Franco Prattico e la comunicazione della scienza oggi

Inizia oggi, presso l’Università Tor Vergata di Roma, organizzato dal Corso di laurea interdipartimentale in “Scienze dell’informazione, della comunicazione e dell’editoria” dell’Università di Roma “Tor Vergata” e dal Centro Studi di Città della Scienza un ciclo di seminari di scienza, comunicazione e società in ricordo di Franco Prattico.

Ma chi era Franco Prattico e perché gli dedichiamo un ciclo di incontri universitari con l’intenzione di indagare la scienza e le sue relazioni con la società a trecentosessanta gradi?

Lo ricordiamo perché, quando, all’età di 83 anni è venuto a mancare, il 23 novembre 2012, non ha lasciato un vuoto. Al contrario, ha lasciato un largo campo seminato. Con tanti germogli che spuntano dal terreno, alcune piante e qualche arbusto già solido. Alcuni tra quei germogli, piante e arbusti hanno fattezze umane: sono giovani (quattrocento o giù di lì) comunicatori di scienza di eccezionale qualità. Altri tra quei germogli, piante e arbusti hanno fattezze eteree, ma non sono meno reali. Si chiamano democrazia, partecipazione, spirito critico, cultura.

 Al grande pubblico Franco Prattico era noto come giornalista – tutti lo conoscevano come la firma scientifica più prestigiosa del quotidiano La Repubblica – e come scrittore: i suoi libri sono altrettanti gioielli di critica della scienza. Già, perché questo lui diceva: noi giornalisti scientifici dobbiamo essere come i critici letterari, capaci di collocare una scoperta in un contesto culturale ampio.

Già, i giornalisti scientifici. In questo mondo ristretto Franco Prattico era conosciuto semplicemente come “il Maestro”. Non solo perché intellettuale raffinato e interprete acuto di quel gruppo di persone, ahinoi non troppo ampio, capace di navigare tra le discipline per affermare – anzi, per vivere – la profonda unità di quella che lui chiamava l’“unica cultura umana” nelle sue diverse e largamente sovrapposte dimensioni umanistiche e scientifiche. Ma anche perché Franco Prattico riusciva come nessun altro non solo a praticare, ma anche a trasmettere una visione del giornalismo scientifico – ma dovrei dire, tout court, culturale – che è insieme consapevole, alta e complessa. In una parola: critica. Un tipo di giornalismo che il fisico Carlo Bernardini ha giustamente definito romantico. Che, nella sua rarità – non tutti riusciamo a essere come Franco – è di straordinaria modernità.

Ma maestro – anzi, “il Maestro” – Franco lo è stato per davvero. Ed è in questa veste che ha seminato il campo culturale italiano, facendo germogliare nuovi comunicatori di scienza e nuove idee sulla comunicazione, sulla scienza e sui rapporti tra scienza e società, tutti incubati presso quel Master della Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati (SISSA) di Trieste che ora porta il suo nome. Con ciò fornendo un contributo impagabile allo sviluppo della cultura e della democrazia e della partecipazione alla vita democratica nel nostro paese.

Ma, prima di motivare tutte queste impegnative affermazioni, conviene ricordare chi era e cosa ha fatto nel corso della sua vita Franco Prattico.
Era nato nel cuore di Napoli, presso quella strada quotidianamente percorsa da Benedetto Croce che divide in due la città vecchia e che viene chiamata, per l’appunto, Spaccanapoli, il 29 ottobre 1929. Il giorno del crollo della borsa a Wall Street. Franco apparteneva a una famiglia colta ma che, anche per via della morte prematura del padre, ha conosciuto il sapore amaro della “grande depressione”.
Ciò non gli ha impedito di frequentare le scuole, fino alle medie superiori, e di farsi apprezzare tanto dai professori quanto dai compagni, tanto per le sue capacità intellettuali quanto per le sue qualità umane. Era, insomma, un bravo ragazzo. Vispo e intelligente. Ma anche consapevole dei sacrifici sopportati con levità dalla madre, vedova, per consentirgli di continuare i suoi studi.

