Antonino Marcianò è Professore di Fisica teorica dal 2014 all’Università di Fudan (Shanghai). Qui, la sua ricerca si concentra su argomenti relativi alle simmetrie nascoste e all’elaborazione quantistica delle informazioni nei buchi neri. Durante la sua carriera, dottorato di ricerca presso l’Università Sapienza di Roma, post-dottorato all’Università di Aix-Marsiglia e all’Università di Princeton, si è concentrato su una vasta gamma di argomenti che vanno dalle geometrie non commutative, alla deformazione delle simmetrie spazio-temporali, ai metodi di teorie topologiche di campo e su reticolo per la quantizzazione della gravità, ai modelli di cosmologia primordiale e osservativa. Ha pubblicato più di 70 articoli su riviste scientifiche internazionali dai più alti fattori di impatto in letteratura.

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In quale istituzione lavora e su quale tematica verte la Sua ricerca? Fa parte di un programma di scambio con l’Italia? (se si specificare quale).
Sono Professore di fisica teorica presso l’Università Fudan di Shanghai dal 2013. Non sono arrivato in Cina con nessun programma particolare di scambio, ma per diretto interessamento a seguito dell’apertura di posizioni nel dipartimento di fisica. Solo recentemente ho avuto un’affiliazione allo INFN di Frascati, per via delle mie collaborazioni con ricercatori dei laboratori. La mia attività di ricerca, come fisico teorico, è abbastanza ampia, spaziando principalmente dalle teorie quantistiche di campo e le teorie di gravità, alle zone di ricerca a queste limitrofe (incluse le onde gravitazionali, i modelli di materia oscura, energia oscura e di cosmologia primordiale, gli studi sul paradosso dell’informazione nei buchi neri, i modelli di completamento ultravioletto delle teorie di campo quantistiche e di gravità quantistica a loop e di stringa), nonché alle applicazioni analoghe allo stato solido e all’Intelligenza Artificiale.

Quali sono le principali motivazioni che l’hanno portata a fare questa esperienza in Cina?
Ero ancora un ricercatore a tempo determinato (post-doc) a Princeton quando ricevetti l’offerta da parte della Fudan. Non è comune in Europa, e neanche negli Stati Uniti d’America, che ad un trentenne sia data la possibilità di diventare professore e gestire un proprio gruppo di ricerca, con propri fondi, presso una delle università più prestigiose della Cina e del mondo. Pertanto, non ci ho pensato su due secondi. Anche perché le prospettive di finanziamento della ricerca qui in Cina sono incomparabilmente maggiori rispetto a quelle in Europa e negli Stati Uniti.

Quali sono secondo Lei i benefici e qual è il valore aggiunto di essere ricercatore in Cina?
In questo momento storico, anche a seguito della crisi pandemica recente, la preminenza della ricerca in Cina è così evidente che risulta essere un vantaggio immediato già solo fare parte di un discorso scientifico che vi viene sviluppato. C’è senz’altro grandissima attenzione nei confronti di tutto ciò che accade in Cina e, pertanto, maggiore visibilità anche da parte delle nostre istituzioni, che pur sempre distanti diecimila chilometri e in genere distratte al mondo della ricerca anche in patria, ci vedono con curiosità crescente, e spesso, con lungimirante considerazione di quello che può essere il nostro ruolo a distanza. Spero che questa nuova consapevolezza si rafforzi nelle nostre istituzioni, sia politiche che scientifiche e consenta di dare la giusta considerazione ai talenti che, pur non essendosi potuti esprimere in patria per carenze di vario tipo, possono ancora fornire, agevolando i legami con la ricerca scientifica in Cina, un contributo di fondamentale importanza allo sviluppo della ricerca in Italia.

Quali sono i punti di forza di un ricercatore italiano nel contesto cinese della ricerca da un punto di vista culturale e formativo?
Da un punto di visto culturale credo che gli Italiani siano, tra gli occidentali, i più adeguati alla collaborazione (anche scientifica, ma non solo) con i Cinesi. Ciò credo sia dovuto sia allo spirito di adattamento che contraddistingue le due culture che alla propensione a cambiare piani anche all’ultimo momento, adattandoli alle circostanze contingenti. Questa comune “saggezza”, che stride con l’assolutismo di altre culture, pone a livello lavorativo i Cinesi e gli Italiani su una base comune, favorendone l’empatia ed il dialogo. Da un punto di vista formativo, nel mio settore disciplinare, la fisica, la sinergia tra i due paesi è di lunga data. Si va dal rapporto discepolo-maestro tra i premi Nobel Tsung-Dao Lee e Chen-Ning Yang, ed Enrico Fermi, fino alla collaborazione negli anni ’80 tra scienziati come Yong-Shi Wu (direttore del centro teorico del quale faccio parte alla Fudan) e Giorgio Parisi, per fare un esempio, ai grandi esperimenti, ad iniziare da ARGO, con i quali la Cina si è riaperta alla collaborazione scientifica internazionale.

Come ha vissuto questo periodo di emergenza per la diffusione del Coronavirus prima in Cina e poi in Italia?
Quest’emergenza sta facendo venire al pettine molti nodi irrisolti, accelerando la presa di coscienza di un inesorabile cambiamento negli equilibri mondiali. La crisi economica che è già iniziata, di certo renderà ancora più precario il mondo della ricerca in Italia, imponendo un rapido cambiamento di gestione anche da noi delle risorse e dei contratti. In questa complessa situazione gestionale, paesi come la Cina, che si sono dotati di strutture forti negli ultimi anni e che hanno finanziato maggiormente il mondo della ricerca, beneficeranno della congiuntura internazionale, moltiplicando il proprio potere attrattore. Per queste ragioni, è nell’interesse della ricerca italiana sviluppare una rete di collaborazioni dalle maglie più strette con il Dragone Rosso per completare le rispettive strategie di risposta alla crisi sociale ed economica già in atto.