Riscaldamento globale e negazionismo

Il riscaldamento globale è ormai diventato la grande questione ambientale del XXI secolo; la comunità scientifica lo giudica inequivocabile e considera elevata la probabilità che in questo secolo la Terra dovrà fronteggiare cambiamenti climatici molto pericolosi per le persone e gli ecosistemi che la abitano. Eppure, ancora oggi trovano spazio tesi che mettono radicalmente in discussione l’esistenza stessa del problema. Sono voci ormai sporadiche, minoritarie, ma negli anni passati sono state più frequenti, hanno avuto spazio e visibilità su diversi tipi di mass media, dai siti web ai quotidiani nazionali, dalle riviste divulgative alle trasmissioni televisive di prima serata; hanno trovato ascolto nelle stanze dove si sarebbe dovuto decidere delle politiche climatiche.

Per definire questo tipo di tesi è stato utilizzato il termine “negazionismo climatico”, a indicare il testardo e irragionevole rifiuto delle evidenze scientifiche più robuste su cui la comunità scientifica ha raggiunto un consenso (Caserini 2008). Non si tratta del sano scetticismo di cui si nutre la scienza, in quanto uno scettico deve essere in grado di riconoscere l’evidenza scientifica, e su questo costruire altra scienza.

Nel corso degli anni, i dissensi negazionisti hanno riguardato tutti gli aspetti principali delle conoscenze sui cambiamenti climatici: dalle temperature che non aumentano ai ghiacci che non si fondono, dalle responsabilità umane ai costi eccessivi della riduzione delle emissioni. Alcune critiche sono state circostanziate, altre generiche. Alcune sono scomparse presto, altre durano da anni, magari dopo essersi trasformate in qualcosa di diverso e solo apparentemente somigliante con la contestazione originaria. Altre ancora mescolano ipotesi prive di fondamento con brandelli di osservazioni condivisibili. Nonostante quanti studiano il clima del pianeta hanno dato da anni chiare risposte sui diversi “dubbi” avanzati dai negazionisti climatici e hanno parallelamente smontato le tesi “alternative”, tali dubbi e tesi alternative hanno continuato a circolare, incuranti delle spiegazioni o delle stroncature ricevute. Solo negli ultimi anni si è assistito a un ridimensionamento della presenza delle voci negazioniste sui mass media, complici anche i primi segnali evidenti dei cambiamenti climatici, con continui record di temperature calde e di intensità di precipitazioni.

Non sempre è facile cogliere il senso delle critiche alla spiegazione che la scienza del clima fornisce al problema del riscaldamento globale, valutare la loro novità e originalità nonché inquadrarle in un contesto storico e scientifico. Situare ogni obiezione all’interno della teoria che collega le emissioni di alcuni gas a variazioni climatiche e a conseguenti danni all’umanità e agli ecosistemi permette di scorgere un filo comune in alcuni percorsi negazionisti. Le critiche sono cambiate infatti nel tempo; mentre inizialmente erano frequenti le voci che sostenevano l’assenza di cambiamenti climatici, si è passati a contestare la dimensione dei cambiamenti, quindi le responsabilità umane. Negli ultimi anni l’influenza delle attività umane sul clima è sempre meno messa in discussione, chi non è convinto che le cose si sistemeranno da sole, o che il riscaldamento globale faccia bene, concentra le critiche sulle azioni fino a oggi messe in campo per ridurre le emissioni dei gas serra, come il Protocollo di Kyoto o i successivi atti del negoziato globale sul clima, o arriva a sostenere che ormai è oggi troppo tardi per fermare il riscaldamento globale.

 

Emissioni e concentrazioni

Una prima parte di argomenti del negazionismo climatico sono stati volti a sostenere che “niente è cambiato”: le emissioni di gas serra prodotti dalle attività umane non sono in grado di alterare i livelli di anidride carbonica (CO2), in quanto altri flussi sono più importanti. Pur se è vero che le emissioni di CO2 dalla combustione dei combustibili fossili non sono la sorgente principale di CO2 per l’atmosfera, perché altri flussi, derivanti dalla fotosintesi e dalla respirazione degli organismi viventi terrestri e oceanici, sono nettamente più grandi, va considerato che altri flussi sono in equilibrio, un equilibrio che dipende dalle condizioni dell’atmosfera, ma che si è mantenuto piuttosto costante negli ultimi diecimila anni. Un piccolo contributo può alterare un equilibrio in cui giocano forze molto più grandi. Non sono qui determinanti i valori assoluti delle emissioni e degli assorbimenti di CO2 durante i cicli naturali, ma le perturbazioni antropogeniche di questi equilibri. D’altronde, i fattori naturali conosciuti non sono in grado di portare all’aumento così rapido delle concentrazioni di CO2 negli ultimi due secoli.

