Il Sud è fuori dalla società della conoscenza

Il Mezzogiorno è sempre più lontano dall’Italia e, ancor più, dall’Europa. Ce lo dicono – ce lo gridano – i numeri e le statistiche raccolti da vari enti e studiosi. Anzi, il Mezzogiorno è alla deriva, sostiene, numeri e statistiche alla mano, lo SVIMEZ. Sono numeri e statistiche che denunciano una realtà forse non inattesa, ma certo eclatante e insieme pericolosa. Una realtà su cui la classe dirigente italiana – il mondo della politica, il mondo della produzione, gli intellettuali – dovrebbe riflettere a fondo. E sulla quale dovrebbe agire, perché ne vale del futuro non solo del Sud, ma dell’intero paese. Perché oggi più che mai vale quanto diceva Giustino Fortunato un secolo fa o giù di lì: «Il Mezzogiorno, sappiatelo pure, sarà la fortuna o la sciagura d’Italia».

Eppure questi numeri e questa statistiche, queste analisi che gridano forte e chiaro la loro denuncia, non fanno rumore. Non fanno discutere. Il Mezzogiorno va alla deriva nell’indifferenza pressoché generale.

Non ha fatto un gran rumore, tranne qualche stizzita alzata di spalle, neppure il recente rapporto sull’economia del Sud d’Italia reso pubblico alla fine del mese di ottobre 2015 da SVIMEZ, l’Associazione per lo Sviluppo dell’Industria nel Mezzogiorno (1). In quel rapporto c’è scritto che nell’anno 2014 il Prodotto interno lordo (Pil) al Sud è diminuito dell’1,3%, sei volte quello del Centro-nord (-1,9%); che questa differenza viene dopo quella del 2013, quando il Pil del Mezzogiorno era diminuito del 2,7%: quasi il doppio del Centro-nord (-1,4%). E c’è scritto anche che dal 2008 al 2014 il Pil del Mezzogiorno è diminuito complessivamente del 13,0%: ancora una volta, quasi il doppio che nel Centro-nord (-7,4%).

Anche quando prende in esame un periodo più lungo – dal 2001 al 2014 – SVIMEZ constata che l’economia del Meridione ha subito una flessione del 9,4%, mentre il Centro-nord nel medesimo periodo ha fatto registrare un incremento della ricchezza dell’1,5%. In altri termini negli ultimi quattordici anni la forbice produttiva tra il Sud e il Centro-nord si è allargata di quasi l’11%.

Per tutto questo il Pil pro capite nel Mezzogiorno è sceso al 53,7% rispetto a quello nel Centro-nord. È uno dei livelli più basso nella storia dell’Italia unita. Solo dopo la Seconda guerra mondiale e nell’immediato intorno del 1995 il divario tra il Sud e il resto del paese è stato (leggermente) maggiore.

Le statistiche di SVIMEZ, dunque, parlano chiaro – gridano forte – e ci indicano almeno tre aspetti strutturali del “sistema paese” fuori dall’equilibrio e che chiedono interventi urgenti.

1) Se l’Italia è in declino, il Mezzogiorno è alla deriva. Il declino dell’Italia è evidente. Non solo in termini assoluti, ma anche in relazione al resto d’Europa. Come ricordano Sergio Ferrari e altri studiosi (2): tra il 1996 e il 2014 il paese ha avuto una crescita inferiore di 18,7 punti rispetto alla media europea. Il guaio è che questa forbice tende ad aumentare: se all’inizio del nuovo secolo la minore crescita dell’Italia rispetto all’Europa era dello 0,5% annuo, tra il 2010 e il 2014 è stata in media dell’1,5% annuo. L’Europa non tiene il passo del resto del mondo. Ma l’Italia non tiene neppure il passo dell’Europa. E se questo è vero – ed è vero – come definire la condizione del Mezzogiorno d’Italia se non come quella di una nave alla deriva? Rispetto alla media europea, infatti, il Mezzogiorno d’Italia cresce ogni anno del 3% in meno (ma in questo periodo di recessione è più corretto dire che decresce ogni anno del 3% in più). Questi differenziali, peraltro non indipendenti l’uno dall’altro, sono insostenibili. ­Il Sud non si sta staccando dall’Europa. Il Sud si è già staccato dall’Europa.

