Tutti i colori dell’arcobaleno. La nuova grammatica della conoscenza

Tutti i colori dell’arcobaleno. 
La nuova grammatica della conoscenza: eguaglianza nella diversità

 

Con Il pianeta degli alberi di Natale, all’inizio degli anni ’60 del secolo scorso, Gianni Rodari inaugura un nuovo ambiente e un nuovo modo di fare letteratura per ragazzi. E spiega, presentando il suo libro: io scrivo (io devo scrivere) “per i ragazzi di oggi, astronauti di domani”.
Dopo aver osservato le prime astronavi solcare i cieli, Gianni Rodari si rende conto che il mondo è cambiato. E che all’inizio degli anni ’60 i ragazzi vivono e apprendono in un mondo molto diverso da quello conosciuto dai loro padri e dai padri dei loro padri. Dunque occorre una nuova scrittura. Un nuova scuola. Un nuovo metodo d’insegnamento. Occorre una “nuova grammatica della fantasia”.

Mezzo secolo dopo il mondo è, ancora una volta, cambiato. Viviamo nell’era digitale: dei computer, di internet, degli I-Phone, dei touch screen.  Cosicché noi, direbbe Rodari, dobbiamo scrivere “per i ragazzi di oggi, cybernauti di oggi”.
I nostri figli sono, ormai, tutti nativi digitali.
Il cambiamento è epocale. I ragazzi apprendono in mille modalità diverse. Da infinite fonti. Spesso contemporaneamente. Apprendono per immagini e simboli e suoni, non solo con la parola orale o scritta. Sono multitasking.  Il loro pensiero non segue percorsi lineari, bensì non lineari. Il loro cervello, dicono molti studiosi, non opera in serie, ma in parallelo.

La domanda, dunque, è: può la scuola continuare a trasmettere il sapere come se lei fosse ancora l’unica fonte e il suo l’unico modo di trasmetterlo?
Inutile dire che non abbiamo risposte definitive a questa domanda. Nessuno, probabilmente, le ha. Tuttavia azzardiamo: la risposta è no. La scuola deve cambiare. Deve adattarsi “ai ragazzi di oggi, cybernauti di oggi” e, dunque, deve trovare una “nuova grammatica della fantasia”.
È una sfida mica da poco. Perché si tratta di cambiare un modo di insegnare antico, vecchio – a ben vedere – di almeno tre millenni. Un metodo lineare fondato su un sistema rodato: con due trasmittenti, un mezzo, due canali, e un solo ricevente. Le due trasmettenti sono il maestro e il libro. Il mezzo è la parola. I canali sono quelli della trasmissione orale (il maestro) e della trasmissione scritta (il libro). E, infatti, non a caso gli esami si dividono ancora in orali e scritti. Quanto al ricevente unico, beh è lo studente.

La trasmissione ha una sola direzione: da chi sa a chi non sa. Una direzione che gli inglesi definiscono, in maniera molto efficace, top-down: dall’alto in basso. Dove l’alto sono il sapere del maestro e del libro. E il basso è la studente, tabula rasa da riempire.
Il singolare, studente, non è scelto a caso. Perché la trasmissione del sapere a scuola da qualche millennio è sostanzialmente uguale per tutti, come se tanti ragazzi con intelligenze, interessi, creatività, bisogni, speranze diversi fossero, appunto, un solo ragazzo.
Intendiamoci, questo tipo di scuola ha funzionato bene. D’altra parte non sarebbe durato tanto se non avesse avuto una base solida. E solide giustificazioni. Ma tutto questo ora non funziona più. È cambiato l’ambiente cognitivo. Sono cambiati, di conseguenza, i ragazzi.

Per secoli, come notava Rodari, prima delle recenti rivoluzioni tecnologiche i figli hanno vissuto in un ambienti cognitivi non molto diversi da quello dei padri e dei nonni. Cosicché nei secoli il modo di trasmettere il sapere non ha avuto bisogno di cambiamenti radicali, se non qualche lieve aggiustamento.
Oggi i nostri figli vivono in un ambiente cognitivo radicalmente diverso da quello in cui siamo cresciuti noi madri e padri, e, a maggior ragione incommensurabilmente diverso da quello in cui sono vissuti i nostri padri e le nostre madri e i nostri nonni.
Dunque deve cambiare l’insegnamento. La scuola deve essere, letteralmente, reinventata.

Già, ma come? Lo abbiamo detto. Nessuno ha una risposta a una simile domanda, che è di portata epocale. Tutto sommato pochi, vista la posta in gioco del problema, si cimentano nell’impresa di cercarla una risposta. Qualcuno qualche idea inizia però ad averla.
Per ripensare il modo di trasmettere il sapere occorre un respiro ampio, che si ponga  il problema del rapporto tra scuola e società, tra modernità e democrazia, quattro secoli dopo che il moravo Jan Amos Komenskẏ, più conosciuto come Comenio, ha indicato nella scuola di massa e nell’educazione per tutti la nuova frontiera della modernità e la pasta stessa della democrazia, perché è attraverso la scuola che tutte le persone possono migliorare la propria condizione intellettuale e sociale.
Il rapporto tra sapere e società è diventato così forte, così intimo, così interpenetrato, da indurre molti sociologi a definire la nostra come “la società della conoscenza”. E da pretendere sia dalla scuola che dalla società di ripensare se stesse. E di ripensare la democrazia.