La perturbazione umana avviene non solo con le emissioni dalle combustioni di prodotti fossili e del cemento, ma riducendo gli “assorbimenti” naturali. Diversi lavori accurati sul tema (Mackey et al. 2013) hanno mostrato, tramite l’analisi dettagliata dell’incremento delle concentrazioni di CO2 in atmosfera negli ultimi anni, come i modelli abbiano probabilmente sovrastimato la capacità di assorbimento della CO2 da parte di vegetazione e oceani. La conclusione inevitabile è che il contributo umano all’aumento dei livelli di CO2 è chiaro e senza precedenti nella storia dell’umanità.
Fra le cause naturali a volte è citato il ruolo dei vulcani. In realtà, le eruzioni vulcaniche esplosive, che possono portare nell’atmosfera quantità gigantesche di polveri e solfati, sono emissioni episodiche, discontinue, perturbano l’atmosfera per qualche settimana, mese o anno, a seconda della potenza dell’eruzione, ma per quanto riguarda la CO2, il contributo dei vulcani è pari mediamente all’1% delle emissioni antropiche.

Un’altra teoria che intende negare il contributo umano all’aumento di CO2 nell’atmosfera sostiene che le emissioni di CO2 dalle attività umane sarebbero insignificanti se confrontate con le emissioni delle specie viventi. Pur se è vero che i flussi degli organismi viventi possono essere molto rilevanti, si tratta di carbonio di origine fotosintetica, un ciclo chiuso, che non contribuisce a un cambiamento netto del contenuto di CO2 in atmosfera.

I dati che mostrano l’aumento di CO2 nell’atmosfera del pianeta sono chiari e incontrovertibili. Pur se è vero che in passato i livelli di CO2 sono stati superiori agli attuali, si tratta di un passato molto remoto. Quando la Terra si è formata le concentrazioni di CO2 nell’atmosfera erano migliaia di volte superiori alle attuali, e anche pochi milioni di anni fa c’era nell’aria più CO2 di oggi. Ma è dimostrato che negli ultimi 800.000 anni, ossia da prima della comparsa dell’Homo sapiens, i livelli sono sempre stati inferiori.

 

Il riscaldamento del pianeta

La realtà del riscaldamento globale è ormai evidente e sempre meno, oggi, viene messa in discussione: la maggior parte dei negazionisti ha abbandonato questo tema (passando a “il riscaldamento c’è ma non è colpa dell’uomo”), ma per tanti anni il dibattito è stato acceso. I dubbi in cui ancora oggi capita di imbattersi sono relativi alla qualità delle misure delle temperature, alla loro rappresentatività, a possibili errori di misura o di calcolo delle medie globali, alle interferenze di fattori di disturbo nei punti di misura, o al minore riscaldamento nel periodo 1998-2013.
Negli anni Novanta molte delle obiezioni si sono concentrate sulle possibili interferenze con il segnale del riscaldamento globale degli effetti dell’“isola di calore” delle città, che potrebbero far scambiare fenomeni di riscaldamento locali con variazioni a livello globale; studi più approfonditi hanno mostrato come sia un effetto reale ma con un carattere locale, non significativo per aree più vaste (IPCC 2001), e che le medie delle temperature effettuate a livello globale o per gli emisferi nord e sud non risentono in modo apprezzabile dell’influenza delle “isole di calore”: le eventuali incertezze sono largamente inferiori all’aumento di temperatura registrato.

