Migrazione e identità culturale

Nascita dell’identità e società postmoderne

Le relazioni sociali della maggior parte delle società umane sono rimaste saldamente rinchiuse nell’ambito della prossimità per moltissimo tempo. Ci sono volute la lenta disintegrazione e l’affievolirsi della tenuta delle comunità locali, sommati alla rivoluzione dei trasporti, per spianare il terreno alla nascita dell’identità.

Con l’affermarsi dello Stato-Nazione, basato su un popolo e su una cultura, è sorta l’esigenza di creare un legame di comunanza tra i cittadini che altrimenti non sussisterebbe, giacché negli stati “arcaici” ci si sentiva appartenenti alla comunità cittadina o a quella parentale. Lo Stato-Nazione fa della natività il fondamento della propria sovranità. In questo modo, una finzione è divenuta realtà di fatto: l’identità nazionale.
Nella realtà, spesso, i confini politici non combaciano con quelli etnici, così le minoranze etniche possono trovarsi a vivere al di fuori dello Stato della propria etnia, determinando in molti casi la loro repressione. Dunque, l’idea di ”identità nazionale” non è un lapalissiano “fatto concreto”, ma una costruzione che ha avuto bisogno di coercizione e convincimento per coagularsi in realtà. Lo stato moderno ha reso obbligatorio questo compito nell’ambito della sua sovranità territoriale, per tracciare il confine tra “noi” e “gli altri”.
L’identità è qualcosa che va inventato: è un obiettivo, uno scopo, piuttosto che un fattore predefinito; è qualcosa che è ancora necessario costruire da zero o selezionare fra offerte alternative, qualcosa per cui è necessario lottare. L’identità è un’inquietudine della nostra epoca, un argomento di scottante attualità nelle nostre menti e sulle nostre bocche. A causa della globalizzazione, del neoliberismo, dello svuotamento progressivo del significato di “cittadinanza” dei suoi contenuti, la fiducia del cittadino non trova alternative solide allo Stato-Nazione. Dal momento in cui l’identità ha perso gli ancoraggi sociali che la fanno apparire “naturale”, predeterminata e non negoziabile, l’identificazione diventa sempre più importante per quegli individui alla ricerca di un “noi” di cui entrare a far parte.

Le visioni “culturali” dell’identità stanno tornando in auge tra quei gruppi alla ricerca di approdi sicuri, stabili e affidabili, in mezzo alle maree dell’incerto cambiamento.
Le affiliazioni sociali più o meno ereditate tradizionalmente e attribuite agli individui come definizione di identità, razza, genere, classe sociale, famiglia, luogo di nascita, si stanno alterando, stanno diventando meno importanti. Al tempo stesso, ci si trova a fondare nuovi gruppi che diano ai membri, privati di un quadro di riferimento tradizionale, un senso di appartenenza, un’identità culturale.
Sempre tenendo conto del contesto in cui ci si trova, oggi si può affermare che la ricerca dell’identità sia un compito da realizzarsi, prima di tutto, a livello individuale. Il termine “identità” esprime un concetto ambiguo: è una pressione esercitata da diritti sia individuali, sia collettivi, è uno scontro fra microcomunità che rivendicano le tradizioni e macrocomunità che professano l’omogeneità, va contro il particolarismo locale, e pure il cosmopolitismo senza radici. Essa appare come una lotta contro la dissoluzione e, al tempo stesso, contro la frammentazione.
D’altra parte, l’identificazione è anche un mezzo di stratificazione. Al vertice della piramide sociale stanno coloro che possono comporre o decomporre la propria identità a piacimento, mentre alla base sta chi si vede sbarrate le identità scelte o ereditate e non è autorizzato a togliersi di dosso identità stereotipanti, offensive, disumanizzanti e non richieste. Ancora più in basso, fuori dai confini della società, c’è una “sottoclasse” composta dai reietti dell’economia capitalistica. Le richieste della sottoclasse (ragazze madri dipendenti dallo Stato, senzatetto, tossicodipendenti…)  non sono accolte, le proteste non sono ascoltate, così viene loro negata l’identità, ossia un posto legittimato nella totalità. Una categoria che subisce lo stesso fato è quella dei profughi, i senza Stato, i sans papiers, i non territoriali in un mondo di sovranità basata sul territorio. Condividono la condizione della sottoclasse, con l’ulteriore privazione del diritto di presenza fisica all’interno del territorio sotto un governo sovrano. Non più soltanto lo sfruttamento, come ipotizzava Marx, ma proprio l’esclusione genera volumi crescenti di povertà, miseria e umiliazione umana.