2) Ma anche nell’ambito della sola Italia la situazione è drammatica. La forbice tra il Mezzogiorno e il resto d’Italia, a oltre 150 anni dall’unificazione del paese, invece di stringersi, sta di nuovo allargando. Si calcola che nel 1871, a dieci anni dall’unificazione, il Pil pro capite di un meridionale fosse pari all’80% di un italiano che abitava nel Centro-nord: una differenza significativa, ma non enorme. Cento anni dopo le differenze erano aumentate: nel 1971 il Pil pro capite di un meridionale era appena il 61% di quello di un connazionale del Centro-Nord. Oggi, come abbiamo detto, la differenza è ancora aumentata: il Pil pro capite di un meridionale è appena il 53,7% di quello di un connazionale del Centro-Nord. La differenza è di per sé insostenibile. Ma lo è ancora di più – per l’intera economia italiana e non solo per la condizioni di vita nel Mezzogiorno – perché la forbice tende ad allargarsi e, soprattutto, perché non c’è nessuno che cerca di restringerla.

3) In questo ultimo quarto di secolo, infatti, abbiamo scoperto la “questione settentrionale”, ma abbiamo dimenticato la mai risolta “questione meridionale”. Non c’è dubbio alcuno che il declino italiano sia dovuto, anche, alla crisi nel Nord del paese. E che quella crisi va capita, affrontata e risolta. Ma l’emergere di una nuova “questione”, quella settentrionale, non può far dimenticare, come invece è avvenuto e sta ancora avvenendo, quella che esiste da prima, la  meridionale, che è più grave ed è concausa (forse la principale) della più generale “questione italiana”.

Il ritorno in grande stile della peraltro mai risolta “questione meridionale” sembra assumere le vesti classiche, come l’emigrazione che l’ha caratterizzata negli anni ’50 e ’60 del secolo scorso. Anni in cui la forbice tra il Pil procapite del Sud e del Centro-Nord era di poco superiore ai livelli attuali. C’è un’evidente correlazione tra la distanza che separa le due punte della forbice e la propensione a emigrare: a cercare altrove quella ricchezza che il tuo territorio non ti sa dare. E, infatti dal 2001 al 2013, il saldo netto delle migrazioni nel Mezzogiorno è stato fortemente negativo: pari a -744.000. Tra questa marea di persone che hanno fatto le valigie e sono partite ben 526.000 (il 70,7%) sono di età compresa tra i 15 e i 34 anni. Ancora una volta il Sud vede andar via i suoi ragazzi. Ma questa volta non sta perdendo le sue braccia più giovani e vigorose (non solo, almeno), ma sta perdendo (anche e soprattutto) i suoi cervelli più freschi e attrezzati. Trai i migranti, infatti, ben 205.000, il 27,6% del totale, sono giovani laureati.

Si tratta di un indicatore oltremodo significativo. Perché è la punta di un iceberg che contiene, per lo più sommerso, un carattere nuovo ma per certi versi anche antico della “questione meridionale”. Qui numeri sui migranti con laurea ci dicono che la “questione meridionale” non è più (solo) questione economica e sociale. Ma è anche e soprattutto questione culturale. Oggi la forbice tra il Mezzogiorno e il resto d’Italia – e il resto d’Europa e il resto del mondo – è anche e soprattutto di tipo cognitivo.

Ed è una forbice ad ampio spettro. Che investe l’università, la ricerca scientifica, la scuola (soprattutto la scuola media) e l’accesso alle ICT, la moderne tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Ovvero i motori dello sviluppo nell’era della conoscenza.

Fuga dall’università.

I giovani stanno lasciando il Sud. E quelli che restano, stanno lasciando gli studi.

Ancora una volta la matrioska del Sud è all’interno di quella italiana. Che a sua volta è all’interno di quella europea e mondiale. Fuor di metafora, secondo il rapporto dell’OECD Education at a Glance 2014 (3) in Italia i laureati di età compresa tra i 25 e i 64 anni sono 5,3 milioni. Un numero nettamente inferiore a quello degli altri grandi paesi europei, come il Regno Unito (13,5 milioni), la Germania (12,6 milioni), la Francia (10,0 milioni) e la Spagna (8,5 milioni). Ma un numero inferiore anche rispetto ad alcuni paesi extra-europei di dimensioni medie che hanno raggiunto di recente un livello economico paragonabile al nostro, come la Corea del sud (12,3 milioni di laureati). Ci sono paesi a economia emergente, come la Turchia, che hanno ormai raggiunto il nostro numero di laureati (5,2 milioni), ma con la concreta prospettiva di superarci a breve.

Certo, il raffronto va fatto in termini relativi. Ma allora la differenza – anzi, la divergenza – dell’Italia dal resto dei paesi OECD appare ancora più netta. Nella fascia di età considerata, l’Italia conta il 16% dei laureati, contro il 41% del regno Unito, il 32% della Spagna, il 41% della Corea del Sud. Solo la Turchia ne vanta di meno, ma per un pelo (15%). Sta di fatto che l’Italia non solo ha un numero di laureati inferiore alla metà della media OECD, ma la forbice tende ad aumentare.