Dal 2005 al 2014 un grande seguito, anche sui mezzi di informazione, hanno avuto le voci che sostenevano una “fermata” del riscaldamento globale del pianeta; la tesi, derivante da un’analisi molto grezza e volutamente parziale delle temperature della superficie dell’atmosfera, è stata confutata mostrando sia come si trattava della normale variabilità del sistema climatico, in quanto alla tendenza all’aumento delle temperature dovuto ai gas serra si sovrappongono alcune oscillazioni del sistema climatico, dovute per esempio alle correnti oceaniche El NiñoLa Niña[1]. Migliaia di articoli e di post per raccontare di un presunto mistero della temperatura che non cresce più, le ipotetiche divisioni fra gli scienziati, il complotto mondiale per non parlare di questo. Lo statistical editor di uno dei principali quotidiani italiani ha accusato gli scienziati di nascondere le prove di questo mancato riscaldamento, al fine di mantenere ingiustificati toni allarmistici[2].

Analizzando i dati non in modo isolato, ma come serie storiche, emergeva chiaramente che le temperature stavano aumentando, e non è stata una sorpresa per gli scienziati quando nel 2014 e nel 2015 sono stati stabiliti i nuovi record delle temperature globali.

 

Tempo e clima

Uno dei motivi di fraintendimento del problema del riscaldamento globale è la confusione fra il tempo meteorologico e il clima, ossia la situazione atmosferica globale, che deve essere valutata sui lunghi periodi, di decenni o più.
La confusione è anche fra climatologia e meteorologia, due differenti discipline scientifiche. La climatologia è nata dalla meteorologia, ma ha ormai assunto un suo ruolo, più multidisciplinare, perché deve considerare le interazioni fra l’atmosfera, gli oceani, la biosfera e le masse ghiacciate. Entrambe hanno a che fare con la fisica dell’atmosfera, ma usano strumenti differenti perché anche gli obiettivi sono diversi. Da un lato le previsioni del tempo a breve o medio termine (ore, giorni, settimane, mesi), dall’altro l’evoluzione del tempo medio (il clima) su scale temporali e spaziali completamente diverse.

 

Confronti con le temperature del passato

Un altro modo per sminuire l’importanza dell’attuale riscaldamento globale è stato sostenere che “il clima è sempre cambiato”. Se in passato ha fatto molto più freddo e molto più caldo, le variazioni di oggi non sarebbero importanti.
I miti di un passato in cui faceva molto più caldo o più freddo raccontano di una Groenlandia “Terra Verde”, della fiorente coltivazione dei vigneti in Inghilterra, dei pastori sui ghiacciai alpini, del Tamigi e della laguna veneta ghiacciati. Sono storie che hanno certo un fondamento in fatti realmente accaduti, ma impropriamente utilizzati per sminuire le attuali variazioni climatiche.

Le temperature medie del pianeta registrate negli ultimi decenni sono insolitamente alte, se confrontate con l’ultimo millennio. È una chiara indicazione di molti studi che hanno ricostruito le temperature del passato, in particolare degli ultimi duemila anni (National Research Council, 2006). Si tratta di studi molto vasti e complessi, con centinaia di citazioni bibliografiche, ci sono incertezze. Gli scienziati che hanno lavorato al Quinto Rapporto dell’IPCC hanno espresso le conclusioni del loro esame di questi lavori in termini di gradi di probabilità, ma con un’indicazione chiara: “Nell’emisfero settentrionale, il periodo 1983-2012 è stato probabilmente il più caldo trentennio degli ultimi 1400 anni” (IPCC 2013).

Non ci sono certezze assolute, in quanto la ricostruzione del clima del passato non è agevole. Ci si basa su misure dirette, su dati strumentali solo per gli ultimi 150 anni. Per i periodi precedenti si usano i dati delle variabili “proxy”, indicatori indiretti quali la dimensione degli anelli degli alberi, analisi dei pollini, analisi sui coralli, sui sedimenti oceanici, sulle microbollicine d’aria intrappolate nelle carote dei ghiacciai. Per l’ultimo millennio ci si avvale anche dei dati documentari, letterari, amministrativi e iconografici.
Il confronto con i risultati dei modelli matematici fornisce anche un quadro approfondito e complesso di come sono evoluti la temperatura e altri fattori climatici; da questi dati risulta che è molto probabile che la temperatura media globale del pianeta sia oggi a livelli insolitamente alti almeno per gli ultimi duemila anni. La storia dell’uomo è da sempre una storia di modifica del territorio e dell’ambiente, ma le modifiche recenti non hanno paragoni nell’Olocene, in particolare per la zona artica; una recente ricostruzione delle temperature degli ultimi 11.000 anni (Marcott et al. 2013), ha mostrato in modo lampante l’entità della perturbazione in corso.

