L’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale” è la più antica Scuola di sinologia e orientalistica del continente europeo, con una consolidata tradizione di studi nelle lingue, culture e società dell’Europa, dell’Asia, dell’Africa e delle Americhe. L’Orientale rappresenta un importante riferimento di studi e ricerche sulle dinamiche politiche, sociali, istituzionali e culturali della contemporaneità cinese, con ben 30 convenzioni attive con prestigiose università cinesi. Infine è sede dell’Istituto Confucio di Napoli che promuove la conoscenza della lingua e della cultura cinese.

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L’intervista è di Bruno Genito, Professore di Archeologia e Storia dell’Arte Iranica, Archeologia e Storia dell’Arte dell’Asia Centrale e Presidente del CISA- Centro Interdipartimentale di Servizi per l’Archeologia, Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”

Quali sono i principali progetti di ricerca attivi tra “L’Orientale” e le università cinesi nel Suo ambito di ricerca archeologica? Come state proseguendo la cooperazione in questo periodo di emergenza sanitaria?

I progetti di ricerca in collaborazione con le istituzioni cinesi in ambito archeologico, nascono all’Orientale, già alla fine degli anni 80’, quando con i professori Giovanni Verardi, Lucia Caterina e Antonino Forte si avviarono i primi contatti con l’Istituto di Archeologia dell’Accademia delle Scienze Sociali di Pechino, per un progetto di ricerca sul campo relativo alla gestione e alla valorizzazione degli importanti monumenti buddhisti delle grotte di Longmen a Luoyang nella provincia dello Henan. Una seconda fase di queste collaborazioni riparte nel novembre del 2004, quando, grazie alla mediazione dell’Ambasciata Italiana a Pechino, e in particolare della Prof. Paola Paderni, allora in Cina, e un viaggio a Pechino e a Xi’an dell’allora Rettore dell’Orientale Pasquale Ciriello, si stabilirono i primi contatti con la North-West University di Xi’an. Questi contatti cominciarono a dilatarsi anche grazie ai numerosi viaggi del sottoscritto in quel paese tutti relativi all’esplorazione di concrete possibilità di realizzare un lavoro sul campo in relazione allo studio del nomadismo antico dall’età del Ferro fino all’epoca medievale e su altri numerosi aspetti storico-culturali relativi alle cosiddette Vie della Seta. Dal 2005 in poi, sulla base dei primi accordi di collaborazione archeologica con quell’Università firmati nel 2006 e validi ancora oggi, e con l’accordo con la Beijing University firmato nel 2011 e tuttora attivo, si sono poste le basi per diversi altri lavori di collaborazione all’interno della gestione e valorizzazione dei Beni Culturali sulle stesse problematiche. Da quel momento in poi si è sempre più intensifica la collaborazione anche con l’edizione congiunta di materiali archeologici di chiara ascendenza centro-asiatica, ma rinvenuti in territorio cinese. Nel 2017 nell’ambito della Settimana Cina-Italia, in particolare come Presidente del CISA (Centro Interdipartimentale di Servizi per l’Archeologia dell’Orientale) furono presentate in Cina, a Pechino, le più avanzate metodologie digitali in uso in Italia nella gestione e valorizzazione dei Beni Culturali e dell’archeologia. Dal 2018 si è anche avviata una collaborazione con l’Università di Shanghai sul tema dei nomadi medievali, e uno dei prossimi convegni congiunti sul tema, organizzati dalla società “MeN (Mediaeval Nomads)”, è in programma a Napoli all’Orientale nell’autunno del 2021, emergenza sanitaria permettendo. In questo lungo periodo di collaborazioni non sono stati pochi gli studenti e dottorandi cinesi e Italiani, nonché professori delle due Università ad essersi recati in Cina e in Italia a seguire corsi e fare conferenze su diversi temi in oggetto. Da quest’anno è anche in corso un progetto conoscitivo delle raccolte di oggettistica cinese presenti in Italia in collezioni pubbliche e/o private sempre con la Beijing University, gestito dalla Prof.ssa Chiara Visconti.

Quali sono gli obiettivi della cooperazione accademica nel settore archeologico sull’aspetto didattico?

