Il futuro della coppia Università – Ricerca e Sviluppo

Testo originale in spagnolo

 

Un amico chirurgo, ormai scomparso, mi ripeteva spesso che, il fatto di dovere prima di tutto – salvo casi estremi – cercare di non danneggiare ciò che è sano, ci costringe a individuare in modo chiaro che cosa è danneggiato. Può darsi che questo abbia influito sulla mia incapacità di guardare al futuro senza l’intenzione di migliorare ciò che, per quanto fugace, del passato e del presente può esserlo. Devo ammettere, tuttavia, che la triade passato-presente-futuro non solo è impossibile da descrivere formalmente tramite condizioni necessarie e sufficienti, o mediante definizioni “se e solo se” come in matematica, ma che è costituita realmente da processi dinamici nei quali, per di più,piccole variazioni del passato o del presente possono cambiare ciò che del futuro potrebbe essere previsto.

Credo, tuttavia, che – oltre alla difficoltà di qualsiasi analisi di tipo formale – non abbondino i tentativi di descrivere linguisticamente qualche aspetto, supponendo che l’esperienza personale possa avere in questoun qualchepeso, sia pur piccolo; per usare le parole del filosofo e psicolinguista americano Jerry A. Fodor, “A volte un po’ di tutto questosi può, alla fine, considerare come filosofia. La forma di una teoria filosofica è spesso:  Proviamo a vedere cosa c’è là”.

Dal momento che i miei  cinquanta anni e più di vita professionale – con vari successi e fallimenti, ma sempre con la stessa dedizione intensa e appassionata  per l’insegnamento universitario – coprono la ricerca e la sua gestione pubblica e privata, potrebbe succedere che l’esperienza acquisita mi permetta alcune riflessioni che, con l’intento di intravedere il futuro, potrebbero aiutare a  “cercare di vedere che cosa c’è là”.

Ciò che segue risponde alla richiesta di Pietro Greco di scrivere qualcosa sul futuro; spero di non deludere troppo né lui né il lettore, ma, in ogni caso, non ci si aspetti da me niente di più di un resoconto e di qualche congettura che possa aiutare chi legge a farsi un’idea di come sembra essere la situazione di alcuni aspetti che toccano il settore Ricerca e Sviluppo (R&S) anche se, ovviamente, molte cose saranno lasciate da parte. A volte l’età conduce a vedere il presente peggio di quello che è e a prevedere un futuro addirittura peggiore; può accadere, come dice un collega e amico, che “prima di morire arriverà un momento in cui non capiremo nulla di quello che ci circonda”.

 

L’economicismo nella R&S

E’ stato detto, e come semplificazione politica non mi dispiace, che la ricerca scientifica cerca di investire denaro per raggiungere conoscenza, mentre l’innovazione tecnologica si propone di investire conoscenza per ottenere denaro. Un problema serio, che si è manifestato chiaramente negli anni di crisi economica, deriva dalla pretesa che, nella catena ‘denaro investito- nuova conoscenza – denaro guadagnato’ (in cui il primo denaro proviene in massima parte dal settore pubblico e il secondo andrà a finire, anch’esso in massima parte, al settore privato) la differenza tra il denaro guadagnato e quello investito sia non solo positiva – il che mi sembra ragionevole – ma molto grande, cosa che mi sembra discutibile. Con un tale squilibrio, ad essere a rischio è proprio l’indispensabile termine medio, l’acquisizione di nuova conoscenza.

Senza di essa, tutto lo sforzo per il progresso tecnologico, che neanch’esso è soltanto economico, viene meno; la mancanza di nuova conoscenza non riguarda il futuro del solo sviluppo scientifico, ma anche di quello culturale, lavorativo, industriale ed economico-finanziario. Basti ricordare, tra tanti altri esempi, il significato che ha avuto, anche solo a livello industriale ed economico, lo sviluppo della fisica quantistica che, nel primo quarto del secolo scorso, iniziò come pura ricerca di nuove conoscenze.

Devo confessare che non sono mai stato in grado di guardare allo sviluppo scientifico e tecnologico, da un punto di vista puramente economico, pur non disprezzando minimamente quest’ultimo; ho sempre creduto e continuo a credere che la conoscenza debba essere perseguito per l’onore del genere umano, usando le parole bellissime del matematico francese Jean Dieudonné (1906-1992).

Tutto ciò che l’umanità è stata in grado di fare finora e quanto potrà fare in futuro deriva da quello che sgorga dalla fonte di conoscenze disponibili; nel bene e nel male e, per ciò che riguarda quest’ultimo, non dobbiamo citare solo le guerre, ma soprattutto, il crescente degrado fisico del pianeta.