 

Le responsabilità umane e il ruolo del Sole

L’attribuzione ai gas serra antropogenici di una gran parte dell’attuale riscaldamento globale deriva da una solida spiegazione fenomenologica, nonché dalla rispondenza fra l’andamento di alcuni indici climatologici misurati (temperature, livello dei mari, fusione dei ghiacci) e i valori simulati dai modelli che riproducono in equazioni matematiche le conoscenze sui fenomeni fisici e chimici che governano il clima del pianeta. Se in questi modelli si considerano i gas serra e il conseguente effetto serra, risultati e osservazioni sono in sostanziale accordo. Se si escludono i gas serra, le cause conosciute non possono spiegare il riscaldamento degli ultimi cinquant’anni, i suoi valori medi globali e la sua distribuzione spaziale.

Questo non significa che le incertezze siano state tutte risolte e che le attività umane siano le uniche responsabili delle variazioni climatiche. Nel linguaggio del Quinto Rapporto IPCC, è “estremamente probabile (probabilità superiore al 95%) che l’influenza umana sia stata la causa dominante del riscaldamento osservato sin dalla metà del XX secolo”. L’influenza umana è stata rilevata non solo nel riscaldamento dell’atmosfera e degli oceani, ma anche nelle variazioni del ciclo globale dell’acqua, nella riduzione delle coperture di neve e ghiaccio, nell’innalzamento del livello globale medio del mare e nei cambiamenti di alcuni estremi climatici

Una delle tesi “alternative” più ricorrenti del negazionismo climatico è che la variabilità della radiazione solare sia stato un fattore importante, in grado di influire sulle variazioni climatiche registrate nel recente passato; e che quindi influirà sulle variazioni future. Chi sostiene che l’influenza del Sole sia determinante ha mostrato spesso grafici con impressionanti similitudini fra l’andamento delle temperature del passato e alcuni indici legati alla radiazione solare o a sue conseguenze. Altri scienziati hanno contestato la fondatezza di questi studi, mostrando come molti di questi grafici siano stati creati manipolando in modo sofisticato i dati disponibili.

Tutte le diverse teorie che hanno cercato di attribuire alla radiazione solare (tramite le macchie solari, i raggi cosmici, il vento solare, ecc…) un ruolo determinante sull’andamento delle temperature dell’ultimo secolo e, in particolare degli ultimi cinquant’anni, non hanno retto al processo di revisione scientifica. Il Quinto Rapporto di Valutazione dell’IPCC, rivisitando tutti gli studi apparsi in letteratura e con l’ausilio delle simulazioni dei modelli matematici, ha ulteriormente ridotto l’influenza del Sole nel riscaldamento del pianeta negli ultimi cinquant’anni, mostrando come non possa essere escluso che le variazioni legate al Sole abbiano invece dato un contributo negativo al bilancio energetico, ossia siano state un agente raffreddante.

 

Argomenti contro la riduzione delle emissioni

Negli ultimi anni è proprio il primo accordo internazionale di riduzione delle emissioni climalteranti, il Protocollo di Kyoto, a essere stato fortemente criticato, per essere troppo blando o troppo oneroso, o per il mancato coinvolgimento di tutti i maggiori emettitori mondiali.
Un altro argomento di grande attualità è la richiesta di impegni di riduzione delle emissioni anche per Paesi quali India e Cina, indicando gli impegni di questi Paesi come condizione per l’implementazione di politiche sul clima. Il rifiuto passato di una larga parte dei Paesi del mondo nell’accettare impegni vincolanti di riduzione delle emissioni era spiegabile con le loro minori emissioni pro capite, sia attuali che “storiche”. Con l’accordo di Parigi, siglato alla COP21 nel dicembre 2015, anche questo argomento è poco valido, in quanto praticamente tutti i Paesi hanno accettato di mettere sotto controllo le emissioni, seppur in modo differenziato (Caserini 2016).

