Aprire la conoscenza. Per il bene della scienza e della democrazia

Da alcuni anni a questa parte si sente parlare di scienza aperta, anche se forse ancora prevalentemente fra gli addetti ai lavori, ma ormai anche riportando importanti deliberazioni di stati e della Commissione Europea. Soprattutto se ne parla a proposito della produzione di pubblicazioni scientifiche, in relazione al fatto nuovo nella storia della scienza, e per molti preoccupante, della formazione di monopoli da parte di poche grandi case editrici. Associando a questo fatto incontestabile la crescente enfasi posta sulla valutazione e sulla deriva del publish or perish, si parla ormai di publish AND perish per l’attività scientifica degli scienziati e si diffonde l’impressione che la crescita della scienza stia rallentando. E ciò nonostante i crescenti investimenti a livello planetario, il crescente numero di scienziati professionisti, strumentazioni sempre più sofisticate. Ricerche che non dovrebbero essere pubblicate (frequenti ormai i casi di carenze statistico-metodologiche, errori se non vere e proprie frodi, plagi e duplicazioni illecite, ridondanze parossistiche ecc.), passano il vaglio anche di prestigiose riviste ed è lecito chiedersi a quante ricerche migliori, ammesso che ce ne siano, tolgano il posto. Ma vorrei qui allargare lo sguardo sul significato che dovrebbe avere aprire la scienza. Anzi, sui suoi significati.

Aprire la scienza ha infatti almeno 3 significati, agganciati l’uno all’altro. Vediamoli uno per uno.

 

Apertura epistemologica

Innanzi tutto, si tratta di aprire la scatola nera della produzione della conoscenza che è ormai alla base della vita quotidiana di tutti noi. È quantomeno stupefacente che sia ancora così diffusa una concezione positivistica (ottocentesca) della conoscenza scientifica che la vede quale conoscenza senza soggetto conoscente (Popper), uno sguardo angelicato che coglie come stanno veramente le cose del mondo da un luogo esterno, da un non-luogo. Letteralmente una u-topia. E che non sia dunque entrata nel bagaglio comune la natura costruttiva della scienza, se non nella forma di produzione simbolica quasi arbitraria, di un errore che ha il vantaggio di non poter essere confutato (Foucault) in tutto sostituibile a qualunque altra, che si distingue solo per l’essersi affermata per qualche gioco di potere in un ambito del quale può giudicarsi lecito ogni sospetto dietrologico.

Questa oscillazione, fra una idealistica concezione ingenuamente metafisicheggiante della scienza (che non considera pertinenti le dinamiche sociali), da un lato, e una sua cinica concezione ingenuamente relativisticheggiante (che non considera pertinenti le specificità della conoscenza che regge la struttura tecnologica della nostra società), dall’altro, non fa bene né alla scienza né alla società della conoscenza. E sono, tutto sommato, unite tanto nell’aspirazione (palese e affermata o recondita e negata) a una Verità che, più che meta-reale, è davvero ir-reale, quanto nel negare uno studio scientifico dei reali meccanismi del funzionamento della scienza medesima.

D’altronde, in ambito scientifico è da reputarsi grave l’assenza dell’epistemologia, della filosofia della scienza, della storia persino della propria disciplina scientifica nel curriculum di uno/a scienziato/a. L’illusione che un restringimento del campo visuale porti a un’acutizzazione della vista cozza contro l’evidenza della maggior crescita del sapere proprio ai confini delle discipline, fra le discipline, là dove sorgono nuove discipline che devono attrezzarsi alla bell’e meglio di un proprio bagaglio epistemologico, spesso imboccando vicoli ciechi in cui altre discipline si sono in passato già arenate. D’altronde, non può nemmeno essere riproposta un’interdisciplinarietà intesa come mera sommatoria di contributi da parte di discipline tradizionali. Una nuova specializzazione dovrebbe farsi largo sui problemi emergenti, non sul prolungamento del sapere accumulato, sui processi che strutturano gli ‘enti’ che le discipline hanno costruito e che sempre più difficilmente possiamo rintracciare in una esperienza umana sempre più lontana dall’orizzonte nel quale la nostra natura antropologica si è formata.