L’aspetto didattico della trasmissione, cioè, bilaterale delle diverse conoscenze tecniche del settore, ha sempre avuto un’importanza molto particolare nelle relazioni culturali tra Cina ed Italia, ed in particolare proprio nell’ambito archeologico. Questo sia per quanto attiene alle attività di ricerca sul campo che nella ricerca archeologica hanno da sempre a che fare con sempre più sofisticate tecniche di ricognizioni e rilevamento degli aspetti in superficie (materiali archeologici, monumenti, necropoli, canali, insediamenti e città) da investigare, ma anche con quelle più specifiche dello scavo archeologico da un lato, e di gestione del patrimonio culturale in generale dall’altro. L’immensità geografico-ambientale del territorio, ha consentito storicamente all’uomo in Cina di avere a disposizione un enorme varietà di condizioni di vita, basate su sistemi orografici, idrografici e, quindi, anche climatico-ambientali e approcci e metodi di indagine sul terreno molto differenziati. Estese pianure alluvionali, inospitali deserti aridi, intense aree steppiche, così come, quelle collinari e di montagne, hanno ampiamente costellato l’intero territorio cinese. Questa estrema varietà ha consentito al territorio di avere aree culturali regionalmente molto differenziate. In relazione a questo aspetto sono state estremamente significative le numerose visite di colleghi Cinesi in Italia e all’Orientale in particolare, e Italiani in Cina a Pechino e a Xi’an per affrontare uno scambio informativo sui diversi contesti geografici, storico-culturali e le diverse modalità didattiche proposte ed elaborate dai rispettivi diversi livelli istituzionali preposti. Particolarmente significative sono proprio stati in Cina i diversi forum realizzati nel 2017 in Cina e nel 2018 in Italia nell’ambito della Settimana dell’Innovazione; a quello del 2019, purtroppo per diverse ragioni, l’Orientale non ha potuto partecipare. L’altro ambito particolarmente importante è sicuramente quello relativo all’insieme delle disposizioni, regole e leggi della gestione del patrimonio culturale nei due Paesi. In Cina e in Italia in particolare, entrambi paesi ricchissimi di testimonianze culturali materiali ed immateriali, sono moltissimi i processi di cambiamento nella gestione del patrimonio culturale negli ultimi decenni. In Cina, amplissime sono le attività legate al patrimonio culturale, dalla tutela alla scoperta archeologica, dalla conservazione alla ricerca e alla fruizione al pubblico. L’organizzazione del lavoro professionale nell’ambito del patrimonio culturale ha riguardato, oltre l’archeologia, la museologia, ed il modo di strutturare, regolare ed organizzare proprio il lavoro di archeologi, conservatori e museologi. In questi ultimi decenni, numerosi fenomeni hanno influenzato in maniera importante l’evoluzione dell’organizzazione della gestione di un patrimonio culturale ricco come quello in Cina, con l’emergere di nuovi problemi gestionali legati agli intensi processi di modernizzazione. Lo straordinario processo di crescita economica avvenuto in quel paese ha avuto un enorme impatto sul patrimonio culturale: la costruzione di infrastrutture, l’attività edilizia e la trasformazione dei contesti urbani hanno comportato la scoperta (e spesso la distruzione) di nuovi ritrovamenti archeologici, e hanno rappresentato una minaccia per i monumenti esistenti. Il turismo -sia internazionale che nazionale- è anch’esso diventato un nuovo fenomeno, comportando allo stesso tempo opportunità e minacce per il patrimonio culturale. Quello che sorprende del contesto cinese è la portata del fenomeno, in termini di milioni di visitatori, di introiti e profitti potenziali. I cambiamenti che coinvolgono oggi le comunità professionali sono anch’essi straordinari: si assiste, infatti, a un processo crescente di contaminazione, se non di integrazione, con le comunità internazionali di ricercatori (vedi per esempio l’istituzione di specifici principi di conservazione, ma anche diversi forum scientifici come quello di Beijing o quello di Shanghai più propriamente legato all’archeologia).

Quali ritiene essere le principali differenze circa i metodi di approccio alla conservazione dei beni archeologici tra l’Italia e la Cina? Come possiamo imparare l’uno dall’altro?