Un secondo dato significativo di Education at a Glance 2014 è che tra i giovani (di età compresa tra i 25 e i 34 anni) la laurea è ormai diventato un titolo di massa. In media nei paesi OECD il 40% dei giovani in questa fascia di età ha conseguito una laurea. Erano appena il 26% nel 2000. La crescita, dunque, è davvero veloce. E in alcuni paesi i giovani con la laurea sono più di quelli senza laurea. Hanno il massimo titolo di studio il 57% dei giovani in Russia, il 58% in Canada, il 59% in Giappone e addirittura il 66% in Crea del Sud. L’Italia, con il 23%, è ancora volta in coda. Solo la Turchia in tutta l’area OECD ne ha di meno (21%). Ma ancora per poco. Tutte le proiezioni dicono che nel 2020 la Turchia avrà il 30% di giovani laureati, mentre lo scenario più ottimistico per l’Italia non va oltre il 27%. Tra pochi anni saremo gli ultimi della classe.

Se l’Italia è in ritardo rispetto al resto del mondo, il Mezzogiorno d’Italia è in ritardo rispetto anche all’Italia.

Tabella 1
Tasso di laureati per fascia di età
(anno 2013)

Età 25-64 anni

(in percentuale)

Età 25-34 anni

(in percentuale)

Unione Europea (media) 29,8 36,1
Italia 16,3 22,7
     Nord Ovest 17,1 25,4
     Nord Est 16,4 24,5
     Centro 19,1 25,5
     Mezzogiorno 14,0 18,7

Fonte: Istat ed Eurostat

In breve, le differenze con gli altri paesi sono drammatiche: siamo ultimi assoluti in Europa e con la prospettiva di diventare, tra pochi anni, ultimi tra tutti i paesi OECD. Ma il Rapporto sullo stato del sistema universitario e della ricerca 2013 (4) pubblicato lo scorso anno dall’ANVUR, l’Agenzia nazionale per la valutazione dell’università e la ricerca, rileva che differenze altrettanto drammatiche esistono anche all’interno del nostro paese: tra il Sud e il Centro-Nord.

Nell’anno accademico 2012/2013, infatti, il numero di giovani meridionali che si è iscritto all’università è diminuito del 30% rispetto all’anno 2003/04. E nell’anno accademico successivo la diminuzione ha sfiorato il 40%.

I dati più recenti dimostrano che in Italia, rispetto all’anno accademico 2004/2005, le iscrizioni all’università sono diminuite del 27,5%. Ma con una profonda differenza tra Centro-Nord e Sud del paese.

Tabella

Iscrizioni all’università per regione

(differenza percentuale anno 2014-2015 rispetto all’anno 2004/2005)

 

Valle d’Aosta + 16,5
Piemonte – 16,2
Lombardia –   8,8
Trentino Alto-Adige –   9,5
Veneto – 11,9
Friuli Venezia-Giulia – 27,2
Liguria – 20,9
Emilia-Romagna – 24,6
Toscana – 31,0
Umbria – 43,0
Marche – 12,9
Lazio – 28,0
Abruzzo – 56,0
Molise – 52,3
Campania – 28,1
Puglia – 36,6
Basilicata – 49,4
Calabria – 43,8
Sicilia – 50,7
Sardegna – 39,0

Fonte: Miur

Un’autentica fuga, appunto, dall’università. Che certo ha interessato anche il resto d’Italia, ma in misura decisamente minore. Nello stesso periodo il numero di iscrizioni è infatti diminuito di circa il 25% al Centro e del 10% al Nord.

Questa differenza rischia di allargare la forbice cognitiva tra “le due italie” che è già piuttosto aperta. Nel 2013 i giovani di età inferiore ai 35 anni in possesso di una laurea nel Mezzogiorno non superavano il 18,7% del totale. Un distacco di oltre sei punti punti dal Centro-nord (25,0%) e abissale rispetto alla media dei paesi OCSE (40%), per non parlare dei paesi all’avanguardia: Corea del Sud , Giappone, Canada e Russia.

Le differenze cognitive tra Mezzogiorno e resto d’Italia (e d’Europa e del mondo) è dunque evidente. Così come è evidente che è stata la crisi economica iniziata nel 2007 non a determinare ma certo ad accentuare la divaricazione. Nell’anno 2005/2006, infatti, i giovani meridionali che puntavano sulla conoscenza e frequentavano un corso universitario avevano raggiunto in numero assoluto i loro coetanei settentrionali: 674.000 contro 679.000. Sei anni dopo il numero di giovani settentrionali iscritti a un corso universitario è leggermente aumentato (fino a 685.000), mentre il numero dei giovani meridionali è crollato a 613.000 (-9,2%).

