fuori non è che in altri paesi europei trovino il paese della cuccagna, però almeno si sentono in un contesto dinamico, in cui si possono misurare, in cui possono trovare delle occasioni di lavoro e crescita sociale. Purtroppo nel Mezzogiorno non vedo questa dinamicità, a fronte anche di situazioni positive. Per esempio, io vedo che nelle campagne ci sono tantissime occasioni di lavoro, determinate dal fatto che molti si stanno industriando a valorizzare le risorse del territorio, a valorizzare le produzioni di qualità … e questo vale anche per persone che conosco. Si stanno diffondendo anche competenze che possono essere utilizzato nel campo agricolo e della qualità dei prodotti.
Questo è un esempio, ce ne sono tanti altri in cui ci si sforza di costruire occasioni imprenditoriali, però sono fuori da un quadro di politica nazionale che guardi al  Mezzogiorno, che cerchi di costruire dei piani pubblici di investimento. Ma se non c’è una pianificazione queste iniziative, che sono comunque positive perché non cedono il passo alla rassegnazione, non avranno nel medio periodo una ricaduta in termini di crescita strutturale dell’occupazione.

 

Continuiamo il discorso sulla società e l’integrazione. Quale sarà la condizione delle donne, dei giovani, degli anziani?

Per quanto riguarda gli aspetti più generali e il ruolo di alcuni soggetti, io vedo una società molto sfilacciata in cui le politiche di integrazione e di inclusione sono molto deboli.
Per esempio dal mio osservatorio, in un quartiere grande come questo, come presidio territoriale di inclusione, di costruzione di comunità è rimasta quasi solo la scuola. Anche il Comune con i suoi servizi sociali cerca di fare la sua parte, ma sono insufficienti  a causa di  questa politica di bilancio del governo, che taglia risorse e strozza gli Enti locali, che a loro volta non hanno fondi per attuare concretamente politiche di inclusione. Vedo un’ulteriore frammentazione sociale.
In città come questa, nelle grandi aree metropolitane in cui c’è una forte immigrazione – anche se non siamo alle percentuali del Nord – che secondo me crescerà, c’è bisogno non tanto di fornire a queste persone lavori e servizi precari, ma di fare un salto di qualità nelle politiche dell’inclusione, nel senso di far sì che per queste persone riusciamo a produrre anche dei servizi avanzati così come per tutti.
Per le donne mi sembra che siamo tornati a prima dell’ottocento. Innanzitutto c’è un ritorno a casa generalizzato perché ci sono pochissime occasioni di lavoro e quelle che ci sono, sono assolutamente precarie. Nei quartieri popolari di Napoli e delle grandi aree urbane del Mezzogiorno, tra le donne a bassa scolarizzazione, c’è un destino che è quello di molto prima del femminismo: la cura della casa, il marito… e basta, non c’è nessun futuro. Lasciamo perdere le donne istruite che hanno delle opportunità; le donne a bassa scolarizzazione, quelle che io vedo in questo quartiere, il massimo della prospettiva che hanno è il lavoro domestico, in competizione con le straniere, oppure fare le estetiste o le parrucchiere a domicilio in nero, e poco altro. E questo nel 2016 per me è terribile perché credo che le donne della mia generazione, anche vivendo già i morsi della crisi, aveva una proiezione sul futuro molto più positiva di quella che hanno le donne delle nuove generazioni in questo contesto, e non vedo miglioramenti nel breve periodo.

Per quanto riguarda gli anziani e i giovani il punto è sempre lo stesso, nel senso che noi avremmo bisogno di servizi qualitativamente alti oltre che molto diffusi. Avremmo bisogno di una rete sociale capillare. In una città come Napoli ci sono stati tempi in cui si è tentato di fare questo però abbiamo anche sperimentato che senza una politica nazionale, senza investimenti, senza nessuno che se ne occupi – perché il governo nazionale sembra molto distante da questi territori – non ci sono amministratori locali che tengano nel gestire questa complessità di bisogni sociali, e quindi credo che soltanto in un periodo medio-lungo potremmo riuscire a invertire un po’ la tendenza, ma è complicato.
Prima, per fare un esempio concreto, c’erano i nonni civici, non ci sono più perché non ci sono fondi. Ancora un altro esempio: noi lavoriamo stabilmente l’Auser e negli anni scorsi usufruivano del servizio dei pony della solidarietà organizzato dal Comune di Napoli, ora i fondi non ci sono più e si chiude il servizio. Sono piccoli esempi per dire che c’è molto bisogno sociale e occorrono servizi, ma per i servizi occorrono fondi che non ci sono e questo io lo attribuisco sempre a delle politiche nazionali e anche sovranazionali che determinano conseguenze gravi nella vita di tutti i giorni di donne, giovani e bambini.

