Educazione e Formazione: leve di sviluppo necessarie per cogliere le opportunità di crescita e cambiamento

Il rapporto sulla povertà educativa elaborato lo scorso anno da Save the Children, con il contributo scientifico dell’ISTAT, del MIUR e dell’Università di Roma Tor Vergata e presentato in una ricca giornata di lavoro tenutasi a Roma il 16 maggio 2018, pone la Campania al primo non invidiabile posto nella classifica delle regioni italiane, fotografando ovviamente uno stivale a testa in giù, in cui Sicilia, Calabria, Puglia e Molise si collocano in cima, contro Emilia Romagna, Piemonte, Lombardia e Friuli Venezia-Giulia che chiudono la serie.

L’Indice di Povertà Educativa (IPE) utilizzato dalla ONG per realizzare il rapporto, è composto da una serie di indicatori che misurano dati strutturali (ad esempio la fruizione di alcuni servizi educativi che dovrebbero essere pubblici e garantiti) e dati “soggettivi” (come ad esempio la pratica di varie attività culturali, dalla visita a musei alla lettura, ecc.). Superfluo sottolineare il legame stretto tra l’IPE e la deprivazione socio-economica non solo individuale ma anche territoriale, laddove l’accesso a opportunità culturali di qualità, distribuite sul territorio, a partire da una scuola di qualità, costituisce il prerequisito essenziale di quella che Save the Children definisce “resilienza” educativa delle bambine e dei bambini, ovvero la capacità di resistere alla deriva e alle disastrose conseguenze derivanti dalla povertà culturale, esperienziale ed educativa.

Nulla di nuovo sotto il sole, verrebbe da dire. Se non fosse per il fatto che, nonostante la diffusione massiccia di informazione, l’immersione in flussi continui di dati e la disponibilità continua di dispositivi tecnologici che erogano contenuti, anche educativi; le condizioni di partenza, il contesto familiare, le opportunità derivanti dall’ambiente domestico, continuano a costituire il fattore determinante della mobilità sociale. La capacità di decodifica e di connessione tra concetti ed eventi, derivano in primo luogo dall’appartenenza sociale e di classe; a dispetto di chi voleva superate queste categorie.

Questo primato negativo della Campania (assieme ad altri, come quelli relativi alla salute, all’obesità infantile, ecc.) imporrebbe una riflessione senza rete sui cicli politici che, negli ultimi decenni, hanno governato il nostro territorio. Ma per questo dibattito vi saranno altre sedi e occasioni.

L’obiettivo di questo articolo è invece diverso e rimanda all’ambizione assolutamente necessaria per una istituzione come Città della Scienza di riprendere una discussione sui temi dell’educazione, della formazione, della cultura che non si facciano schiacciare dall’attualità (penso alle polemiche degli ultimi anni sulla cosiddetta “Buona Scuola”) e affrontino questi temi con un respiro e un orizzonte più ampi.

I concetti di “capitale”, “habitus” e “campo” – che dobbiamo alla elaborazione teorica del grande e compianto sociologo francese Pierre Bourdieu (1930-2002) – sono, a mio avviso, di particolare aiuto per avviare questo ragionamento. Se il “capitale” descrive le risorse non solo economiche, ma anche socio-relazionali e culturali di cui un individuo gode e che esso è in grado di usare per “andare avanti” nella vita; il concetto di “habitus” riguarderà invece le attitudini, le disposizioni e i modi di pensare acquisiti attraverso le interazioni sociali nell’ambiente domestico, nella comunità e nel sistema formativo. L’“habitus” conferisce agli individui l’idea di che cosa è considerato possibile, desiderabile e pensabile nella propria esistenza. Ma “capitale” e “habitus” esistono solo – e hanno senso solo – all’interno di uno specifico “campo”. Il concetto di “campo” definisce non solo il setting fisico e ambientale, ma anche le relazioni sociali, le aspettative e le opportunità di un dato ambiente. Il “campo” gioca un ruolo chiave perché esso determina anche il valore delle risorse di un individuo e della sua visione del mondo.

L’utilizzo di questi concetti come chiave interpretativa per progettare metodologie didattiche risulta di particolare importanza in casi di povertà educativa e, viceversa, di resilienza educativa, laddove – soprattutto in contesti di educazione informale – si dovranno considerare con attenzione la conoscenza pregressa, le inclinazioni, gli interessi, le esperienze e le relazioni di ogni individuo. Non casualmente, un gruppo di educatori anglosassoni (Godec S., King H. & Archer L., 2017, The Science Capital Teaching Approach: engaging students with science, promoting social justice, University College London) ha elaborato, proprio a partire dalla teoria di Bourdieu, un approccio all’insegnamento della scienza e della tecnologia che parte dal “capitale scientifico e tecnologico” già posseduto da un individuo, ovvero tutto l’insieme di conoscenze, attitudini, esperienze e contatti sociali legati alla scienza e alla tecnologia, posseduti da quell’individuo. Più una/un giovane possiederà quote di “capitale scientifico”, più probabilmente ella/egli tenderà a studiare discipline scientifiche nel futuro. Viceversa, chi non vede la scienza e la tecnologia come significative e rilevanti per la propria vita, avrà anche maggiori difficoltà nell’apprendimento delle discipline STEAM (Science, Technology, Engineering, Art/design, Mathematics). E ancora una volta le opportunità di rapporto con la scienza e la tecnologia (gli autori inglesi elencano otto dimensioni: conoscenza scientifica posseduta; rilevanza attribuita alla scienza; consapevolezza della utilità della scienza; consumo di media e contenuti scientifici; partecipazione a occasioni extra-scolastiche di incontro con la scienza; conoscenza e abilità scientifiche in ambito familiare; conoscenza diretta di persone coinvolte in carriere scientifiche; inclusione della scienza come argomento di discussione quotidiana) rimandano a contesti familiari, sociali e territoriali attrezzati su questo piano e più in generale sul piano culturale e dell’innovazione.

