Sulla bocca di tutti

Negli ultimi tempi, un po’ più che nei precedenti, il cibo è sulla bocca di tutti.
Come potrebbe essere diversamente si chiederà qualcuno un po’ distratto. Può esserlo se ci riferiamo non a ciò che si mangia, cosa che peraltro non è per tutti, ma a ciò di cui si parla. È in questo senso che la parola cibo è, più frequentemente che in passato, “sulla bocca di tutti”.
Provo a chiedermi perché e a dare qualche personale spiegazione.


Lo faccio partendo dal congresso della Fondazione Barilla che Antonio Cianciullo ha presentato su “la Repubblica” del 30 novembre (Cibo & ambiente Rifondazione nutrizionista) il cui incipit è “Mangiare meglio, mangiare meno, mangiare tutti. È lo slogan lanciato dalla Fondazione Barilla Center for Food & Nutrition”. Uno slogan che, come è evidente e come sottolinea ancora Cianciullo, invita a tenere insieme “in un modello equilibrato” ambiente, salute e coesione sociale.
Un obiettivo non facile da raggiungere. Perché, per quanto paradossale possa sembrare, può anche darsi che entro non molti decenni si riuscirà a mettere veramente e materialmente cibo nella bocca di tutti, ma è difficile –per quanto auspicabile- che ciò avverrà nel rispetto dell’ambiente e, ancor più difficilmente, della salute. E mi riferisco soprattutto alla salute di chi avendo finalmente accesso quotidiano ad un’alimentazione che soddisfi l’atavica fame, sia anche indotto a rispettare la qualità e i colori del cibo (mi riferisco a quanto ho già scritto (Tutti i colori dell’arcocibo “la rivista del centro studi Città della scienza” 18 ottobre 2016 e L’arca dei prodotti a rischio estinzione “la Repubblica Napoli” 19 novembre 2016) .

Mangiare tutti insomma è più facile che mangiare meglio tutti e, nelle patrie degli obesi, che mangiar meno tutti.

Resta, perciò, di importante e quotidiana attualità la comunicazione di queste esigenze e il modo corretto in cui veicolare messaggi che diano risposte concrete e convincenti a tutti i destinatari dello slogan che ricordavo all’inizio.
Risposte concrete, convincenti e realizzate con azioni efficaci nel rispetto anche dei modelli alimentari che sono propri di civiltà diverse nate e cresciute in aree geografiche differenti. Per cui, per esempio, la mai troppo lodata (quanto non altrettanto praticata) dieta mediterranea non si può considerare un toccasana uguale per italiani, norvegesi, cinesi e sudafricani. Ma uno stile di vita e di alimentazione con le necessarie sostituzioni al suo interno legate alle pratiche agricole e zootecniche proprie di civiltà, storia e geografia differenti.

Ma tutto questo viene necessariamente dopo il “tutti”. Vale a dire che per quanto auspicabile sia che il soddisfacimento quantitativo della fame per tutti potesse avvenire contemporaneamente alle scelte qualitative, al momento il desiderio di metter quotidianamente un piatto in tavola, contenga quello che contenga, è necessariamente prevalente sulle scelte che hanno a che fare sull’ambiente e sulla salute.
Tutti, dunque. In genere il problema viene affrontato comparando la quantità di alimenti che quotidianamente finisce nella spazzatura nei paesi opulenti e la possibilità di dar da mangiare (e non a caso non dico nutrire) con quelle stesse quantità a milioni di affamati nei paesi poveri.
Meno lussi meno fame è il titolo di un articolo di Giuseppe Remuzzi su “La lettura Corriere della sera” del 23 ottobre 2016. Seguito da un occhiello nel quale si chiede: è morale la nostra vita, mentre tante persone muoiono di stenti? Ecco perché non possiamo sottrarci alla domanda di Peter Singer.

La domanda alla quale si riferisce Remuzzi è contenuta nel volume Famine, Affluence and Morality (Oxford University Press) nel quale Peter Singer, filosofo della Scienza, riprende e aggiorna temi già trattati sin dal 1972 con questo approccio etico da molti condiviso indipendentemente dalla conoscenza degli scritti di Singer.
L’approccio, cioè, sintetizzabile in un’altra domanda di Singer riportata da Giuseppe Remuzzi: “Non dovremmo destinare quello che a noi non serve a chi vive di povertà? Che senso ha far finta di niente solo perché chi soffre e muore è lontano da noi? Se possiamo evitarlo, salvo che non si debba sacrificare qualcosa di altrettanto importante per la nostra vita, abbiamo il dovere morale di occuparcene”.