Questa dovrebbe essere la città dell’infanzia e Bassolino, da Sindaco, aveva tematizzato questa questione, ed in modo interessante, perché prevedeva una politica strutturale, a rete, che investiva sull’infanzia dagli zero ai 10-15 anni. Perché per una citta del Mezzogiorno come questa l’infanzia è il futuro. E nonostante tutto io continuo a credere in questo il futuro, ma la città del futuro la costruisci se ci investi. Il Comune ha fatto molte cose, ma in assenza di investimenti e di una politica che coinvolgesse tutte le istituzioni, locali e nazionali: questo è il nodo. Noi fronteggiamo il giorno per giorno, fronteggiamo questa sfilacciatura sociale e tentiamo di fare rete con tutti: Comune, ASL, la Chiesa, le cooperative sociali. Cerchiamo di attivare tutte le risorse che ci sono sul territorio, però è faticoso perché in una città come Napoli è faticoso per tutti perché non c’è una regia e non ci sono fondi che questa regia possa investire.

 

In questo scenario, come percepisce il problema della criminalità, sia quella comune che quella organizzata, e il tema più generale della sicurezza?

Le politiche nazionali sulla sicurezza sono sempre insufficienti perché se parliamo di polizia, così come se parliamo di insegnanti, così come se parliamo di giudici e del personale amministrativo nelle procure, non ci sono fondi e quindi non c’è abbastanza personale,  non ci sono le risorse umane per poter combattere la criminalità organizzata. Questa è una critica generale la cui fondatezza però si può riscontrare nella vita di tutti i giorni. Detto questo, come cittadina ho avuto esperienze personali che mi hanno fatto riscontrare che la polizia, in questo quartiere, c’è ed è presente anche in termini investigativi. Soprattutto ho avuto la sensazione, quando abbiamo incontrato il questore, che c’è una visione strategica del crimine e della criminalità organizzata e che c’è la consapevolezza che la militarizzazione del territorio non serve, se non a garantire in alcuni punti la sicurezza “ordinaria” e far si che le strade della città possano essere normali. Il problema vero però è che la criminalità si combatte con politiche del lavoro e con un investimento sulla formazione e sulla scuola.

Penso che da questo punto di vista siamo gli unici presidii, non è che possiamo durare all’infinito perché passano gli anni e queste politiche che si riversano sulle scuole e sugli altri settori della società, sfiancano, ci si stanca, come si dice, a far sempre le nozze con i fichi secchi, ci si logora e le persone a un certo punto si sfiduciano, non vedono riconosciuto il proprio lavoro e pensano che non cambierà mai nulla. E questo è il problema principale: se tu vuoi sottrarre forze alla criminalità organizzata devi garantire strumenti lavorativi, un reddito minimo, che le scuole funzionino e siano un presidio sociale, che stiano aperte il più a lungo possibile ma con progetti di qualità che creino un’aggregazione positiva di cittadinanza, perché aggregare per aggregare non serve a niente, anzi spesso si determina una guerra tra poveri tra le associazioni per accaparrarsi i pochi fondi che ci sono. Per me questa è la sicurezza: la sicurezza sociale. E soltanto questa ci garantisce, perché io – come tanti insegnanti – non posso faticosamente operare nella scuola dell’obbligo per 5-8 anni, e anche di più perché spesso partiamo dalla scuola per l’infanzia, per dare a questi ragazzi occasioni diverse, per dargli delle competenze e anche a insegnargli – detto semplicemente – la distinzione del bene e del male che si perde spesso di vista nella complessità della società, per poi ritrovare dei ragazzi che finiscono male o trovarmi nel mezzo di guerre di quartiere tra baby killer che sono tutti passati dalla mia scuola. Sono contentissima quando vedo che trovano un lavoro – anche il più umile – oppure che addirittura arrivano all’università ma, per esempio, l’altro giorno ho saputo che uno dei miei alunni è finito agli arresti domiciliari. Queste cose sfiancano. Se questi ragazzi escono dalla scuola e non trovano altre occasioni di inserimento, una rete che li orienti verso il lavoro e la cittadinanza tutto diviene inutile. Noi continueremo a esserci e a fare quello che facciamo, ci saranno sempre sacche meritorie di resistenza,  ma sono resistenze di nicchia che non cambieranno il quadro strutturale delle città del Mezzogiorno.