Aprire epistemologicamente la scienza vuole insomma dire ripartire dall’assimilazione di quella critica epistemologica epocale che, fra la fine dell’Ottocento (con Mach, Duhem, Poincaré) e il tramonto dell’empirismo logico del secolo scorso, ha poi germogliato quella ricchezza di contributi della filosofia della scienza degli ultimi cinquant’anni che non è però mai entrata nel sentire comune degli scienziati e si è progressivamente allontanata dai fari dell’opinione pubblica. Quel che è grave è che, mano a mano che stavamo entrando in una forma sociale science-driven, si produceva un divorzio fra scienza e consapevolezza della scienza, con i science studies divenuti un campo di specializzazione autonomo, di addetti ai lavori rivolti ad addetti ai lavori, come se la scienza fosse un ‘ente’ qualsiasi, e non il sapere costruito attraverso complessi processi storici di condivisione sul quale ormai si basa la forma di vita che condividiamo.

Siamo di fronte a una rinnovata esigenza di ristrutturare le specializzazioni per tener conto della complessità alle frontiere delle discipline moderne, in particolare quelle connesse allo sviluppo della società della conoscenza. Temi fondamentali dell’attuale sviluppo tecnico-scientifico quali la sostenibilità, l’epigenetica, la convergenza nano-info-bio-neurognitive, l’internet delle cose, le smart cities, un nuovo manufacturing, per solo fare qualche esempio, non possono certo essere affrontati né da una ulteriore specializzazione né da una mera sommatoria di ‘vecchie’ specializzazioni, ma richiedono un ripensamento persino della tradizionale partizione fra scienze dure e scienze umane, produttori e utilizzatori, produttori professionali e non.

Le discipline che hanno segnato l’ascesa della scienza moderna è giusto che rimangano come colonne portanti della formazione scolastica attraverso le quali cucire i problemi che di volta in volta hanno suscitato i più grandi progressi. Ma non è più sostenibile una ricerca alle frontiere della conoscenza animata da una concezione della conoscenza di tipo metafisico come scoperta del vero (la scienza, infatti, inventa modelli), né di tipo operazionistico come insieme di procedure codificate standardizzate (i modelli sono concettuali e potenzialmente utilizzabili all’interno dell’orizzonte storico del pensabile, contribuendo a sospingere questo in nuove direzioni). Ma neppure, all’opposto, come emersione di una pretesa di conoscenza dalla mera lotta fra soggetti per il primato in una controversia senza oggetto (l’accordo sulle conferme può sempre essere trovato, anche se il dissenso è sempre da mantenere gelosamente come fonte potenziale delle più grandi accelerazioni del sapere).

La scienza è uno dei prodotti umani più creativi, e in quanto tale è storico e sociale come ogni forma d’arte. È infatti una delle massime espressioni della cultura. L’organizzazione disciplinare è solo il modo in cui è stato organizzato il lavoro scientifico in una certa epoca, lo stile di un’epoca. La verità scientifica conserva, al pari delle più alte forme artistiche, un valore storico-universale: relatività non vuol certo dire relativismo (assoluto), ma riflessività (metodologica) sull’esperienza e sulla nostra capacità di costruire una prospettiva per rappresentarcela. La scienza, dunque, è cultura. Aprire la scienza vuol dire spalancare le porte della cultura, allo studio della storia e delle dinamiche della società attraverso le quali si costituiscono tanto l’heritage quanto le prospettive dell’umanità. Il consenso scientifico presuppone, insomma, la ricostruzione delle 3P che sono il motore della scienza: Problemi, Processi, Prospettive. Se il mondo (naturale e sociale) se ne infischia dei nostri confini disciplinari, le discipline definiscono nient’altro che la quota di ignoranza che siamo disposti a tollerare per sentirci psicologicamente appagati. Il primo tassello nella formazione scientifica diviene, dunque, il problem setting. Una formazione orientata esclusivamente al problem solving è la subalternità della propria intelligenza a un dominio cognitivo costituito e la rinuncia alla propria creatività. Aprire la scienza vuol dire, dunque, assicurarla contro la decadenza.