Un argomento ancora molto attuale è l’elevato costo delle politiche climatiche, oppure la loro non convenienza rispetto ad altri problemi planetari, quali la lotta alla povertà, alle malattie, alla fame.
Le stime proposte a supporto di questa tesi sono molto variabili, anche di ordini di grandezza, e spesso non forniscono le informazioni basilari che consentirebbero di dare alla cifra un qualche senso. Per esempio non è generalmente specificato se si tratta di costi annui oppure complessivi su un determinato periodo, magari di trenta o cinquant’anni; oppure se sono soldi di oggi, ottenuti dai costi futuri tramite un tasso di sconto. Inoltre, spesso non sono considerati gli effetti indiretti delle politiche climatiche, i benefici (o i costi) chiamati “esterni” perché ricadono sull’intera società, previsti dall’economia ambientale per valutare l’effetto delle politiche ambientali.

Il confronto fra i costi delle politiche climatiche e altre spese mostra come in realtà il problema della mitigazione sia in misura molto limitata un problema economico, dovuto a una mancanza di risorse, bensì eminentemente politico, in quanto consiste nella scelta delle modalità di distribuzione dei costi fra i soggetti economici che saranno diversamente penalizzati dalle politiche climatiche.
Riguardo all’argomentazione che i soldi necessari per le politiche climatiche potrebbero essere spesi per altre cose più utili, non è mai specificato perché proprio le spese per le politiche climatiche debbano essere le uniche cui sarebbe possibile rinunciare, come se non si potessero mettere in discussione per esempio le spese militari, oppure l’accumulo di patrimoni scandalosi di una piccola percentuale degli abitanti del pianeta, oppure i profitti rilevanti delle compagnie petrolifere.

È legittimo che ci siano diversi punti di vista sull’urgenza delle politiche climatiche, per esempio fra un principe saudita e un abitante di una piccola isola dell’Oceano Indiano che rischia di essere sommersa dall’innalzamento del mare; si tratta di differenze che riflettono diverse posizioni etiche, diverse valutazioni sull’importanza dell’equità nella distribuzione del benessere fra gli abitanti del pianeta.

 

Motivazioni del negazionismo climatico

Le posizioni negazioniste italiane non sembrano avere come prima e diretta spiegazione ragioni di natura economica e finanziaria, ossia la difesa di interessi corporativi. A differenza per esempio della situazione statunitense, in cui la pressione delle lobby dell’industria petrolifera e del carbone sulle politiche climatiche ha avuto e ha tutt’ora una grande rilevanza (Oreskes e Conway, 2010), alla base del negazionismo italiano ci sono ragioni forse più di ordine psicologico e sociologico, la volontà di difendere l’attuale modello di sviluppo senza metterlo in discussione, una visione religiosa dell’uomo e della natura, un modo per conquistare spazio politico, l’esibizionismo, il narcisismo, la ricerca della visibilità che dà il cantare fuori dal coro; oppure, semplicemente, la pigrizia[3].

Il successo popolare delle posizioni negazioniste va cercato anche nel loro essere comode, nel rassicurare, nel favorire la negazione del senso del limite, caratteristica della nostra società.

Pur proponendosi come razionale e morale, l’esaltazione del dubbio e dell’impossibilità per la comunità scientifica di assicurare l’affidabilità totale alle sue conclusioni, il continuo richiamo alle troppe incertezze o alla necessità di prove più solide può essere una precisa strategia, una scusa, una copertura per interessi di parte. A questo proposito, va ricordato che le reazioni alle azioni di disinformazione delle lobby del petrolio e del carbone contro il consenso scientifico sui cambiamenti climatici sono arrivate sia da organizzazioni ambientaliste che dalle stesse istituzioni scientifiche. L’organizzazione ambientalista Greenpeace ha creato diversi strumenti internet per monitorare l’attività delle società impegnate nel contrastare il consenso sui cambiamenti climatici (www.exxonsecrets.org.).