 

Quale sviluppo si aspetta per l’economia del Mezzogiorno, anche in relazione alle frontiere della nuova industria 4.0 e alla ripresa che sembra attraversare il settore turistico?

Circa l’industria non faccio molte distinzioni, non ne ho le competenze. So solo che accanto a iniziative innovative – penso ad esempio al polo aerospaziale nella nostra Regione –  ci sono però pochi investimenti e quindi le attività positive, che esistono, non hanno attorno un tessuto che ne favorisca lo sviluppo e le aiuti a creare occupazione stabile. In tutte le Regioni meridionali c’è una forte deindustrializzazione ma non conoscendo i dati non voglio intervenire nel merito.
Per quanto riguarda il turismo, soprattutto nel centro storico di Napoli, mi rendo conto come cittadina ed insegnante  che c’è una certa fibrillazione turistica e intorno a questa fibrillazione turistica stanno sorgendo nuove iniziative, nuovi negozi e anche nuove iniziative culturali, anche di valorizzazione di monumenti e di sedi storiche. Come se ora si fossero innescati dei processi di identificazione della città nella sua storia.

La scuola da anni fa la sua parte con alcuni progetti, e vedo che si sta affermando un turismo di qualità che però fa anche grandi numeri, e questo è importantissimo per la città. Anche se con il turismo non risolviamo il problema dell’occupazione si tratta di un settore che va messo a sistema, perché abbiamo tutte le risorse storiche, archeologiche, ambientali, di cui abbiamo bisogno. C’è bisogno di maggiore organizzazione, di fare rete e di più personale. Non è possibile tenere chiuso l’anfiteatro di Pozzuoli, che è tra i primi d’Italia, perché non c’è personale. Se noi riuscissimo a ottenere finanziamenti e fondi per riorganizzare questo settore e migliorare anche altri aspetti collaterali come i trasporti potremmo ottenere ottimi risultati. Noi, ad esempio, abbiamo la ferrovia circumvesuviana che era una sorta di gioiellino che è andata in crisi, ed ha un valore strategico per il turismo perché collega Napoli con Pompei, con Sorrento, cioè con delle eccellenze turistiche. I turisti che vengono a Napoli trovano delle attività rivitalizzate, ad esempio nell’artigianato o nell’agroalimentare con prodotti di qualità legati alla valorizzazione del territorio e delle produzioni locali, con buoni circuiti enogastronomici. Su questo quindi, sul medio periodo, sono molto ottimista, soprattutto se si riesce a mettere a sistema tutto questo a livello di infrastrutture.

 

 Cosa prevede in termini di infrastrutture, da quelle tradizionali fino a quelle telematiche?

Credo che gli aeroporti meridionali un po’ si stiano risistemando, a partire da quello di Napoli, e stiano intercettando nuovi flussi turistici quindi su questo sono o ottimista.
Per quanto riguarda la rete ferroviaria tra noi e la Puglia esiste quasi una cesura che non ci fa raggiungere città del Mezzogiorno che in auto si raggiungono in poche ore, e questa è una cosa scandalosa. Così come per la Sicilia: attraversi lo stretto abbastanza facilmente e in poco tempo, una volta sull’isola c’è un sistema ferroviario assolutamente insufficiente, quasi tutto il trasporto si svolge su gomma. A me pare allucinante, è allucinante che si pensi al ponte sullo stretto e non alla ferrovia diffusa nelle regioni meridionali.
Per le strade, al netto della Salerno-Reggio Calabria, sono moderatamente ottimista.
Si fa un gran parlare, poi, di banda larga ma questa raggiunge solo il centro delle città e non le zone periferiche e temo che ci vogliano ancora molti anni per realizzare un’infrastruttura telematica diffusa in  tutto il Paese e in tutto il Mezzogiorno.

 

Cosa pensa accadrà al territorio e al nostro mare, e in relazione al rischio sismico e idrogeologico?

