Napoli e quei viaggi scientifici tra sette e ottocento che non t’aspetti

 

Che cos’hanno in comune Jean-Claude Richard de Saint-Non, Johann Wolfgang Goethe, Lazzaro Spallanzani, Johann Jacob Ferber, Dietrich Detlef, William Hamilton, Scipione Breislak, Cherles Lyell, Charles Babbage, Giuseppe Mercalli e altri ancora? Hanno tutti visitato il Regno di Napoli compiendo viaggi che non è azzardato definire scientifici nel senso moderno della parola. Viaggi, cioè, in cui la raccolta sistematica di dati e l’osservazione della natura e dei suoi fenomeni sono il vero scopo e l’obiettivo principale, ben distinto dalle pulsioni romantico-letterarie associate al mito del Grand Tour o alla riscoperta dell’antica cultura classica, greca e romana. A dire il vero, tra i nomi citati, un caso particolare è quello di Goethe e del suo Viaggio in Italia che, pur non avendo certo motivazioni e finalità strettamente (o dichiaratamente) scientifiche, si presta comunque a un’interessantissima lettura in chiave geologica. Su questo, però, torneremo tra breve.

Nel viaggio scientifico la raccolta dei dati e l’osservazione oggettiva dei fenomeni vengono prima di tutto e ogni altro aspetto finisce per passare in secondo piano. Quest’atteggiamento si riflette anche nelle forme della scrittura odeporica che, da pura narrazione letteraria, si trasforma in cronaca di viaggio, fonte inestimabile di conoscenza e informazioni su fenomeni, luoghi o culture diverse, diventando, così, strumentale allo studio successivo. Basti pensare alle descrizioni di Tahiti di Louis Antoine de Bougainville nel suo Voyage autour du monde (1771), che si configura quasi come atto di nascita ufficiale dell’antropologia moderna e che, con il concetto di “buon selvaggio”, finirà per ispirare Jean-Jacques Rousseau. D’altra parte, già tra Cinquecento e Seicento, il famoso naturalista bolognese Ulisse Aldrovandi aveva asserito l’importanza del viaggio come strumento conoscitivo per la scienza e aveva scritto: “Et io ancora sono stato quasi per tutta l’Italia et sue isole, et in Francia et in Spagna dimodoché posso dare notitia di molte [piante, n.d.a.], che da altri non siano state descritte, non ritrovandosi cosa, che apporti più utilità, che il fare viaggi in diversi tempi, conservando, et descrivendo l’istoria di ciascuna cosa, che si ritrova. Et se il leggere dà tanta utilità a i studiosi, dieci volte più ne dà la peregrinatione”.[1]

A questo punto diventa facile capire perché, proprio il Regno di Napoli fosse diventato meta privilegiata di peregrinazione per tanti studiosi e scienziati. Perché molte sue zone, soprattutto della Campania e della Sicilia, grazie alla presenza di numerosi siti vulcanici attivi e aree di grande interesse geologico, costituivano luoghi unici in cui osservare affascinanti e misteriosi fenomeni naturali come, ad esempio, il bradisismo. In particolare i Campi Flegrei, il Vesuvio, l’Etna, Stromboli e Vulcano, hanno esercitato un richiamo fortissimo su molti viaggiatori e studiosi di scienze della Terra. Ciò che, forse, è meno noto è che questi luoghi e viaggi hanno contribuito, talvolta anche in maniera decisiva, all’elaborazione e affermazione di peculiari teorie scientifiche. Così, specialmente tra Settecento e Ottocento, si svolge un vero pellegrinaggio in questi luoghi della “curiosità scientifica”, che si sovrappone e s’intreccia a quello nei luoghi delle antichità classiche. Di tutti questi viaggi restano tracce e testimonianze in varie forme: diarii, memorie, taccuini e raffigurazioni pittoriche. Possiamo provare a citare alcuni di questi viaggiatori, in un elenco che, per quanto incompleto, possa dare un’idea dell’enorme interesse suscitato da questi luoghi.

Giusto per fissare un arbitrario punto di partenza, potremmo iniziare con Jean-Claude Richard de Saint-Non, il famoso Abbé de Saint-Non, che nel suo viaggio in Italia rimase talmente colpito dal Sud, da dedicarvi una famosa opera, quel Voyage pittoresque, ou description des royaumes de Naples et de Sicile (1781-86), nel quale sono descritti e accuratamente illustrati luoghi straordinari come il Golfo di Pozzuoli, con tutto il complesso sistema vulcanico dei Campi Flegrei, o la Baia di Napoli con tanto di Vesuvio in eruzione.

