Kepler-186f e la caccia al gemello della Terra

A 490 anni luce di distanza dal nostro pianeta c’è un mondo molto simile alla Terra, probabilmente abitabile. È il primo di questo tipo finora scoperto, l’ultimo traguardo di una lunga ed entusiasmante caccia al “gemello” della Terra che non si è ancora chiusa ma che promette di regalarci molte soddisfazioni nei prossimi decenni. Kepler-186f era stato già individuato dal telescopio spaziale Kepler della NASA, lanciato nel 2009 e la cui missione è terminata alla fine dello scorso anno a causa di una serie di guasti (ma gli ingegneri sono al lavoro per far lavorare il telescopio a scartamento ridotto per una nuova missione di ricerca). Ora la sua esistenza è stata confermata anche da due telescopi terrestri: il Keck e il Gemini. Analizzando le minuscole variazioni gravitazionali prodotte dai pianeti extrasolari intorno alle loro stelle, Kepler ha individuato centinaia di pianeti oltre il nostro sistema solare. Ma finora non era ancora stato trovato un mondo come Kepler-186f. Qualcuno l’ha già battezzato, impropriamente, il gemello della Terra. Questa sorta di “santo Graal” della ricerca astrofisica è ancora lontano. Un autentico gemello della Terra dovrebbe essere un pianeta  grande quanto il nostro e orbitante intorno a una stella come la nostra. Kepler-186f possiede solo una delle due caratteristiche: è grande appena il 10% della Terra, ma orbita intorno a una nana rossa, una stella più piccola e più fioca del nostro Sole.

La grande importanza della scoperta annunciata ieri, 17 aprile, e pubblicata sul nuovo numero della rivista Science, conquistandosi l’immagine di copertina, è che Kepler-186f è il primo pianeta abitabile finora scoperto. Abitabile perché è il primo pianeta probabilmente roccioso (quindi con la stessa composizione della Terra) all’interno di quella che in gergo viene chiamata “zona Goldilocks”, ossia zona Riccioli d’oro. È quella distanza giusta da una stella in cui non fa né troppo caldo né troppo freddo e dove quindi può esserci acqua allo stadio liquido. La Terra è l’unico mondo del Sistema Solare a rientrare in questa zona. E Kepler-186f è il primo pianeta extrasolare simile alla Terra scoperto alla giusta distanza dalla sua stella. Poiché quest’ultima è una nana rossa, la zona abitabile è molto più vicina alla stella di quanto avvenga nel nostro Sistema Solare: Kepler-186f è situato più o meno alla stessa distanza di Mercurio dal Sole. In questo sistema stellare a 490 anni luce dal nostro, nella costellazione del Cigno, ci sono altri pianeti già noti. La lettera “f” indica infatti che, in ordine a partire dalla stella e procedendo verso l’esterno, il nuovo mondo scoperto è il quinto (la lettera “a” indica la stella e di solito si omette). Gli altri quattro sono troppo vicini a Kepler-186 e quindi troppo caldi.

La domanda ora è: quanto simile alla Terra è il nuovo pianeta scoperto? Difficile dirlo. A una distanza così elevata difficilmente saremo in grado di saperne di più. È molto probabile che la sua composizione sia rocciosa, dato che pianeti così piccoli non sono, generalmente, di composizione gassosa. Ma da qui a dire che possieda acqua liquida in superficie, ce ne passa. Venere, molto simile per dimensioni a Kepler-186f, non ne possiede, poiché la sua atmosfera è talmente densa da produrre un gigantesco effetto serra con temperature infernali in superficie. La gravità di questo pianeta potrebbe essere troppo bassa, tale da impedirgli di trattenere un’atmosfera, e di conseguenza l’acqua liquida in superficie. Probabilmente, quindi, di Kepler-186f non sapremo niente di più di quello che già sappiamo. Ora, però, la conferma dell’esistenza di mondi come il nostro – piccoli, rocciosi e alla distanza giusta dalla loro stella – ci spinge a cercarne altri più vicini. Abbastanza vicini da far sì che i nuovi telescopi sia a Terra, come l’E-ELT in costruzione in Cile, o spaziali, come Gaia dell’ESA o il futuro James Webb Telescope che sostituirà l’Hubble, possano analizzarne anche la composizione, confermando o meno l’esistenza di acqua in superficie o di ossigeno in atmosfera. Per il momento, l’unica cosa che possiamo fare, come suggerisce il SETI Institute, che da decenni cerca segnali intelligenti nello spazio, è puntare le antenne dei nostri radiotelescopi verso quel mondo lontano e sperare, perché no, di intercettare qualche indizio che dimostri che lassù c’è qualche civiltà tecnologica con cui condividere il nostro lungo, solitario viaggio nell’infinito.

Roberto Paura

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