Programmare lo sviluppo

Programmare lo sviluppo

Poiché in questi ultimi trimestri la variazione del nostro Pil non ha più il segno negativo, qualcuno ha pensato di poter affermare che siamo usciti  dalla crisi.

In una economia come quella del nostro Paese, compresa  in un  sistema  di accordi  quali  quelli  che danno  luogo all’Unione europea, oltre che alle ovvie connessioni con l’economia internazionale, affermare che un segno positivo davanti al valore della variazione del Pil possa significare un andamento positivo di quella economia, è, in maniere evidente, una approssimazione molto vicina all’invenzione. Su questa questione ci si è già soffermati varie volte[1]. Queste forzature  non sono certo sufficienti per evitare  di dover concludere, come fa Pietro Greco nel suo intervento. che ”l’Italia è in declino” e che “trovare la giusta terapia dipende dalla bontà della diagnosi”[2] C’è, quindi, la concreta possibilità che a quella “invenzione” corrisponda una diagnosi errata ma, quel che è più grave, una terapia negativa che quindi dovrebbe essere rapidamente corretta.

A questo fine Pietro Greco disegna in quel suo intervento un programma in quindici punti, ispirato alle considerazioni di Vannevar Bush, che come consigliere del presidente USA F. D. Roosevelt, aveva nel 1945 delineato una strategia di sviluppo post bellica basata sull’economia della conoscenza.

Poiché, come ci ricorda Pietro Greco, la ricetta di Bush “è ancora applicabile” rinviamo, per le questioni di contenuto, a quel lavoro, spostando la nostra attenzione su un interrogativo e cioè sul come mai nel nostro Paese quella ricetta non solo resta di fatto ignorata ma, anzi, viene praticata all’incontrario sino al punto di considerare la spesa pubblica in Ricerca un onere da ridurre con provvedimenti vari – dal turnover del personale, ai vincoli di bilancio nella sostituzione dei pensionati, ai blocchi contrattuali, ecc. – ma tutti convergenti verso questo obiettivo. Poiché i risultati sono noti, si può convenire con Greco allorquando conclude con l’invito alla sinistra a farla propria aggiungendo qualche ingrediente, se vuole che la crescita della ricchezza sia accompagnata da una maggiore sostenibilità sociale ed ecologica. Lo scenario che sembra emergere da queste prime osservazioni sembra corrispondere, da un lato all’esistenza di una realtà politica di destra che professa la taumatologia del mercato, con qualche variante “populista”  per ovvi motivi elettorali e, dall’altro ad una sinistra non solo priva di una sua proposta di governo, ma anche tale da non essere in grado – con le opportune eccezioni – di sviluppare il potenziale economico, sociale e politico di una economia della conoscenza già espressa dal sistema capitalistico sin dagli anni ’40.

Si aprono, a questo punto, una serie di questioni che verranno qui di seguito solo accennate poiché ognuna di queste merita una analisi e una riflessione specifica, per essere poi ricondotte alla questione generale del ritardo di elaborazione da parte della sinistra. Un ritardo che nel caso dello sviluppo tecnologico rischia di emarginarla da ogni possibile ruolo politico, non essendo possibile affrontare le logiche negative dello sviluppo tecnologico con le politiche della conservazione; anche perché il conseguente ritardo si coniuga strettamente con quello sul versante dell’analisi sociale, con una visione del “proletario” immutabile e conservatore, come se al di fuori di quella visione ci possa essere solo una concezione “capitalistica”, mentre è vero esattamente il contrario. Un ritardo che nel nostro paese assume delle dimensioni tali da concorrere, non a caso, alla sua collocazione sul fondo delle classifiche dei paesi sviluppati e ai margini della dinamica dello sviluppo. L’andamento del numero degli addetti alla ricerca nel settore industriale (Grafico 1) riassume questa nostra situazione in termini tali da rendere evidente le difficoltà se non l’impossibilità di un recupero basato sulla capacità del sistema produttivo privato e senza uno specifico intervento del livello pubblico.

grafico1

Come si nota dall’andamento di questo grafico, nel momento che per cause internazionali – moltiplicazione dei prezzi petroliferi – si determina la necessità di una scelta in materia di utilizzo delle conoscenze scientifiche ai fini dello sviluppo, il nostro paese compie una scelta differente, di conservazione della struttura produttiva preesistente: mentre gli altri paesi sviluppano una compensazione della bilancia commerciale accentuando la competitività tecnologica (Grafico 2). Nel nostro caso il divario, già preesistente, sulla bilancia commerciale in materia di prodotti ad alta tecnologia, si pensa di compensarlo  con  lo strumento  della  svalutazione  della lira, sino  al momento che anche questo viene a mancare con l’avvento dell’unione monetaria europea e, quindi, con una accentuazione del nostro divario di sviluppo (Grafico 3).

grafico2

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Nel frattempo è opportuno aggiungere ai 15 punti ricordati da P. Greco, una situazione che è ormai tale da incidere grandemente sulle problematiche dello sviluppo e sulle politiche economiche e sociali conseguenti. Si tratta di una condizione operativa che deve annoverare tra gli strumenti d’intervento in materia di politica economica, l’esistenza e lo sviluppo di un nuovo “strumento”: la programmazione dell’innovazione[3], cioè la capacità di realizzare nuovi prodotti/processi scelti e valutati a tavolino sapendo che il cumulo delle conoscenze scientifiche e tecnologiche sarà tale da consentirne la realizzazione. Uno strumento che presuppone l’esistenza non solo di un Sistema Nazionale dell’Innovazione, ma di una capacità analitica e di studio in grado di articolare le valutazioni e le partecipazioni.  Una operazione che mette in evidenza, tra l’altro, la questione del controllo sociale dello sviluppo tecnologico in base non solo a valutazioni d’interesse economico generale ma anche dei rischi di varia natura altrimenti difficilmente evitabili se quel potenziale innovativo viene lasciato libero di manifestarsi senza una valutazione e un controllo sociale.