Tra il 1786 e il 1788, poi, è la volta di Wolfgang Goethe, che in Italia resterà per quasi due anni, soggiornando a Napoli dal 25 febbraio al 29 marzo 1787 e poi ancora dal 13 maggio al 3 giugno.
Quello di Goethe fu certamente il viaggio di un letterato colto e sensibile sulle tracce della civiltà classica, ma fu anche un’esplorazione in cui abbondano i riferimenti al contesto naturalistico e finanche geologico dei luoghi. In Italia, infatti, il tedesco non si limita a perdersi nella nostalgica ammirazione dei bucolici paesaggi costellati di antiche rovine, piuttosto, con piglio da vero naturalista, si dà anche a raccogliere erbe e pietre e a studiare le rocce e la morfologia del territorio[2].

Come poteva, quindi, la curiosità di Goethe per i fenomeni naturali sottrarsi al potente richiamo dei tanti luoghi famosi che circondavano Napoli? Semplicemnete non poteva e, infatti, durante la sua permanenza nella capitale meridionale, Goethe visitò i Campi Flegrei, lasciandone un’estasiata descrizione, che restituisce le vivide sensazioni provate. Scrive, infatti, il primo marzo del 1787: “Una gita in mare fino a Pozzuoli, brevi e felici passeggiate in carrozza o a piedi attraverso il più prodigioso paese del mondo. Sotto il cielo più limpido il suolo più infido; macerie d’inconcepibile opulenza, mozzicate, sinistre; acque ribollenti, crepacci esalanti zolfo, montagne di scorie ribelli a ogni vegetazione, spazi brulli e desolati, e poi, d’improvviso, una verzura eternamente rigogliosa, che alligna dovunque può e s’innalza su tutta questa morte cingendo stagni e rivi, affermandosi con superbi gruppi di querce perfino sui fianchi d’un antico cratere. Ed eccoci così rimbalzati di continuo tra le manifestazioni della natura e quella dei popoli. Si vorrebbe riflettere, ma ci si sente impari al compito”.

Dalle descrizioni di Goethe sembra molto probabile che egli abbia visitato alcuni luoghi dei Campi Flegrei, particolarmente affascinanti dal punto di vista scientifico e molto noti all’epoca, come il Lago di Agnano, la Grotta del Cane, i Sudatori di San Germano e i laghetti della contrada dei Pisciarelli, alla base del versante esterno del vulcano Solfatara. Certa, invece, è la visita a un altro luogo unico di Napoli che, agli occhi di Goethe, riuniva l’ammirazione per l’ingegneria romana, il retaggio della poesia classica e la suggestione dei fenomeni naturali. Si tratta della Crypta Neapolitana, la galleria scavata dai romani nel I° Secolo a. C. nella collina che sovrasta Mergellina, per collegare direttamente le città di Neapolis e Puteoli, evitando la tortuosa Via Antiniana per colles. La galleria, esistente ancora oggi e che ha dato luogo ai due toponimi di “Piedigrotta” e “Fuorigrotta”, attraversa la collina di Posillipo per circa 700 metri, è larga tra i 4 e i 5 e alta tra i 5 e i 20 metri. È scavata nel Tufo Giallo Napoletano, la roccia che costituisce gran parte dei suoli di Napoli e dei Campi Flegrei, frutto della seconda più importante eruzione nella storia della Campania, avvenuta circa 15mila anni fa.

Ancora oggi, come ai tempi di Goethe, nei pressi dell’entrata di Piedigrotta sorge il monumento storicamente identificato con la tomba del poeta Virgilio, un elemento che dovette indubbiamente esercitare un fortissimo richiamo su Goethe che così descrisse il luogo: “…oggi mi sono dato alla pazza gioia, dedicando tutto il mio tempo a queste incomparabili bellezze… Questa sera ci siamo anche recati alla Grotta di Posillipo, nel momento in cui il sole, tramontando, passa coi suoi raggi fino alla parte opposta. Ho perdonato a tutti quelli che perdono la testa per questa città”. Qui, però, lo scrittore più che dalla tomba di Virgilio, sembra essere attratto dal fenomeno secondo il quale pare che, all’alba e al tramonto degli equinozi e prima che vari crolli ne modificassero il tracciato, gli ingressi della galleria si allineassero perfettamente con il sole, i cui raggi ne illuminavano completamente il percorso da un estremo all’altro.