 

Una controversia del passato

Negli ultimi anni la narrazione del negazionismo climatico si è affievolita. Le peer review si sono fatte più attente e hanno fatto strage delle tesi “alternative”. Sul Web alcuni blog scientifici hanno effettuato demolizioni quasi in tempo reale delle tesi negazioniste, aggiungendo chiodi su chiodi alle bare di teorie morte e sepolte da anni[4]. I mezzi di informazione hanno iniziato a snobbare i cosiddetti “scettici”, hanno iniziato a dubitare dell’affidabilità delle fonti proposte, a intuire la somiglianza con le campagne di disinformazione che in passato avevano cercato di ritardare le politiche ambientali per la limitazione delle sostanze distruttrici dell’ozono stratosferico, o le norme che volevano vietare l’uso delle sigarette o regolarne la pubblicità. Ci sono ormai corsi universitari on-line che approfondiscono gli stratagemmi concettuali e retorici usati dal negazionismo climatico[5]:  l’esaltazione del dubbio e dell’impossibilità per gli scienziati di assicurare l’affidabilità totale alle loro conclusioni, l’utilizzo di falsi esperti, la creazione di false dicotomie e di salti logici, l’invenzione di cospirazioni.

Il negazionismo climatico per un po’ ha raschiato il barile, proponendo tesi sempre più contorte o complottiste. Nel 2009 ha fatto scalpore il furto di email ad alcuni scienziati, servito per montare uno scandalo di risonanza mondiale: la tesi era che migliaia di articoli pubblicati dagli scienziati di decine di diversi centri di ricerca, su riviste scientifiche prestigiose, potevano essere confutati da alcune frasi sospette trovate nelle email scambiate da uno scienziato di un centro di ricerca inglese con alcuni colleghi. Questo scandalo scoppiato poche settimane prima della conferenza sul clima di Copenaghen, chiamato enfaticamente “Climategate”, si è risolto in una bolla di sapone: tutte le inchieste istituite hanno scagionato gli scienziati imputati e mostrato che non c’è stata alcuna manipolazione dei dati. L’operazione è sembrata un’azione per cercare di ostacolare l’accordo di Copenaghen, che aveva comunque ostacoli molto più importanti.
L’ultimo argomento-appiglio del negazionismo climatico è stata la presunta pausa del riscaldamento globale, secondo cui la temperatura non stava aumentando dal 1998. Il record delle temperature globali nel 2014 e quello ancora più marcato del 2015 hanno sepolto anche la tesi della presunta pausa anomala delle temperature.

 

Conclusione

È quindi evidente come sul tema del riscaldamento globale si sia consolidato negli ultimi anni un vastissimo consenso scientifico, documentato dall’analisi degli articoli pubblicati nella letteratura scientifica o da sondaggi sull’opinione degli scienziati. Uno di questi ha posto agli scienziati alcune domande fra cui “il pianeta si sta scaldando?” e “l’attività umana è un fattore significativo nel variare le temperature globali del pianeta?”. Le risposte “sì” registrate sono state rispettivamente per il 90% e 82% degli intervistati, con un aumento dei “sì” passando da studiosi senza pubblicazioni, a studiosi con pubblicazioni in altri settori (per esempio geologia, meteorologia), agli esperti identificati per l’aver più del 50% dei lavori pubblicati nel settore dei cambiamenti climatici. Fra questi ultimi le percentuali dei “sì” salivano rispettivamente al 96,2 e 97,4%. La conclusione della ricerca è stata: “Sembra che il dibattito sull’autenticità del riscaldamento globale e del ruolo delle attività umane non esista fra chi capisce le sfumature e le basi scientifiche dei processi climatici a lungo termine” (Doran e Zimmerman 2009).

Va comunque detto che il grave ritardo sulle politiche climatiche, a livello italiano e mondiale, è solo in parte ascrivibile a chi ha negato l’esistenza del riscaldamento globale, a chi ha escluso le responsabilità umane o si è opposto alle prime politiche di mitigazione. Cause importanti del ritardo delle risposte, e quindi della continua crescita delle emissioni sono alcuni fattori strutturali quali la dinamica del ricambio tecnologico, per sua natura vincolata all’inerzia del sistema industriale e ai tempi di vita delle infrastrutture energetiche e abitative.
Il negazionismo climatico può fare ancora molti danni, perché uno dei requisiti fondamentali per politiche di grande impegno e rilevanza economica e sociale è la consapevolezza diffusa della gravità della crisi climatica ai diversi livelli della società[6]. Ed è nell’indebolire questa consapevolezza il pericolo del negazionismo climatico.

