La scienza aperta contro la mercificazione del sapere?

Il nucleo della rivoluzione della scienza aperta sta nella piena valorizzazione di Internet come strumento di dialogo e condivisione. Si tratta, come sostiene Maria Chiara Pievatolo, dell’uso pubblico della ragione di cui parlava Kant [Pievatolo, 2011]: così il grande filosofo spiegava l’espressione “intendo per uso pubblico della propria ragione l’uso che uno ne fa, in quanto studioso, davanti all’intero pubblico dei lettori” [Kant, 1784]. In questo senso scienza aperta si identifica nell’Open Access (OA) ai risultati della ricerca scientifica cioè a pubblicazioni e dati. Secondo una delle definizioni maggiormente accreditate, la letteratura OA è digitale on-line, ad accesso gratuito e priva delle maggiori restrizioni derivanti dal copyright e dalle licenze contrattuali [Suber, 2012, 4] [nonché dalle misure tecnologiche di protezione]. Il lettore può accedere gratuitamente alla pubblicazione scientifica e può riutilizzarla (ad es. può riprodurne copie e distribuirle attraverso Internet), purché riconosca la paternità all’autore. Inoltre i risultati della ricerca scientifica possono essere sottoposti tramite software a Text and Data Mining (TDM) allo scopo di estrarre automaticamente nuova conoscenza [Margoni, Caso, Ducato, Guarda, Moscon, 2016, 13]. Si tratta di un modello di comunicazione della scienza opposto a quello tradizionalmente dominante, nel quale il lettore deve pagare (e molto) per accedere e non può riusare la pubblicazione perché la stessa è soggetta a vincoli contrattuali e di copyright.

Attorno al nucleo della scienza aperta, che deve molto al movimento del software libero, si sviluppa l’idea di una scienza maggiormente democratica, trasparente, inclusiva, equa e interdisciplinare. La scienza aperta si contrappone agli oligopoli della scienza, cioè ai potentati economico-scientifici che, facendo leva su copyright, contratto, protezioni tecnologiche e prassi valutative (in particolare, revisione dei pari precedente la pubblicazione e bibliometria), accentrano il potere di controllo della conoscenza scientifica in mano a pochi soggetti: gli editori commerciali, i componenti dei comitati scientifici, i revisori accreditati [Guédon, 2001]. Questo sistema oligopolistico si fonda sulla relazione tra prassi valutative e norme sul copyright (secondo la logica “tutti i diritti riservati”). Gli scienziati aspirano a pubblicare su riviste “prestigiose” – ad alto Impact Factor, in fascia A ecc. – e pur di pubblicare su queste riviste cedono gratuitamente e interamente all’editore il proprio copyright. A quel punto l’editore ha il controllo totale della pubblicazione e può commercializzarla ad accesso chiuso, cioè con barriere di prezzo, giuridiche e tecnologiche. Gli editori generalmente commercializzano licenze d’accesso e d’uso a pacchetti (“bundling”) di informazioni contenute in banche dati digitali on-line che raccolgono e ordinano immense quantità di dati (riviste, libri ecc.). Tali licenze vengono commercializzate a prezzi differenziati a istituzioni differenti (“price dicrimination”). Alcuni grandi editori come Thomson Reuters ed Elsevier usano le banche dati per analisi bibliometriche (servizi anch’essi ad accesso chiuso), le quali sono percepite dagli attuali sistemi di valutazione come di fondamentale importanza.

Il sistema dell’accesso chiuso alla scienza è parte di un più ampio fenomeno: la mercificazione della ricerca accademica e scientifica [v., ad es., Radder, 2010]. La mercificazione della scienza genera mali gravi e diffusi: lo snaturamento della Rete che da strumento di condivisione e dialogo diventa strumento di controllo accentrato dell’informazione, l’insostenibilità economica dell’accesso chiuso alla conoscenza scientifica (molte istituzioni non possono più permettersi il costante aumento degli abbonamenti alle banche dati scientifiche), la concentrazione del potere di mercato nelle mani di pochi editori commerciali, l’opacità e l’accentramento dell’esercizio del potere valutativo, la pressione a pubblicare secondo la logica del “publish or perish” che è la principale ragione della crescita del fenomeno della frode scientifica [Bucci, 2015; Carafoli, 2015], la trasformazione dell’agenda scientifica da intrapresa dedita alla ricerca della verità a impresa finalizzata alla produzione di profitto.