Dubito, poi, molto che la fame e la disperazione di cui soffrono molte persone in tutto il mondo non sviluppato tanto da costringerli ad emigrare, possa essere frenate in un modo diverso dalla creazione in quelle aree di opportunità di istruzione, di pensiero, diciamo, moderno e di lavoro e, per far ciò, occorre una conoscenza di diverse tipologie; ricerca, quindi.

Se una metafora adeguata di ciò che credo è “Non diamo del pesce, ma insegniamo loro a pescare”, un buon consiglio per realizzarlo è quello di Albert Einstein “la ricerca non proviene da un programma, ma dal cuore”

A questo credo che occorra aggiungere un’altra affermazione dello stesso Einstein, ‘la cosa più importante è non smettere mai di porsi domande, al di là del meramente economico, senza la curiosità e la passione dei ricercatori dubito che la R & S sia in grado di sostenere un futuro di progresso a tutti i livelli. Permettetemi di affermarlo chiaramente, non credo che sia sufficiente il progresso economico.

La conversione della R&S verso una visione puramente economicista, sta già avendo conseguenze che mi sembrano pericolose; mi sembra che lo sia molto, per esempio, il fatto che, in un numero crescente di università e centri di ricerca, per aspirare ad avere un posto stabile non è sufficiente possedere eccezionali capacità didattiche e di ricerca masi deve mostrare di essere in grado di ottenere fondi provenienti da grandi progetti e contratti lucrativi con grandi aziende.

Con ciò si sta producendo uno spostamento dal professore o ricercatore “sapiente”, al professore o ricercatore che sa gestire progetti e contratti; da questo consegue che si formino localmente gruppi di ricerca, i cui membri, per lo più studenti laureati e post-dottorato devono occuparsi, con sempre maggiore frequenza, di ricerche che non corrispondono a quelle che avrebbero condotto, da soli, se avessero potuto permetterselo

Il leader del gruppo, nel frattempo, viaggia per partecipare a conferenze, a incontri per trovare progetti e proposte, a riunioni di valutazione, ecc. Sorprende un po’ vedere quanto spesso i ricercatori europei prendano un aereo con spese sostenute sufondi dei settori Ricerca e Sviluppo nazionali, regionali o europei; le spese di viaggio incidono notevolmente nel totale degli investimenti del settore Ricerca e Sviluppo.

Sono profondamente convinto che la scelta del tema della tesi sia la prima responsabilità di un dottorando, che questa debba essere una decisione personale, anche se accettata dal supervisore, e ritengo un po’ degradante che sia necessario fare la scelta all’interno di un progetto finanziato. Un progetto che, oltre a essere stato concepito da altri, ha una data di scadenza e, per essere finanziato spesso deve trattare argomenti che si sa essere non solo di moda, ma anche con un’alta probabilità di essere ben visti da coloro che li valuteranno.

Non voglio essere né conclusivo né dogmatico, perché tutto si basa molto sulla qualità del gruppo e del suo leader, ma la passione per un argomento mi sembra essenziale per riuscire a porsi buone domande su di esso che a loro volta permettano di proporre risposte fruttuose e faccio fatica a immaginare una passione maggiore di quella che uno senta dentro di sé per averlo trovato lui stesso.

Inoltre, non passa spesso troppo tempo da quando si è conseguito un dottorato e l’ottenimento di un posto fisso?

Oltre a ciò che si è già verificato in molti programmi quadro, l’Unione europea nel suo complesso ha ottenuto uno status adeguato come leader tecnologico mondiale?

Cercare di dare una risposta a questa domanda che, a mio avviso, non è un chiaro Sì, dovrebbe condurre a un dibattito tra politici, intellettuali, ricercatori e manager.

Ha senso, in particolare, che all’interno dell’Unione europea continuino ad esistere grandi organismi di ricerca nazionali e che, per esempio, non si siano fusi in un organismo europeo almeno il CNR italiano, il CNRS francese e il CSIC spagnolo che hanno origine, missione e funzionamento simili?