Franco scrive bene. E usa la sua scrittura per raccontare quel suo mondo, fatto di impegno, privazioni e solidarietà. Per questo, finita la guerra, il giovanissimo Prattico entra nella redazione napoletana dell’Unità, all’Angiporto Galleria. Una sorta di palestra politica e culturale, frequentata da molti da quella costellazione di personaggi fuori dal comune rappresentata da Ermanno Rea (che di quella costellazione faceva parte) in Mistero napoletano. Tra tante, spicca la stella di Renato Caccioppoli, che molti considerano il più grande matematico italiano degli anni a cavallo del secondo conflitto mondiale. Nipote del russo Michail Bakunin, il teorico dell’anarchia, Caccioppoli era un intellettuale a tutto tondo: un matematico che considerava autentica poesia la sua materia; un politico acuto e intransigente; un trascinatore nemico di ogni conformismo. La figura di Caccioppoli ha segnato molto la visione del mondo di Franco Prattico.

Il giornalista ragazzo in quegli anni si occupava sì di cronaca – spesso di cronaca nera – ma gli piaceva misurarsi coi problemi della scienza. Sia perché, come Caccioppoli, la considerava parte integrante dell’unica cultura umana. Sia perché – la guerra lo aveva insegnato in maniera tragica – era la dimensione culturale che avrebbe informato di sé il futuro sociale ed economico dell’umanità. In breve: Franco avverte forte la tentazione di lasciare il giornalismo per studiare fisica e chiede consiglio al “compagno Caccioppoli”. Il quale, con quella sferzante ironia divenuta proverbiale, gli consiglia di lasciar perdere: «per il tuo bene e per quello della fisica».

Franco è rimasto in redazione. Non sappiamo se sia stato un bene per la fisica. Certo, lo è stato per il giornalismo. La sua esperienza professionale, nei successivi anni ’50 e ’60, è tanto intensa quanto eclettica. Da Napoli si trasferisce a Roma, presso la redazione nazionale dell’Unità. Poi è a Vie Nuove e a Paese Sera, dove diventa inviato di politica estera. Frequenta  il teatro, la letteratura gialla e i fronti di guerra. In un libro, Nel Corno d’Africa, ha raccontato la sua esperienza in Eritrea e la sua empatia per un popolo straordinario e una rivoluzione tutto sommato mancata. Tornato in Italia, sbarcò a Panorama, poi consuma una breve e, come sempre, intensa esperienza da direttore di un quotidiano locale, a Lecce, prima di approdare, all’inizio degli anni ’80,  a La Repubblica. Nel giovane quotidiano fondato da Eugenio Scalfari, Franco incontra di nuovo la scienza e le sue domande.

È il direttore in persona a chiedergli – con un approccio che Franco Prattico in un altro libro, La lampada di Aladino, giustamente definisce lungimirante – di occuparsi sì di giornalismo scientifico, ma in maniera originale: diamo la prova ai nostri lettori che la scienza è cultura. Cultura vera. E cos’è la cultura vera se non la capacità di connettere tra loro i vari campi del sapere, di trovare gli intrecci di significati e il senso comune tra linguaggi sempre più specialistici e sempre più incomunicanti?
Ecco, Franco non insegue l’ultima scoperta o l’ultimo ritrovato tecnologico. Il suo è un giornalismo scientifico atipico. Un giornalismo che connette.

Tuttavia lui intuisce, prima di altri colleghi e anche prima di molti scienziati, che il mondo è entrato in una nuova era, che un altro matematico che considera poesia la sua disciplina e una parte della storia dell’arte la matematica, Norbert Wiener, il padre della cibernetica, ha definito “era dell’informazione e della conoscenza”. Questa epoca è nuova non perché l’uomo scopre il valore intrinseco della conoscenza, ma perché la conoscenza è ormai diventata il valore aggiunto principale dei beni e dei servizi che gli uomini si scambiano. Una parte rilevante, se non preponderante, della conoscenza incorporata nei beni e nei servizi è conoscenza scientifica.

Giocoforza, in questa nuova fase dell’economia umana, cambiano i rapporti tra la scienza e la società. La conoscenza scientifica è penetrata nella società, imponendosi come il motore dell’economia. E la società ha abbattuto le mura della torre d’avorio ed è penetra nella strade e tra i vicoli della Repubblica, una volta autonoma, della scienza.
La domanda che Franco si rivolge – la domanda che “il Maestro ci rivolge – è una conseguenza di questa analisi: qual è il ruolo del giornalista scientifico nell’era dell’informazione e della conoscenza?