In realtà quella dei giovani meridionali non è una sola fuga. Ma una fuga doppia. Dagli studi. Ma anche dagli atenei del Sud. Tra gli ormai pochi giovani meridionali che si iscrivono all’università, infatti, uno su quattro – il 25,4% del Mezzogiorno continentale e il 25,0% delle Isole – sceglie un ateneo fuori dalla propria regione. Contro il 9,0% dei giovani del Centro, l’8,8% dei giovani del Nord-Est e l’8,0% dei giovani del Nord-Ovest.

Poiché parte importante dei giovani meridionali che si iscrivono a un’università fuori regione, ne sceglie una del Centro o del Nord, ecco che anche la perdita cognitiva del Sud è duplice: vanno via sia i pochi laureati sia i sempre più rari studenti.

Con un prezzo gravissimo che il Mezzogiorno sta già pagando e pagherà ancor più in futuro in termini di classe dirigente e di creatività nel prossimo futuro.

Non aiutano le politiche per l’università. Intanto quelle del Sud subiscono sia i tagli lineari delle varie finanziarie, sia i tagli del personale che, nell’ambito della pubblica amministrazione, è secondo solo a quello della scuola. Ma subiscono anche le nuove regole sul turn over, che premiano gli atenei con “i conti a posto” (o, almeno, con certi tipi di bilancio) e penalizzano quelli con i conti più problematici. Ora si dà il caso che la gran parte degli atenei che perdono “punti organici”, in definitiva posti per docenti, sono del Mezzogiorno. Ci sono università, come quella di Bari, che vedono il turn over ridotto al 7% (ogni cento docenti che vanno in pensione, solo 7 possono essere rimpiazzati). In pratica si tratta di un drastico abbattimento dell’offerta didattica che avrà due conseguenze: sempre minore appeal delle università meridionali con conseguente migrazione degli studenti, sempre minore offerta al Sud di occupazione ad alto tasso di conoscenza aggiunto. Il rischio, altissimo, è la desertificazione cognitiva del Mezzogiorno.

 La ricerca.

È ancora SVIMEZ a documentare come il Mezzogiorno stia subendo un ulteriore, doppio processo di desertificazione: industriale e umano. Sempre meno fabbriche, sempre meno lavoratori (per la prima volta negli ultimi 20 anni nel 2013 gli occupati al Sud sono scesi sotto la soglia dei 6 milioni), sempre meno lavoratori qualificati. Una delle cause di questi processi di inaridimento dell’economia va cercata nella divaricazione – anch’essa crescente – degli investimenti in ricerca scientifica e sviluppo tecnologico (R&S). Anche in questo caso c’è un gap tra l’Italia e il resto del mondo: il nostro paese con il suo 1,2% rispetto al Pil investe in R&S la metà della media europea e mondiale. Ma, anche in questo caso, c’è un vistoso gap anche all’interno del nostro paese. Secondo i dati  SVIMEZ, infatti, gli investimenti in R&S nel Mezzogiorno ammontano allo 0,88% del Pil meridione, contro la media nazionale dell’1,2% e la media del Centro-Nord dell’1,4%. In definitiva, nel Mezzogiorno gli investimenti in R&S sono del 55% inferiori alla media europea e mondiale e del 37% inferiori rispetto al Centro-Nord. Tutte le regioni del Mezzogiorno investono in R&S meno della media nazionale. Ma non tutte sono uguali. A fronte di alcune, come l’Abruzzo e la Campania, che hanno un’intensità di investimenti (1,1%) tutto sommato prossima a quella media nazionale, ce ne sono altre come la Calabria (0,4%), la Basilicata (0,5%) o il Molise (0,4%) dove gli investimenti sono pressoché nulli. Paragonabili, per essere chiari, all’intensità di investimento dei paesi più poveri del quarto mondo.

Ma senza ricerca e sviluppo crollano drasticamente le possibilità di entrare e svolgere un ruolo nell’economia della conoscenza.

         Scuola.

Il tema scuola è troppo ampio per poterlo trattare anche solo a volo d’uccello nel breve paragrafo di un articolo giornalistico. Certo, un punto di parità se non di superiorità tra il Sud e il resto del paese esiste: nel 2010, secondo SVIMEZ (rapporto 2014), l’incidenza dei diplomati nel Mezzogiorno (76,3% dei diciannovenni) è nettamente superiore a quello del Centro-Nord (69,9%). Tuttavia anche nell’ambito delle scuole primarie e secondarie il Mezzogiorno ha una serie di gap che tendono a estendersi rispetto al Centro e al Nord. Intanto c’è un gap di infrastrutture. Gli edifici e le aule frequentate dai ragazzi meridionali sono spesso inadatti se non fatiscenti. E studiare in edifici e aule inadatte ha effetti sulla qualità dell’apprendimento.