Rispetto a un tempo in cui le coste meridionali venivano cementificati e basta, oggi sono più ottimista perché credo che molte località della Campania abbiano capito una cosa a importante, cioè che curare il mare, le coste e il paesaggio ha un valore economico. Alcuni soggetti più intelligenti, amministratori locali o alcuni privati, si rendono conto di questo ma ovviamente non è un assetto generalizzato sul territorio, però in alcuni punti sta succedendo perché è impossibile oggi cementificare come una volta e pensare i grandi insediamenti di un tempo, devastanti per l’ambiente.
Questo avviene per esempio nel Cilento o in penisola sorrentina e sulla costiera amalfitana, ma non ovunque. Dovrebbe  avvenire di più anche in altre zone, però su questo credo che si possa avere una percentuale minima di ottimismo sul medio e lungo periodo, perché appunto il paesaggio sta diventando una risorsa.
Al mare attengono molte questioni. Da un lato parte dei territori che si affacciano sul mare tenderanno a proteggerlo, però il mare, inteso anche come Mar Mediterraneo, accoglie un po’ di tutto, a cominciare dagli sversamenti per esempio. Per quanto riguarda il sistema fognario e di depurazione delle acque nel Mezzogiorno non siamo messi molto bene e questa è una grave fonte di inquinamento. Su questo non sono molto ottimista: conosco piccoli tratti di costa con sversamenti che richiederebbero interventi che non si fanno da 20 o 30 anni.
Sui rischi idrogeologici sono assolutamente pessimista perché, non solo la Campania ma tutta Italia, è perennemente a rischio idrogeologico e non ci sono grandi opere di messa in sicurezza. Credo che questo poi sarebbe uno dei settori in cui investendo ci sarebbero moltissime occasioni di lavoro. Esiste una grande questione nazionale, non solo meridionale, di messa in sicurezza del territorio.
A proposito del rischio sismico e vulcanologico mi fanno ridere i nostri piani di evacuazione, e non voglio dire altro.

 

Lei lavora nella principale agenzia formativa della nostra società: la scuola pubblica, come vede gli scenari culturali del futuro in termini di educazione (scuola, università), ricerca scientifica, ricerca umanistica, arte, beni culturali?

Secondo me siamo in un grande contesto nazionale di dismissione della cultura e della formazione, perché è in atto un vero e proprio processo di “aziendalizzazione” della formazione e anche un grande processo di impoverimento democratico, in cui i processi economici sempre di più stanno determinando una funzionalizzazione delle istituzioni democratiche alle grandi multinazionali e ai grandi soggetti economici.
Questo sta avvenendo in maniera sempre più concreta, plasticamente visibile, e quindi il nostro sistema formativo viene piegato a delle logiche ad esso estranee, e con l’ultima legge 107 questo diviene un po’ sistema, mentre la scuola dovrebbe restare una comunità educante e anche, e soprattutto, un luogo in cui sia possibile formare cittadini che abbiano gli strumenti critici d’interpretazione della realtà. Con le politiche attuali proprio questo è messo in discussione, cioè la formazione del cittadino, la formazione di persone che siano in grado, con i propri strumenti critici, di interpretare la realtà, di decidere. E’ questo soggetto consapevole, questi uomini e donne consapevoli che in qualche modo si vogliono limitare.

Questo perché le nuove leggi creano innanzitutto nuovi tagli, eliminano processi partecipativi nella scuola e tutti gli organi collegiali vengono ripensati; in particolare si introducono logiche concorrenziali tra scuole e all’interno della scuola e soprattutto si trasferiscono, verso figure come i dirigenti scolastici, dei poteri  e delle funzioni – che riguardano non solo la chiamata diretta dei docenti, e siamo in una fase convulsa di applicazione di questa legge –  da dirigente d’azienda piuttosto che da leader educativo.
E gli ostacoli che esistono nell’applicare questa riforma sono propri della vita della scuola, dei processi formativi. Noi interagiamo con delle persone in formazione, promuoviamo dei processi, non siamo un sistema meccanico di produzione di competenze o abilità, e quindi il nostro è un lavoro complesso, che abbraccia più dimensioni e comprende più livelli di relazione con gli alunni dentro e fuori la scuola.
La scuola è una comunità orizzontale e non funziona introdurre una verticalizzazione delle decisioni e una torsione di queste verso figure che si vogliono più autoritarie, e non funziona neanche creare una competizione tra alunni senza tener conto che c’è chi parte da condizioni svantaggiate. Negli ultimi tempi ci sono logiche estranee alla scuola che si scontrano con la vita quotidiana della scuola stessa, e in questo momento si stanno producendo secondo me dei processi strani; da un lato c’è sfiducia ma dall’altro c’è un corpo docenti che tiene botta e porta avanti quello per cui è stato formato: l’insegnamento in una comunità orizzontale che si confronta e che tiene conto delle esigenze degli alunni cercando tutti gli strumenti e le strategie per far fronte alle difficoltà, che è il contrario del tagliare, tagliare, tagliare.