 

Apertura psicologica

Scoperchiare il soffitto della creatività, invertendo derive degli ultimi decenni, è uno degli imperativi dell’educazione e della ricerca in questi anni. Lo sviluppo del sistema produttivo della scienza nel Secondo Dopoguerra e soprattutto dalla fine della guerra fredda, ha portato infatti alla formazione di mainstream disciplinari sempre più spesso legati a dinamiche esogene (economiche e non solo), estranee allo sviluppo dei secoli precedenti, quantomeno nelle attuali proporzioni. Se dopo le due Guerre Mondiali del secolo scorso, risolte anche con l’intervento di armi tecnologicamente all’avanguardia, l’umanità si è d’un tratto accorta dell’importanza dello sviluppo scientifico, la conseguenza è stata, da un lato, la costante crescita degli investimenti, ma dall’altro un controllo amministrativistico, fino a estremi che ricordano il fordismo dell’età industriale della prima metà del secolo. La conoscenza è stata, insomma, sempre più gestita come fosse una merce qualunque, una currency, come recitano esplicitamente recenti documenti ufficiali della Commissione Europea (Horizon 2020). Le professioni scientifiche sono state gestite conseguentemente secondo criteri di un fordismo che già nell’industria mezzo secolo fa mostrava tutti i suoi limiti, e che tonnellate di studi hanno dato per definitivamente superato aprendo la strada all’epoca post-industriale.

Se la prima rivoluzione industriale aveva trattato la conoscenza come capitale fisso (“lavoro morto”) da vitalizzare ancora attraverso l’intervento di lavoro manuale umano (“lavoro vivo”), la seconda, con lo sviluppo del fordismo, aveva attirato solo un poco l’attenzione sulla conoscenza viva, limitandola alla gestione manageriale (Taylor) e alla creatività imprenditoriale (Schumpeter). Tanto il lavoratore (“cliente interno”) quanto il cliente (“esterno”) rimanevano comunque ai margini, penalizzando capacità e bisogni che, pure, andavano progressivamente aumentando proprio in tenore di conoscenza spalancando così nuove opportunità. Fra la rivoluzione della qualità totale (Deming) e la recente open innovation (Chesbrough) la creazione della conoscenza messa in campo dalle imprese si estende ben al di fuori dai confini dell’azienda fordista.

Ma nella Pubblica Amministrazione, e con particolare insistenza nella gestione dell’educazione e della ricerca, i modelli fordisti sono giunti solo dagli anni Ottanta/Novanta. L’università, in particolare, sta in questi anni salutando questo modello amministrativo come la vera novità. Ma, come ogni onesta analisi aziendalista potrebbe prevedere, la capacità di innovare la conoscenza alla sua origine, cioè la creatività tanto dell’allievo quanto del maestro, del docente come del ricercatore è a rischio. L’ingresso del fordismo dei “tempi e metodi” nell’università e negli enti di ricerca sarebbe, un secolo dopo, più che il fantasma del progresso che fu nell’industria automobilistica, l’angelo sterminatore del motore della società della conoscenza, della creatività intellettuale.

Questa, infatti, richiede condizioni favorevoli e stimoli continui per una reale autonomia che hanno più a che fare con il clima organizzativo che con la misurazione delle prestazioni, con la cooperazione delle intelligenze che con una competizione sulle produzioni, con la serenità e l’approfondimento della slow science che con l’agitazione produttivistica sui dettami della moda del momento, con il pensiero divergente che con la standardizzazione. Anzi, proprio il parossistico perseguimento della standardizzazione, secondo il più stringente canone della macchina fordista, le toglie ossigeno. Se i Paesi che per primi hanno sperimentato il New Public Management segnalano già da anni i suoi limiti, l’educazione e la ricerca stentano oggi ad affrancarsi dal potere ideologico del nuovismo che lo ammanta. Le nuove forme di potere che superano la forza fisica e persino il capitale economico, perché ne dettano le principali regole di costituzione e manifestazione, vertono sul capitale di conoscenza e sul suo uso.