 

Bibliografia

Caserini S. A qualcuno piace caldo. Errori e leggende sul clima che cambia, Edizioni Ambiente, Milano, 2008.
Caserini S. Il clima è (già) cambiato. 10 buone notizie sul cambiamento climatico, Edizioni Ambiente, Milano, 2016.
Doran P.T., Zimmerman M.K. (), Examining the Scientific Consensus on Climate Change, in “EOS”, 2009, 90, 3, pp. 22-23.
IPCC Climate Change 2001, Synthesis report www.grida.no/climate/ipcc_tar/vol4/english/index.htm.
IPCC Fifth Assessment Report (AR5) Climate Change 2013: the physical science basis –Technical Summary, Intergovermental Panel on Climate Change, 2013.
Mackey B. Prentice C., Steffen W. et al.,) “Untangling the confusion around land carbon science and climate change mitigation policy”,  Nature climate change, 2014, 1804, pp. 552-557.
Marcott S.A., Shakun J.D., Clark P.U., Mix A.C., “A reconstruction of regional and global temperature for the past 11,300 years”,  Science 2013, 339,  6124, pp.1198-1201.
Ming Lee T. et al. , “Predictors of public climate change awareness and risk perception around the world”, Nature Climate Change, 2015. Si veda anche “Analysis of a 119-country survey predicts global climate change awareness and concern”, environment.yale.edu.
National Research Council, Surface Temperature Reconstructions for the last 2,000 Years, Natl Acad. Press, Washington DC, 2006.
Oreskes N., Conway E.M., Merchant of Doubt, Bloomsbury Press, New York, 2010.

 

Sitografia

 www.ipcc.chwww.nature.com/climate/index.html

www.cmcc.itwww.skepticalscience.com

www.climalteranti.it

 

Note

[1] El Niño e La Niña sono due fasi opposte della “teleconnessione” atmosferica accoppiata tra atmosfera e oceano chiamata ENSO (El Niño-Southern Oscillation), un fenomeno climatico ricorrente che si verifica nell’Oceano Pacifico centrale, con un ciclo variabile fra i tre e i sette anni. El Niño e La Niña sono la componente oceanica, portano il primo un riscaldamento e la seconda un raffreddamento della temperatura delle acque superficiali dell’Oceano Pacifico centro-orientale. Si veda Cassardo C., C. Cacciamani, “Capire il clima che cambia: le teleconnessioni NAO e El Niño”, Climalteranti.it, 2014.<
[2] Sul Corriere della Sera dell’11 ottobre 2013 il giornalista Danilo Taino ha accusato gli scienziati autori del quinto rapporto IPCC di aver relegato il tema della presunta pausa delle temperature globali in “una sola nota”, perché la pausa delle temperature “potrebbe mettere in discussione le teorie che hanno sostenuto per anni”, senza curarsi del rapporto stesso, in cui l’argomento era sviscerato in più di 30 pagine (si veda Caserini S., “Lo strano caso del giornalista che non sa leggere”, Climalteranti.it, 2013).
[3] A queste categorie appartengono i due interventi più incredibili sentiti negli ultimi anni, quello della giornalista Annalisa Chirico su LA7 (si veda Climalteranti.it: “Il record di una giornalista disinformata”, 2015) e del senatore a vita nonché premio Nobel per la Fisica Carlo Rubbia durante una seduta della Commissione Territorio e Ambiente del Senato (si veda: www.bit.ly/1Vh9n9h)
[4] Un’espressione usata in ambito scientifico quando una teoria già confutata viene ulteriormente indebolita è another nail in the coffin, “un altro chiodo nella bara”.
[5] Una prima rassegna è disponibile in Lombroso L., D. Pernigotti, “#denial101x e altri corsi on line sui cambiamenti climatici”, Climalteranti.it, 2015.

[6] Secondo recenti indagini, il 40% della popolazione mondiale non ha mai sentito parlare del riscaldamento globale, percentuale che sale al 65% in molti Paesi poveri (Bangladesh, Egitto, India); uno studio che ha elaborato i dati dell’indagine Gallup che ha interessato 199 Paesi del mondo (il 90% della popolazione mondiale), ha concluso che in molti Paesi è il livello di educazione il primo fattore che determina la conoscenza del problema del riscaldamento globale (Ming Lee et al., 2015).