All’opposto della mercificazione della scienza c’è l’idea più nobile di scienza aperta. Attraverso la scienza aperta i ricercatori di Paesi economicamente svantaggiati possono accedere alla conoscenza scientifica, i cittadini sono chiamati a contribuire alla ricerca (“citizen science”), si mettono in atto pratiche di revisione ex post diffusa e partecipata [Pievatolo, 2012], si creano nuovi generi letterari che sfruttano l’interattività – la forza dialogica – tipica di Internet e potenziano la ricerca interdisciplinare.

L’apertura della conoscenza scientifica nell’era di Internet è un movimento, come quello del software libero, nato dal basso. Alcune comunità scientifiche hanno costruito le infrastrutture tecnologiche dell’Open Science, praticato l’apertura ed elaborato dichiarazioni di principio. In anni recenti la prassi viene tradotta in policy e norme giuridiche formali (è il caso, ad es., degli USA, dell’Unione Europea, della Germania, dei Paesi Bassi) [Margoni, Caso, Ducato, Guarda, Moscon, 2016, 10]. La logica di fondo che accomuna questi interventi è che quando la ricerca è finanziata con fondi pubblici, cioè con la contribuzione fiscale dei cittadini, i suoi risultati devono essere gratuitamente accessibili a tutti.

Quest’ultimo passaggio concernente la formalizzazione delle regole relative all’apertura costituisce un’opportunità. L’opportunità è data dal fatto che le policy e le norme giuridiche, se correttamente concepite, possono rappresentare una spinta importante all’apertura. Ma la formalizzazione in politiche e norme innesca anche alcuni rischi. Il primo rischio è rappresentato dal fatto che la formalizzazione si traduca nei fatti in burocratizzazione. La scienza e l’attività accademica soffrono già, in questo momento storico, di un eccessivo carico burocratico, aggiungerne altri non fa che peggiorare lo scenario. Inoltre, la formalizzazione implica la necessità di fare scelte definitorie e di politica in un campo, quello della scienza aperta, che vede da sempre confrontarsi molteplici posizioni anche molto distanti l’una dall’altra [Poynder, 2014; Pievatolo, 2014]. Infine, c’è il rischio che policy e norme formali (in alcuni casi si tratta di leggi statali) vadano in ciascun Paese in direzioni differenti, mentre la scienza aperta è un fenomeno per sua natura globale che richiederebbe una regolamentazione omogenea.

 

C’è da chiedersi se, dopo anni di pratiche di apertura e di normative sulla materia, l’Open Access sia un successo. Indubbiamente, si può dire che l’accesso aperto è oggi una realtà consolidata. Fioriscono archivi disciplinari e istituzionali per la pubblicazione e la ripubblicazione di materiale scientifico come arXiv, PubMed, SSRN, HAL e Zenodo, cresce il numero di riviste scientifiche e di collane di libri in OA, e si creano nuovi aggregatori di contenuti come gli overlay journals – “riviste copertina” finalizzate a raccogliere testi già pubblicati in altre sedi editoriali – che reinventano nella dimensione dell’apertura la comunicazione scientifica.