In particolare nella forma della violenza simbolica, cioè dell’introiezione della dipendenza e della conseguente e irrimediabile divaricazione fra dominante e dominato. È questa la forma di violenza che, nelle parole di Pierre Bourdieu, vede la complicità della vittima, perché ha introiettato le categorie dominanti del suo carnefice. La libertà intellettuale, la creatività, dunque, svanisce, nel momento in cui introietta finalità esogene che la vogliono funzionale e non un valore in sé. Essa si fa addomesticare dagli opportunismi di bassa cucina, si scolasticizza, dismette il compito della riflessione e della critica, la messa in discussione del rapporto dominati-dominanti, la ricerca di una diminuzione della distanza fra governati e governanti, da sempre essenziale per una reale democrazia. Aprire la scienza, dunque, vuol dire salvarla liberando la nostra immaginazione sociologica.

 

Apertura sociologica

Eccoci dunque a un punto oggi molto critico, e cioè il significato di scienza aperta che consiste nell’aprire le porte della scienza alla cittadinanza democratica. Questo, a sua volta, vuol dire infatti due cose distinte ma strettamente correlate.

Innanzi tutto, vuol dire che i cittadini hanno nuovi diritti di accedere alle conoscenze più avanzate disponibili, a tutti i vari livelli: di dettaglio e di ampiezza, dall’informazione generalista ai dati scientifici, dalla formazione di base allo sviluppo professionale. E andrebbe così a realizzarsi nella società della conoscenza il dettato costituzionale, in particolare all’articolo 34 e a quell’articolo 3 che, per Pietro Calamandrei, è il più importante di tutti: È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.

In secondo luogo, vuol anche dire che lo/a scienziato/a, come in generale ogni produttore professionale di conoscenza, ha nuove responsabilità e un nuovo ruolo, che deve assumere e che deve essergli riconosciuto, essendo ormai il generatore istituzionale della risorsa chiave dell’intera società della conoscenza. Sta a nuove figure professionali nella comunicazione della scienza andare a cucire cittadini e scienziati, conoscenze specialistiche e temi generali, pubblicazioni scientifiche e inquietudini sociali, intrattenimento e formazione permanente, aggiornamento individuale e dibattito pubblico. È solo attraverso una tale apertura che i cittadini possono oggi trovare la loro libertà.

Maurizio Viroli distingue due concezioni della libertà che qui possiamo prendere come utile spunto di riflessione. La libertà del servo è quella data dalla mera assenza di impedimenti. Essa è strettamente connessa a una mentalità servile fatta di adulazione, maldicenza, disprezzo per persone migliori, cinismo, indifferenza, simulazione, prepotenza verso i più deboli e gli avversari, mancanza di vita interiore, ossessione per le apparenze. In generale, il prezzo che si è disposti a pagare per questa libertà che potremmo anche definire del servo scaltro, cioè del ‘furbetto’ sempre alla ricerca delle scorciatoie fra gli spiragli delle porte lasciate apposta semiaperte, per un illusorio successo, è la disposizione a servire umilmente, pronti a sfogare la propria repressione con l’arroganza verso i più deboli.