Si vogliono imporre tempi e ritmi che non sono della scuola, seguendo i quali gli alunni vengono considerati persone che possono, “naturalmente”, rimanere indietro. Per non parlare di quanto sta avvenendo nella scuola secondaria dove si tenta di indirizzare gli alunni verso sistemi di formazione professionale molto discutibili, tesi a immetterli direttamente nel mercato del lavoro senza fornirgli tutto il necessario in termini di cittadinanza e di possibilità reale di scelta.
Sull’Università e la ricerca ne so meno, ma mi pare che anche qui ci sia un problema: i giovani se ne vanno, vengono formati e poi vanno via. Nell’Università con la riforma del tre più due si sono avuti effetti devastanti.
Credo che nel nostro sistema formativo esista comunque un tessuto, che si è costruito in decenni, che tiene e che se verrà sostenuto riuscirà a contrastare i processi che introducono nella scuola logiche ad essa estranee.

 

Veniamo, infine, alla dimensione politica. Come pensa si svilupperà in termini di democrazia, di partecipazione, di coesione territoriale, come verrà declinato il regionalismo, che ne sarà dei partiti politici e che ruolo avranno i movimenti nel Mezzogiorno d’Italia?

Io credo molto nella politica come strumento di liberazione ed emancipazione delle persone, per me questo è un dato ineliminabile. Però ciò deve fare i conti con lo svuotamento della democrazia, della partecipazione e degli strumenti della politica, a partire dai partiti politici, che è avvenuto in questi anni. Bisogna tener presente la crisi dei grandi partiti tradizionali, che erano essi stessi uno strumento di coesione nazionale, di coesione territoriale e che quindi hanno fatto sì che il Mezzogiorno potesse essere sempre dentro un discorso nazionale. I partiti ed i sindacati hanno svolto questa grande funzione democratica di partecipazione e anche di tentativo costante di eliminare il divario tra Sud e Nord.

Oggi i partiti, come strumento nazionale e generale, sono molto deboli; svolgono ancora una funzione, ma anche loro sono dentro un processo, che è anche sovranazionale, di compressione della democrazia e di accentramento di poteri agli esecutivi; Renzi, ad esempio, in Italia interpreta molto bene questo ruolo. Di conseguenza vedo un futuro molto grigio e triste per i partiti nel Mezzogiorno.
C’è un tessuto, che in parte comunque gravita attorno ai partiti, che è abbastanza presente però appunto sono fenomeni separati, che in alcuni momenti storici trovano un punto di catalizzazione e in altri invece no. Credo permanga in Italia e nel Mezzogiorno un tessuto civile e che sia comunque una risorsa per il futuro, il problema è che poi non riesce a trovare una rappresentanza politica forte, strutturata. Insomma, per dirla con Gramsci, c’è il pessimismo della ragione ma anche l’ottimismo della volontà: le diseguaglianze si riproducono e non posso non pensare che le persone reagiscano trovando altri strumenti di partecipazione. Adesso c’è crisi e frantumazione degli strumenti politici e di emancipazione ma sono comunque fiduciosa nel fatto che il tessuto associativo e politico che c’è, i movimenti, pezzi di partiti politici e associazioni siano comunque una risorsa per il futuro del Mezzogiorno.

 

Tiriamo le somme e tentiamo di proporre un quadro sintetico finale: secondo lei il futuro del Mezzogiorno sarà di bellezza o di degrado? Di Progresso o di stagnazione?

Considerando tutti gli aspetti, positivi e negativi, comunque credo che il futuro del Mezzogiorno per il medio periodo sia ancora dentro un quadro di stagnazione, ma anche di bellezza.