Tuttavia, le analisi empiriche a disposizione rilevano, con riguardo alle pubblicazioni, che solo una parte dei risultati della ricerca scientifica annualmente prodotti è in accesso aperto [Björk, Laakso, Welling, Paetau, 2014; Björk, 2013]. Di più, come lamentava a suo tempo Aaron Swartz, molta parte del materiale scientifico del passato è soggetto a restrizioni contrattuali, tecnologiche e di copyright [Swartz, 2008]. Dunque, se l’accesso aperto mira a diventare l’unico sistema di comunicazione della scienza, occorre constatare che siamo ancora di fronte a una rivoluzione incompiuta. La parzialità del successo dell’OA potrebbe dipendere solo dal fattore tempo. Il processo di conversione dell’attuale sistema di comunicazione non può che essere graduale. Ma il successo dell’OA si dovrebbe misurare anche in base ad altre considerazioni. Se uno degli obiettivi dell’accesso aperto era distruggere o diminuire il potere oligopolistico dei grandi editori commerciali, occorre ammettere che fino ad adesso siamo di fronte a un fallimento. I dati a disposizione raccontano di un’industria dell’editoria scientifica concentrata che non conosce crisi e genera notevoli profitti [EPRIST, 2016; Larivière, Haustein, Mongeon, 2015; STM: International Association of Scientific, Technical and Medical Publishers, 2015]. Si potrebbe poi misurare il successo dell’accesso aperto in rapporto alla sua capacità di riportare la comunicazione della scienza nell’ambito suo proprio di una comunità di persone (gli scienziati) mosse dalla ricerca della verità e non dalla produzione di profitto. Cioè si potrebbe misurare il successo dell’OA nella sua capacità di de-mercificazione della scienza. Anche sotto questo profilo il successo dell’OA è parziale. La pressione di logiche valutative come quella del “publish or perish” spinge sempre più gli scienziati a concepire le pubblicazioni come “prodotti”.

Tali riflessioni inducono a porsi alcuni importanti quesiti. Nell’ambito della scienza aperta, quale ruolo ha lo Stato e il finanziamento pubblico, quale ruolo hanno le università intese come organizzazioni no-profit, quale ruolo hanno i singoli scienziati, quale ruolo hanno le imprese?

Per dare una risposta a tali quesiti occorre prendere le mosse dalla banale constatazione che l’apertura dei risultati della ricerca scientifica implica notevoli costi anche se, indubbiamente, genera enormi benefici che vanno a vantaggio dell’intera società. Si tratta di costi in termini di capitale umano, costi relativi alle infrastrutture tecnologiche e organizzative, costi relativi alla formazione e così via. La proiezione di questi costi nel tempo richiede l’elaborazione di modelli sostenibili di comunicazione aperta della scienza.

Un’idea potrebbe essere quella di addossare i costi al finanziamento pubblico. Esistono esempi virtuosi di investimento massiccio nell’Open Access: ad es. negli Stati Uniti, nel Regno Unito, in Francia e nell’Unione Europea. Altri investimenti potrebbero provenire dalle università (anche quando non fanno leva su finanziamenti pubblici) e dai singoli scienziati che prestano gratuitamente o in ottemperanza ai compiti istituzionali la propria opera all’interno del sistema aperto di comunicazione della scienza. Un ecosistema di questo tipo in teoria potrebbe ben funzionare ed essere la migliore espressione della de-mercificazione della comunicazione scientifica.