Entrambe, scuola e società, devono riconoscere che oggi la conoscenza è il più potente fattore di inclusione o di esclusione sociale.
Da sempre, naturalmente, la conoscenza ha un peso nella vita dei singoli e dell’intera società. D’altra parte non è un caso che, con un pizzico di presunzione, abbiamo definito sapiens la nostra specie. E abbiamo definito habilis – e abile in cosa, se non nell’applicare con sistematicità la propria capacità di acquisire nuova conoscenza? – la specie cui attribuiamo l’inaugurazione del nostro genere, Homo.

Oggi, tuttavia, il nostro rapporto con il sapere è cambiato. Perché la produzione incessante di nuova conoscenza è diventato il primum movens, il motore primo, della dinamica sociale e dell’economia. La nostra società è definita “della conoscenza” perché l’economia è sempre più fondata sulla “produzione di nuova conoscenza”. Non è semplice tradurre in cifre questa affermazione. I minimalisti sostengono che il 30% della ricchezza oggi prodotta al mondo è “economia della conoscenza”. Ma altri sostengono che è lecito persino raddoppiare questa percentuale: i due terzi dell’intera economia mondiale sarebbe fondata sulla produzione e/o trasmissione e/o applicazione di conoscenza. Alcuni consulenti dell’Amministrazione degli Stati Uniti d’America sostengono che l’80% della nuova ricchezza generata nel paese dal dopoguerra a oggi è frutto dell’innovazione tecnologica figlia della ricerca scientifica. Ovvero della produzione di nuova conoscenza intorno al mondo naturale.

 Ma non stiamo a sottilizzare sulla cifre. Una cosa è certa: la conoscenza è la cifra della nostra epoca. Mai un numero così alto di persone nel mondo ha avuto 15/20 anni di studio alle spalle: elementari, medie, università, educazione post-universitaria. Mai un così alto numero di giovani (il 40% in area OCSE) ha avuto una laurea. Mai un così alto numero di persone ha continuato  ad apprendere per tutta la vita (long life learning) come oggi.
Ma la nostra epoca è segnata anche dalla tecnologia (il che non è casuale). Nuovi strumenti tecnologi consentono l’accesso a e l’uso creativo di una quantità di informazione e di conoscenza (ebbene sì, anche di conoscenza) che non ha precedenti nella storia. Ed è una conoscenza che si sviluppa a rete: la rete di computer, la rete della telefonia mobile, le reti radiotelevisive, la rete delle reti. Queste reti sono sempre più interconnesse.
Tutti (o quasi) siamo connessi con tutti (o quasi).

E poiché la conoscenza è un bene strano – più persone la usano, più cresce – mai il mondo ha avuto una conoscenza collettiva così grande ed estesa.
Alimentata non solo dalla parola (orale o scritta) ma anche dall’immagine (la fotografia, i video), dai suoni (la musica) e dai simboli. Con un modello di trasmissione che non è più verticale (dal maestro e dal libro allo studente) ma anche orizzontale (da tutti verso tutti).
Gianni Rodari coglieva un elemento essenziale quando sosteneva che in un nuovo universo cognitivo è necessaria una nuova grammatica della fantasia. Il nuovo universo cognitivo e quello digitale. Quindi noi adulti, immigrati digitali, dobbiamo riscrivere daccapo la nostra grammatica della fantasia, se vogliamo comunicare e se vogliamo contribuire all’apprendimento efficace dei ragazzi di oggi, tutti nativi digitali.

In questa opera di rinnovamento profondo la scuola deve accettare e vincere due sfide. Una è la “sfida della quantità”. Occorre fare in modo che molti, tendenzialmente tutti devono poter compiere 15/20 anni di studi. Non a caso l’Europa si è posta come obiettivo quello che almeno il 40% dei suoi giovani tra i 25 e i 34 anni abbia una laurea. Ma alcuni paesi sfiorano il 60%. Uno, la Corea del Sud, il 70%. Fra trent’anni in Corea più dei due terzi delle persone in età da lavoro avranno una laurea. Ma non basta. La sfida quantitativa impone che molti, tendenzialmente tutti, abbiano non solo 15/20 anni di studi alle spalle e continuino ad apprendere per tutta la vita. Il long life learning è ormai considerato non solo un diritto di ciascuno, ma anche un bene comune. Una ricchezza cui nessuna nazione moderna può rinunciare, pena la sua stessa marginalizzazione culturale ed economica.