L’Italia detiene un cospicuo e diversificato patrimonio culturale la cui valenza è internazionalmente decretata dai numerosissimi riconoscimenti UNESCO, diffusi su tutto il territorio nazionale. L’art. 9 della Costituzione italiana dice: “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”. Il paese ha da subito messo in campo ogni azione possibile per favorire la conoscenza, la tutela e la valorizzazione dei beni culturali e ha promosso anche un’intensa attività legislativa, come stimolo per la redazione di nuove norme sul patrimonio storico e ambientale italiano, anche se l’istituzione di un ministero relativo risale solo al 1976. Per questa via sono giunti, ad esempio, a maturazione gli alleggerimenti fiscali per la manutenzione e le donazioni allo Stato di raccolte, opere d’arte, archivi e l’acquisizione pubblica di numerosi edifici storico-artistici. Oggi si sono fatte avanti nuove parole-chiavi come “innovazione” e, di fatto, una ricerca senza innovazione, sembra decaduta a categoria di seconda classe. Naturalmente, accanto alla parola innovazione si deve necessariamente abbinare un’altra parola “tecnologia” ed in questa catena logico-concettuale presto si è arrivati ai concetti di velocità, efficienza e riproducibilità. Il patrimonio culturale e ambientale è costituito da beni immateriali che si possono conservare e valorizzare con vari strumenti e metodi, ma soprattutto di beni materiali (complessi archeologici, monumenti, centri storici, opere d’arte, artigianato) che devono essere conservati e mantenuti con interventi diretti, concreti, operati da professionalità specifiche. Il patrimonio culturale non può e non deve essere assoggettato o governato da forme inedite di “efficientismo”, che spesso possono produrre effetti esattamente contrari a quelli attesi. La tecnologia e l’innovazione nell’ambito della ricerca e la conservazione dei beni culturali diventano ausiliari e profondamente utili se sostanziate da una approfondita e analitica conoscenza del bene in questione su cui intervenire. La logica prevalente, purtroppo, è che tutto si trasformi in azienda e che quindi produca utili a breve o medio termine. I beni culturali, invece, essendo un patrimonio che se conservato non ha consumo, producono un utile continuo innanzitutto culturale nelle comunità che li possiedono, ma anche un utile economico imponente quasi mai immediato e diretto, ma che ritorna in maniera più che evidente nell’indotto. In Cina i sistemi di gestione dei beni culturali sono caratterizzati da un alto livello di centralizzazione. A livello istituzionale, questa situazione riflette, tuttavia, una strategia amministrativa particolarmente fragile. Si tratta di una situazione completamente diversa da quella, ad esempio, italiana, dove la protezione del patrimonio a livello locale è affidata ad enti periferici dello Stato (le soprintendenze), che riferiscono direttamente al governo centrale (il ministero), piuttosto che alle amministrazioni locali. In secondo luogo, le molteplici istituzioni che operano in Cina, sono infatti poste a diverso livello dal punto di vista amministrativo: quelle di primo livello, quelle di secondo livello, mentre altre sono di terzo livello. La scelta del livello dipende largamente dal potere relativo di tali istituzioni, ma ha conseguenze dirette in termini di status e di risorse. Una terza caratteristica è una certa frammentazione istituzionale, con sovrapposizioni frequenti di diritti e doveri tra diversi enti. Il patrimonio culturale archeologico in Cina è organizzato su tre funzioni principali: gli scavi (di ricerca o di emergenza), la protezione (conservazione in depositi e restauro) e la ricerca. A livello generale, gli scavi di ricerca si riferiscono a progetti di scavi scientifici con obiettivi archeologici predefiniti. Gli scavi di emergenza riflettono il bisogno di salvare dalla distruzione il patrimonio ritrovato in seguito allo sviluppo economico più recente. Questa procedura assicura che lo scavo di emergenza sia altamente conveniente per gli archeologi, con vari effetti positivi: l’intero sistema beneficia delle rendite dei team archeologici, ed esiste la possibilità di “auto-finanziare” gli scavi che porteranno alla creazione di nuove collezioni e musei. I report archeologici degli scavi – che pure sono obbligatori e dovrebbero essere presentati al massimo entro tre anni dopo l’attività di scavo – spesso, tuttavia, non vengono redatti, nonostante la pressione governativa. Poiché per legge i ritrovamenti non possono essere messi a disposizione di altri studiosi prima della pubblicazione del report archeologico da parte del team, risultano seriamente compromesse non solo la ricerca interna e l’attività di protezione ma anche la cooperazione inter-istituzionale. Per riassumere, l’urbanizzazione crescente incoraggia e finanzia un’intensa attività di scavi di emergenza, la presenza di frammentazione istituzionale e di disincentivi economici, tuttavia, scoraggia gli archeologi dal condurre studi sistematici sui loro ritrovamenti e dal cooperare con i passaggi successivi della filiera del patrimonio.