 

L’enorme problema odierno dell’Università

Almeno in Spagna, anche se mi sembra non solo lì, parentela e burocrazia sono due gravi malattie del sistema universitario; lo sono, in realtà, di ogni organizzazione, ma ancor più di quelle che, come l’università, devono incoraggiare la creatività di chi ne fa parte, insegnanti e studenti. Miguel de Unamuno (1864-1936) che fu rettore e professore dell’Università di Salamanca, definì l’università come “tempio dell’intelligenza”. Si tratta di un tempio che non può fare a meno di professori che non siano solo altamente qualificati in quanto tali ma che siano tra i più creativi al mondo nei loro rispettivi campi e sia la parentela sia la burocrazia tendono, rispettivamente, alla mediocrità e a “mettere le carte a posto”. Questo mi sembra nefasto per il futuro dell’università; tanto più se si considera che, molto spesso, i migliori ricercatori cercano di non insegnare nei corsi dei primi anni, molto spesso numerosissimi, sono pochi i libri scritti solo da loro (esclusi i volumi a loro cura). E ancora peggio se, come sembra riscontrarsi, molti professori a tempo indeterminato di ogni università hanno svolto tutta la loro carriera e il dottorato senza aver trascorso, in molti casi, nessun anno dopo il dottorato in altre università, che avrebbero dovuto essere straniere e di alto livello o, come minimo, rimanendo nello stesso Paese, una università o centro di ricerca diversi da quella di origine.

Tutto questo, secondo me, è aggravato dal fatto che i professori maggiormente coscienti del problema e che, a volte, sono anche ricercatori eccellenti si aspettano – almeno sembra – che questo vengo da una riforma del sistema universitario proveniente dal governo. Ma, per quanto mi riguarda, ho vissuto, o sofferto, un numero abbastanza grande di queste riforme per nutrire ancora la speranza che una nuova di esse, una volta pubblicata nella Gazzetta ufficiale, abbia realmente l’effetto, da sola, di far scomparire familismo e burocrazia dalla vita universitaria. Sono convinto che questa possa contribuire a far diminuire, almeno in parte, questi problemi solo se è accompagnata da un’azione interna decisa dalle Università e attuata a livello dipartimentale. C’è un dato che parla da solo; molti degli attuali professori e, in particolare anche se non esclusivamente, delle università di creazione più recente, sono nati a meno di cento chilometri dell’università nella quale lavorano.

 

Vale la pena migliorare i centri di ricerca?

Nel corso della mia vita ho avuto occasione di visitare numerosi centri di ricerca, sia pubblici sia privati, di ricerca di base o applicata; inoltre, ho lavorato in alcuni di essi e ho potuto condividere esperienze con i loro ricercatori. Uno dei principali difetti che ho osservato in quasi tutte i centri pubblici, è quello che proverò a descrivere con la storia di fantasia che segue, e che si riferisce a un Centro di R&S con tre unità di ricerca, dipartimenti o laboratori, che indicheremo con A, B e C. Di questi, il laboratorio A è guidato da un ricercatore relativamente giovane, si dedica a temi considerati di punta, il gruppo pubblica molto nelle migliori riviste internazionali, è molto stimato nel settore e tutta la squadra lavora sodo e con passione. B è diretto da un ricercatore di mezza età, continua a lavorare in linee di ricerca alle quali il gruppo aveva, dato di recente, contributi importanti e l’equipe contiene persone di valore ,tutti sono consapevoli del fatto che dovrebbero convertirsi ai nuovi orientamenti che si sono delineati, ma non hanno le apparecchiature necessarie, e non dominano le nuove tecniche sperimentali; sanno di trovarsi in un momento critico che può condurli al declino. C è diretto da un ricercatore che fra pochi anni andrà in pensione, l’équipe composta da persone di mezza età che si sono formate molto tempo fa e, essendo quasi scomparsa la passione per il nuovo, da molto tempo ottengono solo risultati minori; stanno entrando in declino.