 

Crisi identitaria e nuove soggettività

“L’immigrazione è una rottura, una lacerazione dei riferimenti della memoria essenziale, è un brutale cambiamento di esistenza. Non si lascia la propria terra, non si rinuncia facilmente alla propria cultura, non si intraprende quel viaggio per piacere. Coloro che se ne vanno sono gli stessi che non vogliono perdere la loro dignità, che non vogliono rovinare la loro vita e quella dei loro figli per l’impossibilità di procurarsi il pane e la casa. Partire è un modo di conservare la propria dignità”.
I sociologi Stephen Castle e Mark Miller hanno definito l’epoca contemporanea come “l’età delle migrazioni”.
Decine di milioni di persone vivono in un paese diverso da quello in cui sono nate. Gli stati di provenienza e di arrivo di questi flussi migratori sono così variegati e interconnessi che è diventato impossibile fornire un’unica rappresentazione grafica del fenomeno migratorio. I migranti che giungono nelle metropoli occidentali sono, nella maggior parte dei casi, frutto di selezioni migratorie precedenti che si sono svolte prima all’interno del paese di origine (dalle aree rurali alle città), poi nei paesi limitrofi e, infine, negli stati occidentali.

In Italia, il 1976 è l’anno in cui si è registrato per la prima volta nella storia del Paese un saldo migratorio positivo: le persone che sono entrate nel paese sono numericamente maggiori di quelle che ne sono uscite. Questo anno segna simbolicamente il passaggio dell’Italia da terra di emigrazione a terra di immigrazione, con forti conseguenze per la società.
Intorno agli anni Novanta, la geografia urbana della metropoli italiana ha subito profonde trasformazioni: gli immigrati hanno riempito le periferie, le case popolari, gli edifici abbandonati, e negozi e ristoranti etnici, insieme a un nuovo tessuto sociale, hanno mutato la fisionomia di interi quartieri.
Le città italiane raccontate dai migranti sono spesso associate all’emarginazione, all’isolamento, alla ghettizzazione. Sono quei “non-luoghi”, secondo la definizione dell’antropologo Marc Augé, dove non c’è identità, né relazioni, né storia.
Per  i migranti di seconda generazione, la rappresentazione della città consiste spesso nel ricercare nei luoghi un senso di appartenenza che non neghi il legame con le proprie origini. Si ricerca nei quartieri, nelle strade, negli spazi abitativi, quel segno di etnicità, di diversità, che rifiuta l’omologazione e la perdita di identità. Vengono fuori delle vere e proprie mappe, delle nuove cartografie di metropoli globalizzate e multiculturali, dove i confini appaiono incerti perché vi si mescolano abitudini, culture, musiche e lingue diverse.
In tempi moderni, la presenza di piccoli ghetti anche nelle zone più centrali, che affiancano aree di disagio ad aree di relativo benessere, mostra un nuovo rapporto fra centro e periferia e testimonia come i quartieri problematici non sono tali perché localizzati ai margini esterni e isolati della città, ma perché sono espressione di vulnerabilità e di minaccia sociale.