Se questo era lo stupore destato in Goethe da questi luoghi, possiamo immaginare l’entusiasmo e i sentimenti suscitati dalla vera “star” delle attrazioni naturalistiche del tempo: il Vesuvio. E, infatti, ecco come il poeta descrive lo spettacolo che gli offrì una delle eruzioni del vulcano: Eravamo a una finestra dell’ultimo piano, col Vesuvio proprio di fronte; il sole era tramontato da un pezzo e il fiume di lava rosseggiava vivido, mentre il fumo che l’accompagnava andava prendendo una tinta dorata; la montagna mugghiava cupa, sovrastata da una gigantesca nube immobile, le cui masse a ogni nuovo getto si squarciavano balenando e illuminandosi come corpi solidi. Di lassù fin quasi al mare correva una lingua di braci e di vapori incandescenti; e mare e terra, rocce e alberi spiccavano nella luminosità del crepuscolo, chiari, placidi, in una magica fissità. All’abbracciare tutto questo con un solo sguardo, mentre dietro il monte, quasi a suggellare la visione incantevole, sorgeva la luna piena, c’era di che trasecolare”.

Per quanto affascinanti e senza dubbio evocative, queste descrizioni sono ben poco scientifiche ma, come già accennato, in questa incompleta galleria di personaggi che hanno visitato Napoli sulle tracce della scienza, Goethe è un caso piuttosto atipico. Non bisogna dimenticare, infatti, che egli era prima di tutto un letterato e non un vero scienziato e, per giunta, anche un viaggiatore con poco tempo per fermarsi a osservare con maggiore rigore i fenomeni naturali. Sicuramente più fortunato era, invece, chi poteva dedicare tutto il tempo di cui aveva bisogno per condurre studi ben più scientifici.

A questa categoria appartiene Sir William Hamilton, ambasciatore dell’Impero Britannico a Napoli dal 1764 al 1800, appassionato osservatore della vita e dei costumi locali ma, per quanto riguarda l’aspetto scientifico, soprattutto socio corrispondente da Napoli della Royal Society di Londra. Per oltre trent’anni Hamilton ebbe il compito di informare gli studiosi britannici sulle attività del Vesuvio e gli scavi archeologici di Pompei ed Ercolano e fu un vero studioso del vulcano napoletano e della geologia dei Campi Flegrei. I suoi sopralluoghi alla Solfatara di Pozzuoli o sul Vesuvio erano frequenti, anche durante le eruzioni, per meglio osservarne l’evolversi. Di queste spedizioni restano le straordinarie testimonianze pittoriche dell’artista Peter Fabris, della cui opera Hamilton spesso si serviva per illustrare i suoi studi e le sue memorie. È proprio grazie all’opera di Fabris che, ancora oggi, possiamo rivivere quei momenti e vedere, ad esempio, Hamilton mentre osserva le esalazioni di gas da una bocca della Solfatara di Pozzuoli o mentre, in compagnia della famiglia reale napoletana, osserva il fiume di lava che precipita, come una cascata, verso l’abitato di Resina, la notte dell’11 maggio 1771. In quest’ultimo caso, ad aumentare il realismo della scena, l’iscrizione che l’accompagna, “La scena è stata dipinta quella notte sul luogo” e il particolare, nell’angolo in basso a sinistra, dell’autore, Peter Fabris, che ha raffigurato se stesso nell’atto di ritrarre la scena.

Hamilton mentre osserva le esalazioni di gas da una bocca della Solfatara di Pozzuoli, ritratto da Peter Fabris

Hamilton mentre osserva le esalazioni di gas da una bocca della Solfatara di Pozzuoli, ritratto da Peter Fabris

Hamilton, in compagnia della famiglia reale napoletana, osserva il fiume di lava che precipita verso Resina. Peter Fabris

Hamilton, in compagnia della famiglia reale napoletana, osserva il fiume di lava che precipita verso Resina. Dipinto di Peter Fabris

Di questa lunga e appassionata attività di studio dei vulcani campani da parte di Hamilton, resta un segno tangibile nell’imponente trattato del 1776, Campi Phlegraei: Observations on the Volcanos of the Two Sicilies, un trattato in tre volumi accompagnato da numerose e accurate tavole a colori, realizzate sempre da Fabris, che riproducono scene di eruzioni, siti geologici o campioni di rocce e minerali, come in un catalogo scientifico.

Campioni di rocce ritrovate sul Vesuvio, Tavola XLVIII in, Campi Phlegraei di Sir William Hamilton.

Campioni di rocce ritrovate sul Vesuvio, Tavola XLVIII in, Campi Phlegraei di Sir William Hamilton.