La risposta di Prattico scaturisce dalla sua storia, ma è esposta in maniera lucida nei suoi scritti. Il giornalista scientifico non può più assolvere al vecchio ruolo di traduttore dal linguaggio della scienza al linguaggio comune. Non può porsi come obiettivo quello di spiegare alla casalinga (e al casalingo) di Voghera cos’è un neutrino. Al giornalista scientifico oggi viene ormai chiesto molto di più:  sollevarsi su un colle e guardare lontano, spesso più lontano degli scienziati stessi, per osservare e interpretare in tempo reale il mondo che cambia con la scienza e il mondo che cambia la scienza.

Ma non c’è nulla di meglio per comprendere come Prattico interpreta, giorno dopo giorno, il suo ruolo di «intellettuale scientifico» che lasciargli la parola: «io credo che parlare, e scrivere, di scienze comporti […] la produzione di idee, di interpretazioni e di riflessioni sulla interazione dei risultati delle ricerche con la vita e con la cultura in generale, che spesso sfuggono a chi fa della scienza, anzi di una particolare disciplina, il proprio mestiere e persino far nascere opinioni ed ipotesi su risultati e indirizzi del lavoro scientifica».

Accettare quella che Italo Calvino – che non a caso è stato giornalista dell’Unità e collaboratore di Repubblica – ha definito la “sfida del labirinto”. Creare ponti tra le diverse dimensioni della cultura umana, osservare dove sta andando la scienza. Persino indicare alla scienza dove «la scarpa fa più male». Creare una nuova figura intellettuale che non solo sia un po’ filosofo, un po’ storico, un po’ sociologo e un po’ economista, ma sia capace di assolvere in tempo reale a tutte queste sue funzioni. Che connetta anche “qui e ora”.

È un traguardo ambizioso, forse persino velleitario quello che si (ci) assegna Franco Prattico. Ma non è un gesto di presunzione intellettuale questo suo modo di interpretare il giornalismo scientifico. Al contrario, è l’intuizione che occorra rispondere, attrezzandosi al più alto livello culturale possibile, alla nuove domande di integrazione e di analisi che vengono dalla società per dare corpo al concetto di cittadinanza scientifica e, in definitiva, al concetto stesso di democrazia, nell’”era dell’informazione e della conoscenza”
Dare un contributo decisivo alla costruzione di una società democratica della conoscenza, fondandola sulla partecipazione, allenando lo spirito critico: ecco l’obiettivo che si (ci) assegna Franco Prattico.

Fin qui l’intellettuale scientifico (e il militante politico). Ma, dicevamo, Franco Prattico è anche soprattutto «il Maestro». E, infatti, non solo ha interpretato al meglio quella funzione alta del giornalismo che ha teorizzato, ma ha voluto trasmetterla. È lui che, col fisico Paolo Budinich, ha avuto l’idea di fondare a Trieste all’inizio degli anni ’90 una scuola di giornalismo scientifico che si è poi concretizzata grazie alla collaborazione paritaria tra scienziati (come Daniele Amati e Stefano Fantoni) e giornalisti scientifici (come Daniela Minerva, Fabio Pagan, Romeo Bassoli, Gianfranco Bangone, chi scrive). Una scuola che ancora oggi, a venticinque anni di distanza, è tra le migliori d’Italia e non solo d’Italia.

Certo, malgrado l’esempio e l’insegnamento di Franco Prattico, il giornalista intellettuale a tutto tondo, lievito e animatore di una matura e piena cittadinanza  scientifica, è ancora lontana dal realizzarsi. L’intellettuale nuovo ancora non è nato. La società della conoscenza fa estrema fatica a diventare democratica. Ma noi non possiamo che ostinarci ad andare avanti. A risalire sulle spalle di giganti per cercare di guardare più lontano. A ricomporre l’unità del sapere e la promessa infranta della nuova era. A dare il nostro contributo affinché la conoscenza diventi fattore di inclusione e non di esclusione sociale.