In un famoso discorso tenuto nel 1928 agli studenti del Winchester College (e pubblicato due anni dopo col titolo Possibilità economiche per i nostri nipoti), John Maynard Keynes prevedeva che l’aumento della “efficienza tecnica” (cioè della produttività del lavoro) dovuto agli sviluppi scientifici e tecnici, da lui stimato in non meno dell’1% all’anno, avrebbe progressivamente portato alla “disoccupazione tecnologica”, cioè ad una crescente sovrabbondanza della risorsa lavoro, con il risultato che – nell’arco di un secolo – settimane lavorative di 15 ore sarebbero state più che sufficienti a garantire il soddisfacimento dei bisogni di tutti. Ed effettivamente, come conferma un rapido calcolo, un aumento annuo dell’1% (composto), per 100 anni di seguito, comporta un fattore moltiplicativo di circa 2,7: in tali ipotesi 15 ore di lavoro sono quindi sufficienti a realizzare la stessa quantità di prodotto di 40 ore di un secolo prima.
In realtà, nei paesi industrializzati, nell’ultimo secolo la produttività del lavoro è aumentata ad un tasso annuo ben superiore, compreso tra il 2% ed il 3%, eppure l’ottimistica previsione di Keynes non si è attuata. Come mai?
I motivi sono molteplici: innanzi tutto, come rilevano acutamente Robert ed Edward Skidelsky (How much is enough?, 2012), se i “bisogni” sono, in qualche misura, limitati, i “desideri” sono potenzialmente inesauribili; ed effettivamente oggi richiediamo beni e servizi che un secolo fa non esistevano neanche. Ma questo non basta a spiegare la dinamica degli orari di lavoro, che ha avuto un andamento assolutamente irregolare. Consideriamo, ad esempio, i metalmeccanici in Italia: alla fine dell’800, lavoravano 72 ore/settimana (12 ore per 6 giorni); all’inizio del ‘900 si passò a 60 ore/settimana; quindi, nel 1919, su iniziativa della FIAT, l’orario si ridusse a 48 ore/settimana; ed infine, nel 1972, si giunse a 39 ore/settimana. Una riduzione, pertanto, di ben il 46% in 80 anni circa; poi però più niente, o quasi, negli oltre 40 anni successivi. Come mai? Dobbiamo innanzi tutto considerare che l’aumento della produttività è dovuto essenzialmente alla meccanizzazione (e, più in generale, automazione) delle attività: alla sostituzione quindi di forza lavoro con capitale investito (in impianti, attrezzature, brevetti, ecc.). Nei primi 70 anni del ‘900 i benefici dell’aumentata produttività furono (equamente?) divisi tra maggiore remunerazione del capitale e miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori (paghe più alte per meno ore; esemplare, a tale proposito, è l’esperienza della Ford negli anni ’20). Poi però il rapporto si è decisamente sbilanciato a favore del capitale e dei top manager: secondo Piketty, la quota dei redditi USA percepiti dal 10% più ricco della popolazione dopo essere calata fino a meno del 35% del reddito nazionale negli anni ’70, è risalita a quasi il 50% tra il 2000 ed il 2010.
Cosa è successo alla produttività del lavoro? Per l’Italia, possiamo considerare due periodi con caratteristiche affatto differenti: per quasi tutto il XX secolo la produttività ha registrato un aumento medio annuo di circa il 2,5%. Dalla fine degli anni ’90 ad oggi però essa si è invece essenzialmente fermata (secondo l’Eurostat tra il 2007 ed il 2013 è addirittura calata di quasi il 5%). Quest’ultimo fenomeno è peculiarmente italiano: in Germania (paese manifatturiero come l’Italia) la produttività del lavoro ha continuato ad aumentare quasi agli stessi ritmi di prima.
Proviamo a spiegare cosa può essere avvenuto, nella consapevolezza del fatto che si tratta di fenomeni di estrema complessità, come dimostrato dalle molte diverse interpretazioni fornite da autorevolissimi economisti. Valutare, nelle sue dinamiche temporali, la produttività del lavoro non è facile: per isolarla infatti da altri fattori, dovremmo misurare la quantità “fisica” di prodotto realizzata per ora lavorata; ad esempio: quanti metri quadri di parete vengono dipinti in un’ora da un imbianchino. E’ evidente che tale produttività può aumentare sia se il lavoratore diventa, con l’esperienza, più efficiente (secondo le ben note “curve di apprendimento”), sia se l’innovazione tecnologica cambia il suo modo di lavorare (ad esempio sostituendo il pennello con uno spruzzatore; o la normale pittura da applicare in due mani con una che necessità di una sola applicazione). Tra le innovazioni “tecnologiche” di processo dobbiamo considerare anche quelle organizzative, miranti ad ottimizzare l’utilizzo di determinate risorse umane e/o materiali.