Tuttavia, l’ecosistema appena immaginato non corrisponde affatto a quello che si sta delineando. In molti Paesi i finanziamenti pubblici alla ricerca si contraggono oppure si concentrano sulla ricerca applicata, trascurando il finanziamento delle infrastrutture della scienza. Nell’attuale ecosistema, perciò, le imprese private dedite alla produzione del profitto svolgono un ruolo di primo piano. Prescindendo dai fenomeni di pura degenerazione come la finta editoria scientifica che frutta il buon nome dell’OA per frodare autori scientifici a caccia di visibilità (c.d. editoria pirata OA), ci sono innanzitutto i tradizionali editori scientifici commerciali che usano l’OA per pratiche speculative e di moltiplicazione del lucro: si pensi agli editori che chiedono un pagamento ex ante all’autore o alla sua istituzione di appartenenza per la pubblicazione in accesso aperto di un articolo di una rivista per il resto ad accesso chiuso (c.d. via ibrida all’Open Access che duplica il costo dell’accesso il quale viene pagato dai ricercatori e dalle loro istituzioni sia per l’abbonamento alla rivista sia per la produzione di articoli in OA). Ci sono poi – ed è forse uno degli snodi di maggiore importanza – i motori di ricerca commerciali che fanno capo ad imprese come Google. Sotto questo profilo, occorre ricordare, ad esempio, che i motori di ricerca rappresentano la principale porta di accesso alle pubblicazioni depositate negli archivi Open Access delle università e degli enti di ricerca. E’ infatti molto rara la diretta consultazione di questi archivi, in quanto chi è alla caccia di pubblicazioni scientifiche preferisce partire dalla consultazione di un motore di ricerca generalista. Sebbene esistano motori di ricerca specializzati che provengono da istituzioni no-profit come BASE e OAIster, è indubbio che l’uso di motori commerciali come Google e Google Scholar sia ampiamente diffuso. Inoltre, nella condivisione delle pubblicazioni scientifiche rivestono crescente importanza i social network scientifici come Academia.edu e ResearchGate. La comunità dell’Open Access ha giustamente criticato l’atteggiamento degli scienziati accademici che preferiscono depositare le pubblicazioni sui social network scientifici invece di usare gli archivi istituzionali delle proprie università. In quest’ottica, si sono rilevate le importanti differenze tra i sociali network scientifici e gli archivi istituzionali delle università [University of California – Office of Scholarly Communication, 2015; Galimberti, 2016; Pievatolo, 2016]. I primi operano per profitto, si basano su piattaforme non interoperabili, non offrono garanzie di conservazione nel tempo, sono a caccia di dati personali e gestiscono in modo disinvolto le questioni relative al copyright. I secondi sono esattamente l’opposto: non operano per profitto, fanno leva su standard aperti e interoperabili, offrono maggiori garanzie di conservazione nel tempo, rispettano la privacy e sono attenti alla corretta gestione del copyright. La maggiore propensione verso i social network scientifici è stata spiegata con la facile usabilità e le molteplici funzionalità di social networking delle piattaforme commerciali. Sono spiegazioni plausibili, ma un’altra e più importante spiegazione risiede nel fatto molti scienziati accademici non si sentono parte della propria istituzione – non pensano di far parte di una squadra che gioca in modo cooperativo – e sono invece attenti ai ritorni in termini di vantaggio personale che la visibilità su Internet può portare. Non a caso i social network scientifici indulgono alla vanità dell’autore scientifico presentandogli ossessivamente statistiche su viste e download delle proprie pubblicazioni, rankings personali e così via.

C’è poi da chiedersi – ed è il quesito forse più importante – se le università possano al giorno d’oggi rappresentare il baluardo della scienza e dell’insegnamento no-profit. E’ lecito dare una risposta negativa al quesito. Le università si comportano sempre più come imprese. Il fenomeno è vero soprattutto negli Stati Uniti dove è sorta un’ampia letteratura critica sulla commodification (mercificazione) dell’accademia [v. ad es. Radder, 2010]. Ma è riscontrabile in molti altri Paesi come l’Italia che hanno imitato il modello americano. La commercializzazione dei brevetti universitari mediante licenze esclusive, l’uso dei brevetti a fini di valutazione della produttività scientifica dei ricercatori, il progressivo ricorso a finanziamenti privati che chiedono di mantenere segreti o di assoggettare a proprietà intellettuale i risultati della ricerca [Luzzatto, 2015], la crescita della contribuzione studentesca, la valutazione della ricerca e della didattica ricalcata sui processi di assicurazione della qualità delle imprese [Pinto, 2012, 120] sono solo alcuni fenomeni che descrivono la trasformazione delle università in imprese. In un contesto che produce in continuazione rankings e rating di tutti i tipi, che usa il linguaggio dell’economia aziendale, ed esalta le virtù della concorrenza (pur essendo questo concetto inapplicabile alla ricerca scientifica) [Magris, 2012], l’idea di una scienza cooperativa orientata soltanto alla ricerca della verità sta diventando marginale.

 

Se lo scenario descritto risponde al vero, può ancora la scienza aperta contrastare l’avanzata della mercificazione del sapere?

La risposta è positiva, a patto che si abbia chiaro in mente che l’apertura non significa solo gratuità dell’accesso e diritti di riuso. Se questo è indubbiamente il nucleo centrale della scienza aperta, va rimarcato che l’apertura significa anche democrazia, trasparenza, decentramento del potere valutativo, equità, cooperazione, integrità morale, pluralismo delle fonti della comunicazione.

Da questo punto di vista, l’arma più potente nelle mani dell’Open Science è nell’insegnamento. Occorre investire risorse nell’insegnamento della scienza aperta, della sua etica, dei suoi valori fondativi, nelle sue tecniche di attuazione. Solo attraverso l’insegnamento si può pensare di formare nuove generazioni di scienziati e ricercatori accademici votati (in maggioranza) alla ricerca cooperativa della verità.