Ma ci sono anche altri indicatori, quantitativi, che denunciano l’ennesima forbice tra il Mezzogiorno, il resto del paese e il resto d’Europa. Per esempio, gli abbandoni immediatamente dopo la scuola dell’obbligo. Gli ultimi dati ANIEF, l’associazione degli insegnanti italiani, resi pubblici nel mese di dicembre 2013, denunciano un tasso di abbandono medio in Italia del 17,6%, contro la media europea del 12,7% (5). Ma gli abbandoni sono concentrati soprattutto al Sud, con punte del 25% in Campania o in Sardegna.

Anche la forbice della qualità è larga. Secondo un rapporto OCSE-PISA nel 2009 i quindicenni meridionali che avevano una scarsa capacità di lettura erano il 27,5% del totale. Ben 11 punti in più rispetto ai coetanei del resto del paese. E la capacità matematiche insufficienti riguardavano il 33,5% dei quindicenni meridionali: 14 punti percentuali in più rispetto al resto del paese.

La disuguaglianza non è antropologica. Tra i licei del Sud e quelli del Centro-Nord, nonostante le diverse condizioni al contorno, non c’è grande differenza qualitativa. Il problema riguarda soprattutto le scuole professionali nel Mezzogiorno. E la cause delle loro insufficienze sono più sociali che pedagogiche.

Resta il fatto che i giovani meridionali hanno, in media, una preparazione meno efficace di quella dei loro coetanei nel resto d’Italia e d’Europa. E questo è un altro aspetto – un aspetto importantissimo – del complessivo gap cognitivo e, in fondo, della “grande depressione” che da qualche anno soffre il Mezzogiorno.

         Il digital divide.

Nell’era ICT, delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, non sono solo la scuola e la famiglia a offrire opportunità di crescita culturale. Sono anche i media digitali che consentono l’acquisizione di conoscenza e l’estensione delle relazioni. Difficile misurare quanto e come si apprende attraverso i nuovi media. Tuttavia l’accesso a questi media è un pre-requisito per la formazione extrascolastica. E anche da questo punto di vista le disuguaglianze  – che gli esperti chiamano digital divide – tra il Mezzogiorno e il resto del paese sono notevoli. Secondo gli ultimi dati ISTAT (dicembre 2013), ha accesso a internet solo il 55,1% della popolazione del Mezzogiorno continentale e il 54,7% della popolazione delle Mezzogiorno insulare. Quasi 9 punti percentuali in meno del Centro-nord. Allo stesso modo nel Sud continentale ha  accesso a un cellulare connesso a internet il 35,6%  della popolazione, percentuale che sale al 37,1% in Sicilia e Sardegna.  Nel Centro-Nord ha un cellulare connesso a internet oltre il 48% della popolazione. In questo caso il digital divide tocca, in media, i 12 punti percentuali. Non è poco.

La “nuova questione meridionale”.

Riassumendo. La “questione meridionale” è, oggi, soprattutto una questione culturale: è il knowledge-divide, la disuguaglianza culturale con il resto d’Italia, d’Europa e del mondo. Questo gap non è solo l’effetto, ma probabilmente è la causa (non l’unica, ma la più importante) del declino economico – anzi, della “grande depressione” – del Mezzogiorno. Esiste anche un gap formativo insostenibile tra il Mezzogiorno e il resto del paese.  I giovani del Sud si diplomano in massa, ma poi smettono di credere nello studio. Molti emigrano. Nelle università del Sud ci sono sempre meno studenti e  c’è sempre meno offerta formativa. Nelle scuole meridionali c’è un problema di qualità e i giovani meridionali hanno difficoltà di accesso alle nuove tecnologie.  Inoltre c’è un creative divide, una disuguaglianza nella diffusione dei centri dove si produce nuova conoscenza: astratta o oggettivata. Mancano i laboratori di ricerca scientifica e di sviluppo tecnologico.

Tutto questo produce degli effetti. Alcuni tangibili. La disoccupazione giovanile nel Mezzogiorno è molto alta. Molto più alta che al Centro-Nord. E i Neet, i giovani tra i 15 e i 34 anni che né studiano né lavorano, nel 2010 erano addirittura il 35,5% del totale nel Mezzogiorno, contro il 17,5% del resto del paese.

Altri effetti sono meno visibili, ma, se possibile, più profondi. Negli ultimi venti anni l’industria classica è pressoché scomparsa dal Mezzogiorno d’Italia. E, in pratica, nulla l’ha sostituita. Persino il turismo non attecchisce. Malgrado le risorse paesaggistiche e la gran profusione di beni culturali, solo il 13% degli stranieri che vengono in Italia fanno una capatina al Sud.