Altro illustre viaggiatore scientifico di quel periodo fu il gesuita e abate, Lazzaro Spallanzani che nell’opera, Viaggi alle Due Sicilie e in alcune parti dell’Appennino, pubblicata nel 1797, riportò le osservazioni compiute durante un suo famoso viaggio del 1788 nelle regioni meridionali italiane. In questo caso Spallanzani dedica grande attenzione alla vulcanologia, soffermandosi, oltre che sul Vesuvio, particolarmente sulle isole vulcaniche siciliane, dove si trattenne per trentacinque giorni.  Di questo viaggio (che, tra l’altro, lo portò a essere il primo naturalista a mettere piede su Alicudi) restano le 1400 pagine dei volumi dell’opera citata di cui, quasi la metà, costituiscono un vero e proprio trattato scientifico sui feldspati delle isole Eolie. Notevoli e certamente più godibili per i non addetti ai lavori, sono invece le pagine dedicate al racconto del viaggio via mare che portò Spallanzani da Napoli a Messina, anch’esse ricche di interessanti descrizioni dei fenomeni vulcanici e nelle quali si coglie immediatamente lo sguardo curioso del naturalista.

Per essere partecipi dello stupore provocato dalla vista di certi fenomeni, basta leggere poche righe di quel racconto: “Partito essendo da Napoli per la Sicilia il 24 di Agosto del 1788, e l’entrante notte oltrepassate avendo di molto le bocche di Capri, cominciai a scorgere cotal prodigio di Stromboli, quantunque da me lontano ben cento miglia. Pareva un soffio di vampa, che d’improvviso mi feriva debilmente gli occhi, e che dopo due o tre secondi spariva. Scorsi dieci o dodici minuti primi, ricompariva la fiamma, poi dileguavasi. Per più ore fui contemplatore di quel picciolo spettacolo, il quale diversificava solamente nella maggiore o minore durata, e negl’intervalli alle accensioni frapposti. […] Fatto giorno, e maggiormente appressatomi all’Isola vulcanica, non più pel vivo lume solare vedevasi gittar fuoco, ma fumicare, con l’invariabil tenore però che i fumi avevano presso a poco le alternazioni nella fiamma osservate. […] Per qualche tratto di viaggio fummo accompagnati da una torma di marini animali, che ci fecero una specie di corteggio. Questi Delfini, che preso in mezzo il nostro legnetto si diedero a scherarvi attorno e, a trastullarsi, guizzando da prora a poppa, e da poppa a prora, d’improvviso profondandosi nell’onde, poi ricomparendo, e fuori cacciato il muso, lanciando a più piedi di altezza il getto d’acqua, che a riprese espellono dal forame che sul capo si apre. E in quegli allegri lor giochi appresi cosa non mai da me veduta nelle migliaja di questi piccioli cetacei in altri mari osservate. Ciò fu l’indicibile loro prestezza nel vibrarsi dentro l’acqua[3]. Nel suo volume, Spallanzani cita anche altri illustri viaggiatori come William Hamilton e Deodat Dolomieu, che lo avevano preceduto nello studio delle isole vulcaniche siciliane.

Tanto interesse verso i vulcani e la geologia meridionale in generale, non è casuale ma dovuto a un dibattito scientifico che si stava sviluppando in quei tempi, ben più ampio del solo aspetto vulcanologico. Un dibattito, per non dire un vero scontro, tra due teorie scientifiche e due scuole di pensiero contrapposte, che riguardava il modo in cui si erano formate le rocce, i minerali e, in definitiva, l’intera crosta terrestre. Si tratta della diatriba tra i cosiddetti “nettunisti” e “plutonisti”.

I primi, che avevano nel geologo tedesco Abraham Gottlib Werner il proprio scienziato di riferimento, attribuivano all’acqua un ruolo fondamentale nella formazione delle rocce che costituiscono la superficie terrestre e ipotizzavano che questa fosse costituita da una serie di strati prodotti da processi di sedimentazione meccanica e chimica, in un vasto oceano primordiale. Da qui, l’identificazione con il dio delle acque Nettuno. All’opposto, i plutonisti, che si rifacevano allo scienziato scozzese James Hutton, sostenevano l’origine ignea delle rocce, attribuendo al vulcanismo un ruolo fondamentale nella formazione delle rocce che, dunque, si sarebbero formate per solidificazione di masse fuse e per loro successiva alterazione. Ovvio, allora, il riferimento al dio degli inferi e del fuoco, Plutone[4].

Ebbene, proprio in questa diatriba, grazie alle osservazioni scientifiche dei viaggiatori del Settecento e Ottocento, giocheranno un ruolo non secondario i Campi Flegrei in generale, con un altro dei loro luoghi “mitici”: il Macellum di Pozzuoli, conosciuto anche come Tempio di Serapide o Serapeo.