Sul piano delle policy e delle leggi, ci sono alcuni punti sui quali si può incidere creando un contesto favorevole alle pratiche della scienza aperta.

  1. a) Occorre riformare il copyright per dare maggiore libertà agli scienziati. La libertà di comunicazione dei risultati della ricerca è parte della libertà accademico-scientifica. Incarnazione di questa libertà sono le recenti normative tedesche e olandesi che modificano la legge sul diritto d’autore. In estrema e approssimativa sintesi si può dire che esse attribuiscono, con una norma imperativa non derogabile per via contrattuale, agli autori il diritto di comunicare e mettere a disposizione del pubblico tramite Internet alcune tipologie di opere scientifiche frutto di ricerche finanziate anche solo parzialmente con fondi pubblici dopo un determinato periodo di tempo dalla prima pubblicazione. L’Associazione Italiana per la promozione della Scienza Aperta (AISA) ha recentemente proposto di introdurre nel nostro ordinamento una norma simile a quelle della Germania e dei Paesi Bassi e ha aperto la proposta ai commenti del pubblico. Occorre inoltre creare eccezioni e limitazioni al diritto d’autore che consentano di praticare la scienza aperta. Un esempio di questo tipo di normativa riguarda l’introduzione di un’eccezione volta a consentire il Text and Data Mining (Cfr. Parlamento Europeo, 2015; Bertoni, Montagnani, 2015).
  2. b) Occorre ripensare le regole e le prassi valutative al fine di non alimentare il potere oligopolistico dei grandi editori commerciali. Da questo punto di vista, le politiche valutative messe in atto in Italia dal MIUR e dall’ANVUR rappresentano l’esatto opposto di quello che sarebbe opportuno fare. L’uso di liste di riviste ordinate per fasce di qualità nei c.d. settori non bibliometrici e l’indicazione per via normativa della banche dati commerciali di riferimento per le procedure valuative come l’ASN e la VQR costituiscono strumenti che alimentano il potere oligopolistico degli editori.
  3. c) Occorre imporre la trasparenza dei contratti per l’accesso alle banche digitali proprietarie tra gli editori commerciali e soggetti finanziati pubblicamente [cfr. Commissione Europea, 2012]. Gli editori commerciali infatti fanno leva sulla segretezza delle clausole dei contratti stipulati con le singole università o con i consorzi universitari per accrescere il proprio potere negoziale e praticare le offerte a pacchetto e la discriminazione dei prezzi. Ma quando le risorse elettroniche sono acquisite con fondi pubblici, tutti i cittadini hanno diritto di conoscere il modo con cui sono spesi i soldi derivanti dalla fiscalità generale.
  4. d) Nel finanziamento pubblico alla ricerca di base l’apertura dovrebbe essere lo strumento principe della valorizzazione dei risultati della ricerca. Così non è nelle attuali politiche dell’Unione Europea. Infatti, nell’ambito del programma H2020 i soggetti finanziati sono obbligati a pubblicare in accesso aperto solo qualora non abbiano scelto di sfruttare i risultati della ricerca attraverso la proprietà intellettuale, ad es. tramite brevetto per invenzione [v. art. 43 del Regolamento (UE) N. 1290/2013 del Parlamento Europeo e del Consiglio dell’11 dicembre 2013 che stabilisce le norme in materia di partecipazione e diffusione nell’ambito del programma quadro di ricerca e innovazione (2014-2020) – Orizzonte 2020 e che abroga il regolamento (CE) n. 1906/2006; Commissione Europea, 2013, 4). Dunque la valorizzazione mediante proprietà intellettuale (in particolare, brevetti) ha una precedenza sulla valorizzazione mediante OA.

E’ difficile immaginare che il futuro ecosistema della scienza aperta possa prescindere dal ruolo di attori commerciali come i motori di ricerca. Se così è, il rischio più grave da contrastare sta nella concentrazione delle fonti di comunicazione della scienza nelle mani di poche imprese che operano per il profitto. La scienza aperta passa anche e soprattutto attraverso un ecosistema dove sia preservato il pluralismo delle fonti e degli intermediari del sistema di comunicazione.

 

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