Il Mezzogiorno non ha materie prime e l’agricoltura moderna può dare un contributo importante, ma non decisivo alla crescita dell’economia. È chiaro, dunque, che l’unica opzione spendibile per lo sviluppo del Mezzogiorno risiede nella produzione di beni e di servizi ad alto tasso di conoscenza aggiunto.

Ma il mare di cifre che vi abbiamo offerto dimostra che – incredibile a dirsi – il Mezzogiorno e l’Italia hanno rinunciato a quest’unica opzione. Creando le premesse della “grande depressione”, che dal presente rischia di inoltrarsi in profondità nel futuro. E non solo del Sud. Perché vale sempre quanto diceva Giustino Fortunato nel lontano 1880: «Il Mezzogiorno, sappiatelo pure, sarà la fortuna o la sciagura d’Italia!».

Che fare?

 

La spesa pubblica in Italia cresce, anche al netto del debito pubblico. Ma alcune voci di spesa diminuiscono. E anche piuttosto drasticamente. Le voci che diminuiscono di più sono gli investimenti in ricerca, università e scuola. Soprattutto al Sud.

È questo, in estrema sintesi, quello che ci dice il documento “L’andamento delle spese per missioni, programmi e stati di previsione del bilancio dello Stato nel periodo 2008-2014” che la Ragioneria dello Stato ha presentato in Senato lo scorso mese di dicembre (6).

Ricordiamo, ancora, qualche numero. Le spese dello stato nel 2014 ammontano a oltre 825 miliardi di euro, con un aumento del 12,9% rispetto al minimo del periodo (l’anno 2008). La spesa per pagare il debito la fa da padrona. Ma, anche al netto degli interessi sul debito, la spesa dello Stato è aumentata di circa 50 miliardi nel 2014 rispetto al minimo del periodo (il 2011): un incremento del 10,7%.

Ma, mentre la spesa pubblica aumentava, ci sono state dei capitoli di spesa che sono diminuiti. Tra i principali tagli ci sono quelli all’istruzione scolastica: -4,2 miliardi, pari al 7,5% del budget massimo relativo del 2009; alla ricerca scientifica: -1,3 miliardi rispetto al massimo relativo del 2008; all’istruzione universitaria: – 0,8 miliardi rispetto al massimo relativo del 2008.

In termini percentuali i tagli più drastici hanno riguardato la ricerca scientifica, con un secco e per certi versi clamoroso -31,1%. Il che porta la spesa di questa “missione” (Tabella 2) dallo 0,56 allo 0,34% dell’intera spesa pubblica. In particolare la spesa in ricerca di base scende dallo 0,14 allo 0,12% della spesa dello stato.

Anche l’istruzione universitaria ha subito tagli piuttosto netti, per un ammontare di 0,8 miliardi di euro rispetto al massimo relativo del 2008. In percentuale significa un netto – 9,6%, il che porta la spesa pubblica          per l’università dall’1,19 allo 0,95% del bilancio dello stato.

Infine la scuola. Nel 2014 i tagli ammontano a 4,2 miliardi rispetto al massimo relativo del 2009. Una diminuzione del 6,5%, che porta la spesa pubblica in istruzione scolastica dal 5,69 al 5,00% della spesa totale dello Stato.

Dal rapporto della Ragioneria dello Stato un dato, dunque, emerge con chiarezza: i vari governi in questi anni di crisi hanno cercato di far quadrare i conti del bilancio statale tagliando soprattutto in ricerca e formazione. Il “pacchetto conoscenza”, infatti, è diminuito non solo in assoluto, ma anche in termini relativi: dal 3,33% al 3,19% del Pil.

Di più il “pacchetto conoscenza” è quello dove i governi italiani hanno tagliato di più. In netta controtendenza rispetto ad altri paesi europei e non, dove la spesa in ricerca e formazione continua ad aumentare.

         Quella dell’Italia è stata ed è una scelta strategica suicida. Per dirla con Barack H. Obama, mentre l’aereo perde quota non stiamo buttando giù la zavorra, ma il motore. Perché la formazione e la scienza sono il motore della società e dell’economia della conoscenza. La società e l’economia del nostro tempo e, presumibilmente, del futuro.

Che  fare, dunque, in queste condizioni? Che fare nel Mezzogiorno in queste condizioni?

Non possiamo limitarci a cercare di salvare il salvabile. Non basta tentare di limare qualche taglio o di cancellare qualche norma particolarmente obbrobriosa. Occorre capovolgere il tavolo, iniziando a rispondere alle prime due domande che ogni classe dirigente deve porsi. Quale futuro immaginiamo per il Sud e per il nostro paese? Quale futuro immaginiamo per l’economia del Mezzogiorno e dell’Italia intera paese?