Vi è, però, una libertà del cittadino, secondo cui si ha la disposizione a obbedire, ma mai a servire; ad aver capi, ma mai padroni. E si obbedisce alle leggi, ma sempre solo alle leggi. Rimanendo per altro sempre attenti a partecipare sia alla loro formazione sia al loro cambiamento, direttamente o indirettamente, sempre secondo le leggi stabilite. Non si è in questo caso dipendenti da altri che abbiano uno strapotere considerato inarrivabile, le porte non sono mai né chiuse né appena socchiuse. Non si cercano scorciatoie fra gli ostacoli costituiti, ma piuttosto si cercano vie nuove. Si è disposti a utilizzare tutti gli strumenti a disposizione per formarsi una propria opinione sui temi rilevanti della conduzione della società e per farla valere, sempre nell’ambito delle leggi esistenti. È, indubbiamente, una libertà grazie alle leggi, che proprio dalle leggi viene definita, pubblicamente riconosciuta e, anzi, alimentata in ciascuno.

 

Conclusione

È chiaro, in conclusione, che aprire la scienza vuol dire aprire il seminarium rei publicae, richiamando ancora il pensiero di Calamandrei sulla scuola come organo costituzionale. Sia i luoghi, sia le procedure, sia le conoscenze che la scienza viene edificando sono i fulcri attorno ai quali ruota la società della conoscenza. Ed è proprio attorno a essi, dunque, che procede sia lo sviluppo della scienza sia quello della democrazia. Questa connessione fra scienza e democrazia, del resto, non deve stupire. Per un verso, la loro distinzione dicotomica stabilita con la modernità risale a una dicotomia epistemologica fra res cogitans e res extensa dalla cui morsa intellettuale stiamo ancora cercando faticosamente di uscire. La prima è qui presso di me, mi fa unico eppure mi rende simile agli altri, rendendo possibile la formazione di una comune volontà generale a partire dalle particolari volontà di ciascuno, attraverso il dibattito pubblico che, nel Parlamento, ha trovato la soluzione moderna. La res extensa, per contro, si estende là fuori e mi divide eppure mi congiunge agli altri attraverso i sensi e i loro prolungamenti, meccanici e mediatici, che sono quelli che mi permettono anche di raggiungere luoghi, fenomeni e simboli la cui conoscenza contribuisce alla formazione della mia opinione personale e alla possibilità stessa della sua messa in comune con gli altri.

La scienza è dialogica più che logica, come insegna il fallimento del logicismo. Il fondamento extra-logico è nella ragionevolezza storica prima che in una Razionalità astratta. Così come la democrazia è costruzione parlamentare di una volontà generale più che conta di parlamentari sotto vincolo di mandato.

Scienza e democrazia, insomma, sono le due colonne della partecipazione pubblica alla formazione delle scelte collettive in una società dove la conoscenza è il motore delle attività chiave. Se la scienza è potenziata dalla partecipazione più diffusa alla produzione e fruizione della conoscenza collettiva, la democrazia lo è dalla conoscenza più diffusa per le scelte collettive. Merito del singolo e partecipazione di tutti cessano di mostrare in prospettiva il conflitto che ha segnato le ideologie politiche della modernità. Aprire la scienza vuol dire, perciò, declinare le conquiste di libertà in un mondo che non ha più i tratti del noto. Siamo catapultati in un nuovo mondo e dunque dobbiamo pensare in modo nuovo.

Per concludere, possiamo riandare a quel faro che fra i più potenti ci illumina sulla strada del futuro, il Manifesto europeista scritto da Eugenio Colorni, Ursula Hirshmann, Ernesto Rossi e Altiero Spinelli quando erano confinati dal regime fascista a Ventotene, e che spesso viene ricordato come primo atto di nascita dell’Unione Europea. Vi si legge che le libertà politiche potranno veramente avere un contenuto concreto e non solo formale per tutti solo se la massa dei cittadini avrà una indipendenza ed una conoscenza sufficiente per esercitare un efficace e continuo controllo sulla classe governante. Questo è il fine politico dell’apertura della scienza. Abbiamo ben presente quanto intellettualmente difficile e personalmente doloroso sia stato il compito di chi ci liberò. Un compito da non sottovalutare attende nei prossimi anni noi che intendiamo aprire la scienza per davvero, per diventare cittadini liberi della società della conoscenza. D’altronde siamo consapevoli che, come insegna André Gide, sapersi liberare non è niente: l’arduo è saper essere liberi.