Questo approccio, però (utilissimo per il controllo di gestione della singola impresa), non può essere applicato a livello aggregato macroeconomico, per l’ovvia ragione che i prodotti realizzati sono tantissimi, tutti diversi tra loro, e quindi non direttamente “sommabili”. Si sceglie pertanto di misurare l’output delle attività produttive non in quantità fisiche, ma in termini di valore economico (valore di mercato o valore aggiunto): non più mq/h quindi, ma €/h. Ciò consente di “sommare” ai metri quadri dipinti dall’imbianchino, i kilogrammi di pane prodotti dal fornaio, le autovetture assemblate dal metalmeccanico, e così via, ma fa entrare direttamente in gioco due altri fattori, che poco hanno a che fare con la produttività del lavoro propriamente detta. Il primo è costituito dalla dinamica dei prezzi di mercato: se questi calano (ad esempio per la concorrenza internazionale dovuta alle importazioni da paesi emergenti), registriamo una diminuzione della produttività che nulla ha a che fare con il livello tecnologico del processo produttivo e con l’impegno del singolo lavoratore. L’altro fattore (che confonde ancora di più le acque) è legato alle innovazioni di prodotto, che mutano l’oggetto di produzione nel tempo: possiamo misurare il numero di ore necessarie a realizzare “1.000 € di televisori” nel 2016, e confrontarlo con il corrispondente dato del 2006, ma il raffronto ignorerà necessariamente il fatto, fondamentale, che si tratta di due beni affatto differenti, con prestazioni diverse, ecc., anche nel caso in cui abbiano conservato lo stesso nome.
In sostanza, quindi, la produttività del lavoro è funzione di quattro fattori indipendenti:
a) abilità/esperienza del lavoratore (curva di apprendimento)
b) capitale investito (innovazione di processo)
c) livello dei prezzi del prodotto realizzato
d) evoluzioni dello stesso (innovazione di prodotto).
Ciò detto, possiamo azzardare una prima, parziale e provvisoria spiegazione di perché, dopo il 1970 in Italia (ma sostanzialmente anche negli altri paesi industrializzati) la parziale ripartizione dei benefici derivanti dal’innovazione tecnologica tra capitale e lavoro (sotto forma di riduzione dell’orario di lavoro; ma un discorso analogo potrebbe essere sviluppato per i livelli retributivi) si sia interrotta: la globalizzazione dei mercati, nei due effetti simmetrici di importazione di prodotti concorrenziali dai paesi emergenti e di delocalizzazione negli stessi di attività produttive, insieme alla crescente automazione dei processi (non più solo manifatturieri, ma anche di servizio) ha sovvertito completamente i rapporti di forza tra lavoro e capitale, a favore di quest’ultimo. Il lavoro è divenuto una “merce” sovrabbondante, e quindi svalutata, come avviene per i prodotti agricoli quando il raccolto è particolarmente abbondante.
Tale perdita di potere contrattuale dei lavoratori, che ha annullato il “dividendo produttività” di loro competenza nel periodo ’70-’90, si è ulteriormente aggravata negli anni a seguire, nei quali la produttività – almeno in Italia – ha cessato di crescere, probabilmente a causa del calo degli investimenti e dell’abbassamento relativo (e a volte anche assoluto) dei prezzi.
Cosa comporta questo enorme aumento delle diseguaglianze di reddito e di patrimonio? Alle obiezioni di carattere politico ed etico (si pensi ai tanti, appassionati richiami di Papa Francesco) si sommano ormai anche quelli di natura eminentemente “tecnica”: come ha acutamente argomentato Joseph Stiglitz (The Price of Disequality, 2012) l’eccessiva diseguaglianza nei redditi danneggia la stessa capacità produttiva complessiva del sistema economico, con buona pace del pensiero unico liberista. Se la ricchezza è concentrata in sempre meno mani, i consumi inevitabilmente si riducono, indipendentemente dalla propensione all’acquisto dei tanti, purtroppo solo potenziali, interessati: la nostra crisi, sempre più strutturale ad oltre otto anni dal suo avvio, è una crisi da domanda; le imprese non assumono perché la domanda è scarsa, a causa della diminuzione dei redditi, e l’abbassamento del costo del lavoro (voucher, jobs act, minijob, ecc.) se da un canto fa diminuire un po’ i tassi di disoccupazione, dall’altro mortifica ulteriormente i redditi disponibili per il consumo, in una spirale deflazionistica dalla quale non riusciamo a venir fuori. Un top manager potrà pure guadagnare 400 volte più di un suo dipendente, ma i suoi consumi non sono proporzionalmente maggiori: la differenza (risparmiata) va così ad alimentare la crescente finanziarizzazione dell’economia, con effetti doppiamente negativi, in quanto queste enormi masse monetarie, sottratte ai consumi ed indirizzate ai mercati finanziari (sempre più simili ad altrettanti casinò virtuali) da una parte riducono la produzione di beni e servizi reali, e dall’altra destabilizzano sempre più l’economia mondiale.
Che fare? E’ evidente che problemi globali, in un mondo che ha abbattuto quasi tutte le barriere economiche, richiedono risposte altrettanto globali, che non possono essere solo tecniche. La politica deve recuperare una dimensione etica sempre più dimenticata, e se i lavoratori occidentali vengono licenziati perché subiscono l’imbattibile concorrenza dei loro omologhi dei paesi emergenti, la soluzione non deve più essere ricercata nella “importazione” di precarietà e svilimento del lavoro, ma nella “esportazione” di diritti dei lavoratori. Questa può apparire una visione del tutto utopica, e probabilmente lo è, ma se la tendenza mondiale è nella convergenza delle economie nazionali (M. Spence, The Next Convergence, 2011) alla globalizzazione dei prodotti e della finanza dobbiamo necessariamente aggiungere quella dei diritti dei lavoratori: la possibilità materiale e tecnologica di realizzare il sogno di Keynes, soddisfacendo i bisogni di tutti gli abitanti del nostro pianeta lavorando sempre meno, è a portata di mano; realizzarla dipende solo da noi, ma la strada per conseguirla passa attraverso un’equità economica e sociale ben maggiore dell’attuale.