A questo punto è opportuno esaminare la plurisecolare visione dei valori dell’eguaglianza e della libertà come capisaldi di una visione di sinistra dal momento che quel nuovo “strumento”  non solo può mettere in discussione quei valori ma, ed è un aspetto essenziale, il loro sviluppo e la loro realizzazione. L’azione di promozione di questi due capisaldi, ha avuto, come è noto, varie versioni ma, in generale delle componenti della discriminazione, si è sviluppata, per motivi comprensibili, essenzialmente l’intervento sulle condizioni economiche della classe operaia, piuttosto che quelle relative all’articolazione dei ruoli sociali. Sulle condizioni economiche di “vendita” del lavoro si è concentrata l’azione della sinistra e del sindacato trovando margini anche nella logica del saggio di profitto per cui dovendo accrescerlo o anche solo conservarlo, il capitale doveva, alle volte, affrontare la crescita quantitativa ma anche qualitativa del cosi detto proletariato.

Non è certo questa l’occasione per percorrere questa storia plurisecolare, se non per evidenziare come la sinistra non abbia potuto incidere, se non raramente, sulle scelte produttive ma piuttosto si sia spesa per accrescere le condizioni economiche di quel proletariato, sino alle situazioni attuali che, insieme alla fruizione dello stato sociale – dall’istruzione alla pensione – e alle conseguenti  modificazioni della domanda, ne hanno avvicinato le condizioni a quelle del ceto medio. Questo a sua volta è stato coinvolto nelle logiche dello sviluppo capitalistico e nella conservazione del saggio di profitto  per cui attualmente le condizione economiche dei membri della classe operaia si confondono con molte di quelle degli appartenenti a questo ceto medio. Per entrambi resta valida la condizione sociale subalterna per cui c’è un ceto capitalistico e imprenditoriale al quale viene assegnato il compito di “comandare” e un ceto subalterno, non solo sul piano della distribuzione della ricchezza prodotta, ma anche sulle logiche stesse dell’ubbidire in termini “del se lavorare, del come lavorare e del cosa fare”.

Sino a quando la dimensione economica della condizione operaia era tale da dover essere affrontata  prioritariamente, questa “dimenticanza” delle differenze nei ruolo sociali era più che comprensibile, anche perché la soluzione radicale di questo problema consistente nella proprietà pubblica dei mezzi di produzione non lo aveva affatto risolto. È, quindi, comprensibile che con il cambiamento della domanda e delle condizioni economiche, quei vincoli nel ruolo sociale sarebbero emersi creando delle insoddisfazioni  e delle forme di alienazione del tutto diverse da quelle precedenti. Il processo di allontanamento di una certa base sociale dalla sinistra politica, verificatasi in Italia, ma non solo, traduce questa situazione di assenza di una risposta politica organica e, insieme, rappresenta il conservatorismo  politico della sinistra, che continua a pensare di poter rappresentare la propria base come la classe operaia di un tempo, mentre sarebbe necessario avviare non marginali aggiornamenti, non solo nella direzione della dimensione economica, ma iniziando una riflessione e una elaborazione proprio nel campo della definizione del che fare e del come farlo, ricostruendo in questa operazione la partecipazione di tutte le componenti sociali interessate.

Già nel 1955 Sylos Labini nel suo Saggio sulle classi sociali, poteva scrivere: “Negli ultimi decenni tutte le società capitalistiche hanno subito grandi mutamenti strutturali, ma la sinistra ha continuato a vivere di rendita sul patrimonio intellettuale trasmesso dai grandi pensatori del passato, tradendo, in definitiva, il fondamentale messaggio critico del più grande dei pensatori di sinistra. È vitale, ormai, un approfondito riesame critico, condotto con mente aperta, della società in cui viviamo.”

Si potrebbe incominciare, intanto, da una ripresa e aggiornamento di quel Saggio di Sylos Labini. Potrebbe essere il segnale di una riscoperta di una verità da tempo obsoleta nel nostro paese: l’investimento nel settore della conoscenza consente di ottenere un rendimento superiore a quello ottenuto in qualsiasi altro settore. In secondo luogo sarebbe necessario ricordare la necessità di quel controllo sociale in materia di innovazione, avviando non solo una ripresa dell’investimento pubblico in questi settori ma anche la selezione di tali investimenti ai fini della realizzazione della strumentazione analitica necessaria per dare seguito alla necessità di assicurarne la valenza sociale,  ivi comprese le trasformazioni strutturali in materia di organizzazione della produzione e del lavoro.

Note

[1] L’ultima è rappresentato da una breve nota: Ferrari Sergio – Dal declino economico alla riforma della Costituzione, ospitata nel sito de Associazione Paolo Sylos Labini, 8 novembre 2016

[2] Pietro Greco: Per un programma di Governo dell’economia della conoscenza- Centro Studi , Città della Scienza- 11/13/2016  .

[3] S. Ferrari, Società ed Economia della Conoscenza – Mnamon 2014