La seconda è la “sfida della qualità”. Occorre abbandonare l’idea che si possa trasmettere, con il classico approccio top-down, un sapere uguale per tutti. Occorre invece acquisire l’idea – ecco la nuova grammatica della fantasia – che ciascuno studente – o, per dirla con il sociologo francese Alain Touraine, ogni “soggetto individuale” – compartecipi con spirito critico e nel medesimo tempo creativo alla sua stessa formazione, secondo un percorso personalizzato che si modella sull’intelligenza, l’interesse, la creatività, i bisogni, le speranze, la storia di ciascuno.
Ogni ragazzo deve essere messo nelle condizioni di creare il suo percorso formativo.
Naturalmente lo spirito critico va esercitato anche nei confronti delle reti e della rete delle reti, che non sono sempre luoghi di trasparenza e che sono oggetto di un conflitto – una sorta di lotta per il controllo dei mezzi di ideazione – che la scuola (studenti e docenti) deve imparare a decifrare.

Accettare e vincere le due sfide per la scuola – che sono due sfide di libertà, di accesso (ognuno ha diritto a 15/20 anni di apprendimento) e di costruzione del proprio futuro (ognuno ha diritto a seguire le proprie individuali inclinazioni) – significa reinventare se stessa e proporsi come “scuola del soggetto”, in grado di perseguire l’”uguaglianza nella diversità”.
Ciò costituisce un inedito cambio di paradigma. Perché significa che, nell’era dei nativi digitali e della conoscenza che si trasferisce mediante reti con un’infinità di nodi, la scuola non deve avere come prima missione il merito – la trasmissione della conoscenza – di cui non ha più il monopolio, ma deve assumere fino in fondo il suo ruolo di educatrice e insegnare a ciascuno il metodo, come si apprende: cioè come si acquisisce e, magari, si produce conoscenza.

Non è né facile né scontato.
Non lo è per gli studenti, perché richiede (impone) loro di diventare attori del proprio destino culturale. Ma non è neppure impossibile. Perché la sfida richiede di apprendere ri-creandosi, in una dimensione, dunque, che è prima di tutto piacere, di interessare, di curiosità. Fuori da ogni dimensione competitiva.
Ma non è facile né scontato cambiare ruolo neppure per i docenti, perché chiede loro di trasformarsi da “agente che trasmette” a “guida che connette”. E tuttavia non è impossibile. Perché anche i docenti, nel nuovo ambiente informatica, stanno imparando a ri-creare il loro sapere. A vivere in un universo cognitivo fatto appunto di connessioni a rete e non più di singoli canali lineari.

Nel realizzare questo cambio di paradigma occorre certamente essere illuministi e guardare con ottimismo alle opportunità cui spalancano le nuove tecnologie. Ma, altrettanto certamente, occorre essere realisti. E riconoscere che, così com’è strutturata, la scuola, di ogni ordine è grado, ancorché in maniera molto diversificata, è in mezzo al guado. Mancano le risorse. In Italia la scuola è stata sottoposta a tagli molto pesanti: i tagli più pesanti, incredibile a dirsi, riservati da vari governi negli ultimi anni alla pubblica amministrazione: il doppio, rispetto alla media. Ma la scuola è in mezzo al guado anche e soprattutto perché è vecchia. Anche fisicamente. Il mondo intorno alle aule scolastiche è quello del XXI secolo. Ma le aule – metaforicamente e non solo – sono ancora quelle del XIX secolo.

Eppure non partiamo da zero. Abbiamo una tradizione importante di pensiero pedagogico che spalanca sul futuro. Magari ci siamo dimenticati di loro, ma non è un caso se il nostro paese  ha dato i natali a gente come Maria Montessori e don Lorenzo Milani, teorici e pionieri della scuola partecipata e personalizzata. Non è un caso che ha dato i natali a Gianni Rodari, teorico e pioniere della ri-creazione (nel suo duplice senso) continua dell’apprendimento. Non è un caso che ha dato i natali a Emma Castelnuovo, la matematica recentemente scomparsa che ha cercato strade nuove per insegnare la scienza dei numeri. E il pensiero scientifico come pensiero critico.

Queste tradizioni non si sono esaurite. Ancora oggi nella scuola italiana ci sono energie vitali. Anche oggi la scuola italiana ha, al suo interno, le risorse umane per accettare e cercare di vincere le sfide dei tempi.
Michel de Montaigne, già nel Seicento diceva: «Noi teniamo in serbo le opinioni e la scienza altrui, e questo è tutto. Bisogna farle nostre. A cosa ci serve la pancia piena di cibo, se non lo digeriamo? Se esso non si trasforma in noi? Se non ci fa crescere e non ci rende più forti?».

In queste parole c’è il programma per uscire dalla contingenza e dalle politiche di bilancio e per costruire, fisicamente e metaforicamente, nuove aule. Aule spalancate a tutti: è la sfida della democrazia nella società della conoscenza. Ma anche aule  in cui tutti, ciascuno secondo il proprio metabolismo, possono trovare e digerire il cibo della mente, trasformando i contenuti di sapere e di conoscenza in esperienze di costruzione d’identità, di elaborazione di progetti individuali, di capacità di adattarsi a un mondo che cambia e continuamente offre situazioni sempre nuove.

Difficile? Certo. Perché si tratta di una sfida epocale. Utopico? No. Perché si può trasformare in un grande programma politico. In cui i “soggetti individuali” sono chiamati finalmente a costruire la società democratica della conoscenza.