Il Macellum di Pozzuoli oggi

Il Macellum di Pozzuoli oggi

Si tratta di una delle più note testimonianze archeologiche romane dell’area che, dalla sua scoperta nel 1750 e per gran parte dell’Ottocento, fu meta obbligata dei viaggiatori del Grand Tour che in esso trovavano racchiusi ben due enigmi: quello archeologico e quello scientifico. Il primo era dovuto all’unicità architettonica del monumento che, non trovando riscontri altrove, rendeva difficile attribuire all’edificio un’origine e una funzione precise. Il secondo, invece, era dovuto alla presenza, sulle colonne della struttura, di segni e fori lasciati in tempi diversi nel marmo da organismi marini litofagi, evidente indizio di un’oscillazione del suolo o del livello del mare.

Furono, dunque, proprio il mistero scientifico rappresentato dal Serapeo e la possibilità di chiarire definitivamente la questione nettunismo/plutonismo offerte dai Campi Flegrei, ad attrarre in quei luoghi, per decenni, innumerevoli viaggiatori e scienziati che riversarono le loro osservazioni e deduzioni in numerosi diari e saggi. Ne ricordiamo alcuni: nel 1776 Johann Jacob Ferber e Dietrich Detlef, Lettres Sur La Mineralogie Et Sur Divers Autres Objets de L’Histoire Naturelle de L’Italie; nel 1792, 1798, 1801, Scipione Breislak, Voyages physiques et lythologiques dans la Campanie; a William Hamilton e Wolfgang Goethe abbiamo già accennato; nel 1828, 1834, 1847, è la volta di Charles Babbage e le sue Observations on the Temple of Serapis at Pozzuoli near Naples; sempre nel 1828 è Charles Lyell, considerato il padre della moderna geologia, con Principles of Geology; a partire dal 1847 il geologo scozzese James Smith visitò il Serapeo più volte, a distanza di anni, relazionando alla Geological Society di Londra; nel 1883 è Giuseppe Mercalli con Vulcani e fenomeni vulcanici in Italia; in tempi più recenti, nel 1903, Robert Theodore Gunther e i suoi Contributions to the study of Earth-Movements in the Bay of Naples. L’elenco potrebbe continuare ma penso ci si possa fermare qui.

Alla fine, il mistero del Serapeo fu risolto, intorno al 1850, con la generale accettazione della spiegazione del fenomeno, con un lento movimento della crosta terrestre, dovuto alla periodica espansione e contrazione delle camere magmatiche sotteranee. Anche la disputa tra nettunisti e plutonisti terminò, con la vittoria di questi ultimi, già nei primi decenni dell’Ottocento, grazie soprattutto alla pubblicazione dei Principles of Geology di Charles Lyell. Fu così che, grazie alle colonne forate del Serapeo e ai fenomeni dei Campi Flegrei, nacque la teoria del bradisismo e furono mossi alcuni importanti passi verso la geologia come scienza moderna.

Di quella stagione oggi restano senza dubbio grandi avventure scientifiche e culturali, ma anche alcune domande cui, alla fine, bisognerà dare risposta: ora che l’epoca dei viaggiatori solitari e degli esploratori è finita e che la scienza ha incasellato quei luoghi in precise teorie, che cosa ne possiamo fare? E che senso possiamo dare, oggi, fuori dai laboratori, a quelle vicende? Come raccontare quelle storie?
Una modesta proposta potrebbe essere quella di aprire ai cittadini quei luoghi che, letteralmente, hanno fatto la storia della scienza, attraverso una ragionata offerta di turismo scientifico.

 

Note

[1] Bologna, Biblioteca Universitaria, ms. Aldrovandi 70, f. 64r-64v.
[2] Nel 2008, in occasione dell’Anno Internazionale del Pianeta Terra, l’Associazione Italiana Geologia e Turismo, con il supporto dell’ISPRA, ha condotto una rilettura in chiave geologica del Viaggio in Italia di Goethe, sfociata nell’interessante saggio divulgativo disponibile al seguente link: http://www.isprambiente.gov.it/files/pubblicazioni/pubblicazionidipregio/Viaggio_Goethe_rid.pdf
[3] Da Viaggi alle Due Sicilie e in alcune parti dell’Appennino, 1797, tomo secondo.
[4] È forse utile ricordare che, tra i viaggiatori di cui ci siamo occupati, Spallanzani fu un plutonista, mentre Goethe fu nettunista anche se, verso la fine della sua vita, il dubbio cominciò a insinuarsi anche in lui.