La necessità di sperimentare nuovi approcci educativi e di praticarli sia nei contesti formali che in quelli informali, appare ancora più urgente se si pensa alle grandi trasformazioni che si stagliano all’orizzonte.

La cosiddetta “rivoluzione industriale 4.0” – determinata dalla convergenza di intelligenza artificiale, robotica, Internet delle cose, fabbricazione digitale, ecc. – apre infatti enormi prospettive, ma pone anche domande epocali a cui rischiamo, oggi, di non essere in grado di rispondere. La tecnologia (permettetemi di semplificare, dati i limiti di spazio, anche se il dibattito è evidentemente ben più articolato e complesso) è un’opportunità straordinaria ed è di per sé “neutra”, ma il suo effetto non è per nulla scontato. Tutto dipenderà da noi e da come sapremo e decideremo di governarla.

Ma il vero tema, quello che molti oggi preferiscono eludere, è ovviamente l’impatto di questa rivoluzione sul mondo del lavoro e quindi sul modello di sviluppo; di più, è il futuro del lavoro, non tanto e non solo in termini di sostituzione progressiva del “lavoro vivo” ma anche, e forse soprattutto, delle nuove competenze e più in generale dell’atteggiamento che questo scenario richiede. Tra pochi decenni il concetto stesso di lavoro sarà completamente trasformato dalla tecnologia. Alcuni mestieri scompariranno e saranno delegati alle macchine, il che vuol dire che quasi la metà dei posti di lavoro attuali non esisteranno più. Si spalanca, insomma, il tema dell’impiego di questa grande forza-lavoro inutilizzata e di come garantire a tanti, espulsi dal processo produttivo, fonti di reddito per vivere; è un tema su cui il dibattito è notoriamente aperto e che sarebbe perdente affrontare semplicisticamente, facendo appello a una realtà che non esiste più ormai da tempo. Un tema che abbiamo introdotto, con alcune iniziative, nell’ultima edizione di Futuro Remoto e che Città della Scienza si appresta a discutere nuovamente, con l’insediamento del Competence Center sulla industria digitale 4.0.

Ma accettiamo anche il possibile esito positivo di questa storia: e cioè che la rivoluzione tecnologica, come è certo che sarà, farà emergere nuovi lavori e professioni; e determinerà un nuovo e più ricco rapporto tra umano e artificiale, con conseguenze inaspettate sulla nostra qualità della vita, sulla nostra salute e sulla espressione delle nostre potenzialità umane. Se ciò avverrà, sarà necessario formare per tempo nuove competenze e professionalità, necessarie a far funzionare tecnologie così potenti e pervasive che hanno la possibilità di rendere la nostra vita migliore oppure, se non governate o orientate male, di trasformarla in una distopia, come la fantascienza ci va ripetendo ormai da decenni (Io, robot di Asimov è stato scritto tra il 1940 e il 1950…).

E vi è di più. Una delle caratteristiche di questa nuova rivoluzione industriale è la sua capacità di sostituire non solo il lavoro manuale, ma anche quello intellettuale. Ciò vuol dire che non solo i lavori “pesanti” ma anche quelli che hanno caratterizzato tradizionalmente la “classe media” (e addirittura alcune professioni) saranno messi in discussione. E, soprattutto, non sappiamo in quanto tempo – o meglio, con quale velocità – ciò accadrà. Pensiamo ad esempio al miglioramento esponenziale e non previsto dei traduttori automatici o all’abilità degli algoritmi di riconoscere e apprendere e rispondere ai nostri gusti culturali, accelerando progressivamente la qualità delle loro prestazioni.

Inoltre, come avvertono molti economisti e dirigenti sindacali che non temono di misurarsi con questa prospettiva, nella grande redistribuzione internazionale del lavoro, l’occupazione crescerà solo in quei paesi che (come ad esempio la Cina) stanno investendo massicciamente sulle nuove competenze digitali, mentre si ridurrà in quelli che non lo faranno.

Se tutto ciò è vero, allora, e se è vero quanto denunciava Save the Children nel suo rapporto, investire grandi risorse economiche e umane sui nostri sistemi educativi è la priorità. Ci sarà sempre più bisogno – soprattutto in paesi come l’Italia e in regioni come quelle del Mezzogiorno, se non vogliono condannarsi a un futuro basato su un’economia arretrata e fondata sul lavoro servile – di nuove professionalità nell’ambito della scienza e della tecnologia. La sfida della rivoluzione industriale che sta arrivando determinerà il nostro futuro dal punto di vista antropologico; cosa saranno le nostre democrazie; come ci giudicherà chi verrà dopo di noi. In una parola, quale sarà la società che ci aspetta: una società interamente dominata dal mercato, in cui la ricchezza si concentrerà in pochissime mani mentre tutto il resto dell’umanità non sarà altro che una massa “assistita” il cui unico compito sarà consumare quel poco che potrà? Oppure, un nuovo patto sociale in cui proprio grazie alla tecnologia le potenzialità umane più “alte” potranno esprimersi ed essere liberate, a beneficio di ognuno? Insomma, mai come in questa fase chi si occupa di innovazione tecnologica deve anche occuparsi di etica pubblica; e viceversa.

E se tutto questo è vero, ritengo che tutti coloro i quali a vario titolo lavorano nel mondo della cultura e dell’educazione, avranno molto da fare nei prossimi decenni, per accompagnare e preparare le persone a governare questa rivoluzione, che ci sta traghettando verso una vera e propria nuova civilizzazione.