Non possiamo più seguire la ricetta che ha funzionato tra gli anni ’60 e gli anni ’80 e produrre beni materiali a bassa e media tecnologia. Allora il mondo industrializzato con un’economia di mercato era piuttosto piccolo (Europa, Nord America, Giappone) e noi eravamo i più poveri tra i ricchi. Così, anche facendo leva sull’asimmetria Nord/Sud, potevamo competere nella nicchia di mercato low-tech e medium-tech grazie al basso costo del lavoro e alle frequenti “svalutazioni competitive” della lira. Oggi, nel mondo della “nuova globalizzazione” siamo (ma fino a quando?) un paese tra i più ricchi. E abbiamo una moneta forte, l’euro, non svalutabile a piacimento.

Se cerchiamo, come stiamo facendo, di rincorrere i paesi a economia emergente sul costo del lavoro realizziamo un dumping sociale che si traduce sia in una recessione continua (ora esplicita ora strisciante), in uno sfarinamento della coesione sociale (crescita della disuguaglianza tra i ceti e le aree del paese) e anche in una rapida erosione degli spazi di democrazia sui luoghi di lavoro. E non solo.

L’unica possibilità che abbiamo per aumentare la competitività del sistema paese e non erodere ulteriormente il benessere di parti sempre più cospicue di popolazione è cambiare la specializzazione produttiva del paese. Accettare la sfida dell’economia della conoscenza e cercare di seguire un percorso di rapida re-industrializzazione fondata sulla produzione di beni hi-tech, ad alta tecnologia. E poiché vogliamo che il futuro del paese sia socialmente ed ecologicamente sostenibile, occorre che questi beni siano, almeno tendenzialmente, beni comuni e non beni di consumo individuali e ad alto tasso di immaterialità.

Questo progetto riguarda anche e, anzi, in primo luogo il Sud d’Italia.

Per realizzare un simile, titanico cambiamento occorre l’intervento dello Stato. Non dobbiamo avere paura di chiedere una maggiore presenza dello Stato in economia: dagli Stati Uniti alla Cina, dall’India alla Corea, la storia dimostra che tutti in tutti i paesi che hanno rapidamente cambiato la propria specializzazione produttiva con qualsivoglia regime politico è lo stato che ha diretto la partita. Il mercato, da solo, non ce la fa.

Cosa deve fare lo stato italiano per vincere la sfida del cambiamento della specializzazione produttiva del sistema paese? Non abbiamo ricette. Ma qualche proposta sì. Tre, in particolare. Deve aumentare la disponibilità di risorse umane: ovvero di giovani laureati e dottori di ricerca. Deve favorire l’emergere di una nuova classe di imprenditori con una vocazione per l’alta tecnologia. E, infine, deve evocare una domanda di beni ad alta tecnologia.

Nel primo caso significa che lo stato italiano deve fare come la Germania o la Svezia: pur in un quadro di compatibilità di bilancio, aumentare (e non diminuire) gli investimenti nell’università, nella ricerca e nella scuola. Riempire e non svuotare il “pacchetto  di conoscenza”, soprattutto al Sud.

Per fare questo, azzardiamo delle cifre che vogliono essere più l’indicazione di un ordine di grandezza che non di un investimento preciso. Occorre trovare e investire almeno 5 miliardi nuovi e aggiuntivi per la ricerca pubblica e 5 miliardi nuovi e aggiuntivi per l’alta formazione. Per trovare queste risorse basterebbe tagliare la spesa pubblica improduttiva o reintrodurre la tassa sulla prima casa oltre un certo reddito e tassare rendite e patrimoni. Chi di noi non sarebbe disposto a pagare un po’ di tasse sulla casa per assicurare un futuro ai suoi figli?

Dieci miliardi non sono una cifra esagerata. Anche in regime di tagli complessivi alla spesa pubblica, la Germania immette molto di più nel “pacchetto conoscenza” (e a,che grazie a questa politica sta risolvendo la sua “questione orientale”). E anche paesi più piccoli dell’Italia, come la Svezia, aumentano gli investimenti in conoscenza mettendo in campo risorse nuove e aggiuntive di quest’ordine di grandezza.

Con questi soldi sarebbe possibile sia assumere alcune decine di migliaia di giovani nei laboratori di ricerca e nelle università, sia porre fine a quello sconcio (un autentico boomerang) di cui pochi parlano e che rende l’Italia uno dei pochi paesi al mondo – insieme a qualche satrapia mediorientale – che ha politiche attive per impedire l’arrivo dei giovani cervelli dall’estero. Contrariamente a quanto si pensa, infatti, non c’è in Italia un’anomala “fuga dei cervelli”: al contrario, quello che manca è un flusso in entrata di cervelli stranieri.