Evito di entrare nel merito del “destinare quello che a noi non serve”, ma cerco di affrontare le modalità e quindi la utilità di questa azione passando a quelle che mi sembrano, invece, le più opportune soluzioni del problema.
Tuttavia, prima ancora, sono troppo tentato dal desiderio di dire qualcosa su quel “salvo che non si debba sacrificare…” E lo faccio semplicemente ricorrendo ai vangeli di Marco (12,41-44) e Luca (12, 1-4) circa l’obolo della povera vedova: [1]Alzati gli occhi, vide alcuni ricchi che gettavano le loro offerte nel tesoro. [2]Vide anche una vedova povera che vi gettava due spiccioli [3]e disse: «In verità vi dico: questa vedova, povera, ha messo più di tutti. [4]Tutti costoro, infatti, han deposto come offerta del loro superfluo, questa invece nella sua miseria ha dato tutto quanto aveva per vivere».

Chi scrive è Luca e le parole che riferisce sono di Gesù. Quello stesso Gesù che nel divertente sketch di Massimo Troisi ricordata da Antonio Pascale (Vandana Shiva che non ama la scienza, “Micromega” 5/2015), non si sa bene se è lui che dobbiamo ringraziare per il cibo che quotidianamente mangiamo oppure il nostro papà a seconda di come siamo stati educati a fare a scuola, al catechismo, in famiglia. Chi ci aiuta a dare una risposta al quesito è il droghiere il quale alla richiesta di Troisi su chi pagasse il conto risponde che Gesù non si era mai visto mentre il padre passava a pagare.
E questo è il nocciolo del problema: chi paga? Perché alimenti di cui cibarci l’agricoltura e la zootecnia ne forniscono e sono in grado di fornirne a sufficienza. Ma, malgrado l’approccio etico, questi cibi non sono un dono, bisogna pagarli. E, come si dice, senza soldi non si cantano messe. Il che significa che se i paesi poveri non fossero poveri, ma avessero una sufficiente disponibilità economica cibo ne potrebbero acquistare e magari, opportunamente informati sugli effetti, potrebbero anche distinguere tra cosa è meglio mangiare per la salute, in quale quantità e di quale colore.

Resta eticamente sconveniente sprecare cibo e buttarlo nella pattumiera perché chi raccoglie la parte organica dei rifiuti ne faccia poi compost per fertilizzare l’agricoltura in un ciclo praticamente inesauribile. Ma una cosa è certa: limitare o addirittura annullare quegli sprechi non aggiunge un grammo alla possibilità di sfamarsi di nostri concittadini, dove che siano, Tanto più se vivono a migliaia di chilometri di distanza.
Il punto di partenza allora dovrebbe essere la constatazione e consapevolezza che di cibo ce n’è per molti, addirittura per tutti, a condizione che tutti lo possano acquistare.

Ma allora perchè le previsioni di Malthus non si sono avverate? Il reverendo nel 1798 considerava la popolazione terrestre (allora vicina a toccare il primo miliardo) esuberante rispetto alla possibilità di sopravvivenza dal momento che mentre le produzioni crescevano secondo una progressione aritmetica (1,2,3,4…), la popolazione tendeva a crescere a ritmo geometrico (2,4,8,16…). Perché, tutto sommato, ce n’è stato per tutti pur in presenza di una popolazione che è aumentata di oltre sette volte in duecento anni? Per quanto riguarda l’agricoltura e quindi la potenziale produzione di cibo, ciò è avvenuto “grazie” alla rivoluzione verde che ha notevolmente incrementato la produttività per ettaro coltivato.
Tuttavia è questo un grazie non da tutti condiviso.

Pascale nell’articolo che prima ricordavo cita Vandana Shiva come uno dei principali guru di un filone di pensiero che, come scrive, “va molto di moda oggi –specie a sinistra”. Di quanti, cioè, negano che i vantaggi della rivoluzione verde siano superiori ai costi e ne criticano gli effetti collaterali invitando ad un ritorno a pratiche agricole più ecocompatibili come si usa dire. Un ritorno auspicabile come, in particolare, sostiene l’ambientalista e attivista politica indiana nel suo manifesto Terra viva frutto di un folto gruppo di lavoro operante a Firenze nel gennaio 2015. Nel quale la Shiva sostiene che: «sono i nostri agricoltori biologici le fondamenta del nostro cibo e del nostro futuro, restituendo materia organica al suolo e coltivandone la fertilità. Praticando l’agricoltura biologica contribuiscono alla conservazione dell’acqua e all’assorbimento di anidride carbonica dall’atmosfera, riducendo così il problema del cambiamento climatico».