Il laboratorio A che è ben incardinato nel suo settore, non presenta alcun problema e senza dubbio, negli anni a venire continuerà a lavorare con successo in quello che sta facendo. Il laboratorio B ha la possibilità di riciclarsi dal suo interno se ottiene contributi finanziari sufficienti per acquisire nuova strumentazione e la capacità di saperla utilizzare; potenzialmente, ha ancora l’opportunità ritornare ad andare avanti, ammesso che si dedichi a settori nei quali vi sia la possibilità di trovare cose nuove. Il laboratorio C non ha la possibilità di rinnovarsi da solo e solo quando il ricercatore principale si ritirerà potrà essere guidato da altri con una nuova strategia; è possibile che, fino a quel momento, passeranno alcuni anni nei quali il suo decadimento aumenterà e rimarrà poco di utilizzabile per un suo rilancio di ciò che è stato fatto in precedenza.Ovviamente e, a parte una tipica mancanza di comunicazione scientifica tra i tre laboratori, è in forse solo il futuro di B e C. Per quanto riguarda B la sua sopravvivenza è davvero possibile, ma sarebbe altamente consigliabile la supervisione di un comitato esterno di specialisti che potrebbe suggerire i cambiamenti controllandoli passo dopo passo; come si suol dire, quattro occhi vedono meglio di due. Quanto a C è chiaro che è finito, anche se le norme di legge lo manterranno in questa situazione per molto tempo, col rischio che, quando ci sarà il cambio di guardia, il nuovo ricercatore principale non confermerà nulla di ciò che di esso rimane; se si tenesse in conto prima di questo fatto, ci si troverebbe in in una situazione meno drammatica poi. In sintesi, la maggior parte dei centri di ricerca possono affidare la loro evoluzione solo a coloro che al momento vi lavorano; in realtà, una sorta di endogamia. La mancanza citata all’inizio risiede, credo, nell’assenza di un comitato scientifico esterno, indipendente, presieduto e composto da scienziati significativi di qualsiasi nazionalità, con l’autorità di monitorare l’andamento delle linee di ricerca, modificare gli incarichi di lavoro, includendo la possibilità di tagliare il personale e che abbia, infine, un’influenza sull’assegnazione dei fondi. Un comitato che aiuti a prevedere come dovrà evolvere il centro e controlli l’andamento delle ricerche in base a criteri puramente scientifico-tecnologici.L’esistenza di un comitato di questo tipo è una cosa oggi molto rara; al più esistono comitati di valutazione, senza la capacità di intervenire direttamente e che devono lasciare le decisioni operative nelle mani di altri. In futuro, se verranno istituiti comitati con tali poteri, o simili, penso che si otterrebbe un cambiamento positivo. In particolare, se in più si rispettasse la non discriminazione in base all’età dei ricercatori attivi, fino a quando lo permetta la salute, il passo sarebbe ancora più positivo; una cosa è lasciare un ruolo di responsabilità e un’altra molto diversa è smettere di fare ricerca per una decisione di tipo amministrativo che rende inattivi non solo persone di scarsa qualità, ma anche altri che sono rilevanti e possono ancora offrire, se non altro, riflessioni interessanti.

Credo chela struttura organizzativa del mondo della R&S sia migliorabile; Infine, il sistema attuale deriva dai cambiamenti che si sono verificati dopo la seconda guerra mondiale; sono passati un po’più di cinquant’anni periodo nel quale vi è stata una significativa evoluzione tanto della sociologia dei ricercatori quanto della pratica e finanziamento della ricerca.

 

Conclusione

Ho cercato di mettere in evidenza quegli aspetti del mondo accademico e della R&S che credo presentino problemi non parlando di ciò che secondo me funziona bene; il rapporto tra l’Università e il sistema di R&S è profondo e molto stretto e, naturalmente, non tutto va male. Non sarà inutile se, ad esempio, fino al dottorato di ricerca, la formazione dei ricercatori avvenga principalmente nelle Università o che un gran numero di centri di R&S siano universitari e con ricercatori che, a loro volta, siano professori. Il loro futuro, a mio parere, dovrebbe essere visto in modo unitario e le Università, per decisione del potere legislativo, dovrebbero potere ospitare centri di R&S i quali, anche se appartengono ad esse, dovrebbero essere regolati da criteri diversi, con personale stabile a contratto, separato da coloro che sono inquadrati nelle gerarchie docenti. Si richiede un nuovo tipo di gestione, dal momento che la gestione pubblica può rendere complicatissimo e lento ciò che non dovrebbe esserlo. In Spagna, almeno, il controllo preliminare della gestione pubblica dei centri di R&D è diventato soffocante.

Occorrono nuovi quadri giuridici all’interno dei quali il vecchio, e non tanto vecchio, “baronato” universitario non abbia spazi di manovra. Questi schemi dovrebbero permettere, almeno, di assumere ricercatori dell’Unione europea alle stesse condizioni dei ricercatori nazionali ed è, per esempio, del tutto assurdo che dottorati rilasciati sia nell’UE sia in prestigiose Università di altri paesi debbano essere convalidati con interventi dei consolati, almeno al di fuori delle graduatorie pubbliche, a parte il fatto che secondo me non è minimamente ragionevole neanche all’interno di queste graduatorie.

All’Università e alla R&S deve essere dato un nuovo quadro che sia flessibile, veloce ed efficiente; in questo si giocherà il futuro e ci sono già alcuni segnali che fanno pensare che se l’Università non cambia, sarà sostituita da altre strutture. Personalmente, farei in modo che questo cambiamento fosse guidato dal motto “Qui non si insegna; qui si impara insieme” che è – né più né meno – l’idea alla base della “Comunità di maestri e discepoli” medievale e che se fosse seguita nel suo spirito, cambierebbe lo stile dell’insegnamento universitario in modo tale che gli studenti non dovrebbero limitarsi ad ascoltare lezioni frontali ma dovrebbero essere soggetti più attivi che passivi.