Attualmente l’Italia ha circa 80.000 ricercatori. Contro i 110.000 della Spagna o i 260.000 della Germania. Facendo entrare nei laboratori e nelle università 30.000 giovani, raggiungeremmo lo stesso numero della Spagna e ne avremmo sempre meno della metà della Germania.

Per stimolare la nascita “dal basso” di una nuova classe imprenditrice con vocazione all’alta tecnologia si potrebbe realizzare con soldi pubblici (semplicemente reindirizzando il sostegno alle industrie) quello che negli Usa è stato fatto con “venture capitals” privati: finanziare imprese ad alto rischio ma ad alto tasso di innovazione. Questi fondi – da restituire, se l’impresa ha successo – dovrebbero finanziare progetti selezionati da commissioni di esperti secondo standard internazionali e, magari, costituite da membri prevalentemente stranieri.

Tutto questo non basta. Lo stato deve anche evocare domanda di alta tecnologia – come hanno fatto gli Usa negli anni ’60 con la corsa allo spazio e negli anni ’70 con la “guerra al cancro” – nella speranza che le imprese italiane si diano da fare per soddisfarla. Ma domanda di che beni?

Abbiamo detto che i beni devono essere pubblici e non per il consumo individuale. Allora i grandi progetti che le stato deve intraprendere potrebbero indirizzarsi verso tra grandi obiettivi: cambiare il paradigma energetico del paese, accelerando la transizione dai combustibili fossili verso le fonti rinnovabili e il risparmio energetico.

Un secondo settore è quello della tutela del territorio, che è un bene pubblico. Ne abbiamo uno in dotazione che è molto bello, molto fragile e costantemente aggredito. Abbiamo un alto rischio idrogeologico, un alto rischio sismico e vulcanologico, un alto rischio di inquinamento da rifiuti tossici e nocivi, un elevato tasso di abusivismo edilizio. Dobbiamo recuperare l’integrità perduta del territorio e minimizzare gli effetti delle calamità naturali. Per fare questo c’è bisogno di un piano organico e di alta tecnologia (elettronica e informatica, ottica, chimica avanzata, nanotecnologie, biotecnologie). Le ricadute – in termini di benessere delle persone, ma anche di turismo – sarebbero enormi. Ma potremmo acquisire un know-how per competere nel settore con beni (ad alto tasso di immaterialità) e servizi.

Un terzo settore, peraltro collegato al precedente, riguarda la tutela dei beni culturali (altro bene pubblico). Si dice che l’Italia possiede la metà dell’intero patrimonio culturale mondiale. Non è vero. Ma ne possiede in parte considerevole. E il Mezzogiorno non è certo da meno del resto d’Italia. Dobbiamo però ancora imparare come si tutela. Basta dare farsi una passeggiata a Pompei per rendersene conto. Oggi la tutela dei beni culturali può avvenire solo sviluppando organizzazione avanzata e alta tecnologia. Trasformandoli in ambienti di creatività e non in meri “giacimenti”. Se riuscissimo a farlo non solo ritorneremmo in pieno possesso di un patrimonio che stiamo dilapidando, ma potremmo vendere al resto del mondo i servizi e le tecnologie (elettronica e informatica, ottica, chimica avanzata, nanotecnologie, biotecnologie) per tutelare il patrimonio culturale dell’umanità.

Non pretendiamo che queste proposte siano né le uniche né le migliori possibili. Ci piacerebbe, però, che si iniziasse a discuterne. Per dare un futuro al Mezzogiorno e, quindi, al paese.

Note

(*) versione, aggiornata al 15 novembre 2015, di un articolo pubblicato su: la Rivista delle Politiche Sociali / Italian Journal of Social Policy, 4/2014, pag. 153-166

(1) http://www.svimez.info/images/RAPPORTO/materiali2014/2014_10_28_linee.pdf e

http://www.svimez.info/images/RAPPORTO/materiali2015/2015_10_27_linee.pdf

(2) http://www.sbilanciamoci.info/Sezioni/italie/Prima-o-poi-l-Italia-si-riprendera-28729

(3) http://www.oecd.org/edu/Education-at-a-Glance-2014.pdf

(4)http://www.anvur.org/attachments/article/644/Rapporto%20ANVUR%202013_UNIVERSITA%20e%20RICERCA_integrale.pdf

(5) http://www.anief.org/content_pages.php?pag=7588&sid=

(6) (http://www.senato.it/japp/bgt/showdoc/17/DOSSIER/816006/00816006.xml).