Personalmente ritengo, diciamo così, “ingenerosa” la condanna della rivoluzione verde in agricoltura. Cioè di quell’insieme di interventi nuovi e anche innovativi che vanno dalla meccanizzazione di grandissima parte delle pratiche agricole (dall’aratura alla raccolta dei prodotti) all’uso diffuso dei fertilizzanti dei diserbanti e dei fitofarmaci tutti prodotti chimici di sintesi. È per l’uso massiccio di queste pratiche che le rese per ettaro sono enormemente aumentate e che è stato possibile offrire più cibo a sempre più persone in coincidenza con l’eccezionale aumento della domanda provocata da un altrettanto eccezionale aumento della popolazione terrestre.
Sostenere che con questa “rivoluzione” i costi siano stati superiori ai benefici non è tanto facilmente dimostrabile. Ma è anche vero che è fin troppo sottovalutato l’insieme dei costi ambientali (diffuso inquinamento idrico e atmosferico a causa dell’uso e abuso di sostanze chimiche; eccezionale consumo di acqua) rispetto ai benefici. Soprattutto quando si parla di benefici non bisogna riferirsi solo, per quanto importante, al dato secondo il quale negli ultimi settant’anni oltre due miliardi di persone in più hanno avuto la possibilità di sfamarsi, ma bisogna anche conoscere e valutare i benefici puramente economici ricavati dalle multinazionali dell’alimentazione.

Biopirateria definisce questa pratica Vandana Shiva (Biopirateria. Il saccheggio della natura e dei saperi indigeni, CUEN, Napoli 1999). Intendendo come tale il modo con cui le multinazionali dell’alimentazione si sono appropriate di risorse genetiche “tradizionali” modificandole e spesso insterilendole in laboratorio per poi rivendicarne la proprietà e la conseguente vendita agli agricoltori. È quello che l’Oxford Dictionary definisce «una forma di spoliazione delle nazioni in via di sviluppo attraverso una appropriazione».
Questo beneficio di pochi incide molto negativamente proprio sulla possibilità di favorire l’accesso al cibo dei paesi poveri. Perché se è vero, come ritengo che sia, che la sottoalimentazione e sottonutrizione che ancora colpisce –soprattutto in Africa- oltre 800milioni di persone dipende soprattutto dalla impossibilità economica di acquistare ciò di cui cibarsi, con l’appropriazione di cui dicevo aumentano i costi sia dei prodotti agricoli sia dei semi per produrli che, diventati di proprietà dei “biopirati” devono essere acquistati dagli agricoltori che ne avevano proprietà, uso e consumo.

Ha ragione, perciò, Vandana Shiva quando (“erbacce” ribelli “La nuova ecologia” ottobre 2016) riferisce delle sorti dell’amaranto (“uno dei più antichi cereali del mondo, diffuso dall’Himalaya alle Ande”) del quale «durante il colonialismo gli Usa resero illegale la coltivazione trattando i suoi semi come erbacce da eliminare». Un caso importante che è un significativo esempio del prevalere di interessi particolari (quelli della Monsanto nel caso in questione) sulla più semplice ed economica diffusione e utilizzazione di un bene comune.
Né è solo questo. La rivoluzione verde ha avuto indubbi meriti, ma l’incremento della produttività delle superfici agrarie non è espandibile all’infinito. E, come riconosce Antonio Pascale – che è anche ispettore agrario – «i problemi generati dall’agricoltura industriale ci sono. Compattamento del suolo, esaurimento di alcune risorse, acqua per esempio, esigono nuovi strumenti agronomici. Nuovi, appunto, non vecchi».

E nuovi sono certamente quelli che hanno come obiettivo quello di mettere il cibo nella bocca di tutti senza danneggiare ambiente e salute. E, magari, mettendo le mani nelle tasche di chi si è sino ad oggi illecitamente arricchito vendendo fitofarmaci, diserbanti e fertilizzanti anche dove, se e quando manifestamente inutili.
Ad esempio, è da tempo accertato che quella pratica diffusa a protezione dei raccolti che è la lotta a calendario (si inizia con interventi di protezione e se ne fanno tanti, secondo la calendarizzazione, sino al raccolto) protegge sì il raccolto, ma spesso questa protezione è il frutto di interventi inutili perché superflui e dannosi per l’ambiente che ne raccoglie le ricadute negativamente impattanti. Oltre che per l’agricoltore che fa uso impropriamente eccessivo di quei prodotti.

Se, invece, l’obiettivo è quello di “dare alla pianta solo quello di cui ha bisogno”, ne risentono positivamente, oltre la produzione comunque tutelata, l’ambiente, la salute e le tasche degli agricoltori. È quanto si può realizzare con la lotta guidata e integrata alle malattie delle piante e con quell’importante neo-scienza –se così la vogliamo definire- che è la, secondo me troppo trascurata- agrometeorologia.
Quella “scienza, cioè, che mettendo insieme le conoscenze agronomiche e meteorologiche consente di dare indicazioni sicure e credibili agli agricoltori sul dove, come quando e con quanto intervenire per tutelare le colture sino al raccolto.