 

Il concetto di cittadinanza

Dal Lago definisce i migranti “non persone”, “non-soggetti sociali”: anziché essere considerati risorse da valorizzare e portatori di una cultura da riconoscere e rispettare, vengono percepiti come corpi estranei da respingere ed espellere. Gli immigrati diventano una minaccia all’integrità della cultura nazionale, minano quel “noi” che identifica una cultura, una lingua, un territorio, quei pilastri dell’identità che vengono inesorabilmente sfaldati nell’incontro e nella coesistenza con l’altro. Il fatto è che le identità, come le culture, sono il prodotto di interazioni, scambi, influssi, contaminazioni. Soprattutto quando il discorso sull’identità si associa ai fenomeni migratori, agli spostamenti di massa, alle diaspore, alle condizioni post-coloniali, è evidente che il concetto stesso deve essere rinegoziato e ridefinito. Si parla così di identità meticce, ibride, plurali, multiculturali, migranti, che decostruiscono la solidità e la compattezza dell’identità legata a un solo territorio, a una sola lingua, a una sola cultura.

L’ottenimento della cittadinanza è uno degli elementi utili per l’immigrato per contrastare forme di discriminazione e di razzismo, per difendersi da accuse improprie e da rappresentazioni stereotipate e negative. Tuttavia, le difficoltà nell’ottenere il diritto di cittadinanza, rappresentano la conferma di una difficile accettazione a essere considerati cittadini italiani con pari dignità e opportunità. Del resto, lo status giuridico di cittadino italiano non corrisponde a una piena integrazione nella società e non esclude che i tratti somatici, in particolare il colore della pelle, diventino sinonimi di estraneità e pericolosità.

Attraversando diversi territori e contesti, i migranti danno forma ad appartenenze e identificazioni multiple, mettendo in crisi l’idea di un’identità unitaria ancorata a un territorio e una nazione come chiave d’accesso alla cittadinanza. Quest’ultima, non potendosi limitare a una semplice definizione giuridico-istituzionale, diventa uno spazio di conflitto, dove al riconoscimento dei diritti civili, politici e sociali si aggiunge il riconoscimento identitario. Lo status giuridico-formale della cittadinanza classica si trova così ad essere integrato dai tratti simbolico-culturali che costituiscono elementi rilevanti nei processi di identificazione e riconoscimento. Diventare cittadino di uno Stato non deve rappresentare la negazione di un’appartenenza per abbracciarne un’altra, ma, al contrario, la possibilità e la libertà di poter affermare la molteplicità delle proprie appartenenze.
È evidente come le identità dei giovani figli di immigrati cresciuti in Italia non possano rientrare nei vecchi schemi di identificazione nazionale e bisogna quindi riconsiderare l’idea di “italianità”.
Nel momento in cui i confini vengono oltrepassati, vengono minate e sovvertite anche le distinzioni noi/loro, me/altro, dentro/fuori, centro/periferia, rendendo necessaria una loro riformulazione e una loro riscrittura.
Nella letteratura italiana delle “seconde generazioni” il tema della cittadinanza si lega frequentemente ai conflitti identitari: la necessità di affermare i propri diritti di cittadinanza corrisponde al bisogno di fornire delle risposte alle domande “Chi sono? Quali sono la mia cultura, la mia lingua, le mie abitudini?”, e la soluzione è spesso quella di non negare nessuna delle proprie diverse identità, ma di costruirne una nuova, “multipla”, contaminata, creata sulla base di coordinate spaziali, culturali e linguistiche che non rispettano i confini geografici.

 

Verso una società multiculturale

Vivendo e partecipando alla vita culturale e alle tradizioni di due paesi diversi e non riuscendo a rompere con il proprio passato, il migrante vive sul confine di due culture e di due società. La sua posizione ibrida e marginale provoca disagio, inquietudine, ma nello stesso tempo forti potenzialità creative che gli permettono di ricomporre i frammenti del proprio vissuto.
La messa in discussione della nozione di confine e la costante rinegoziazione della sua definizione fanno dell’identità una categoria mobile e provvisoria, fatta di incontri, mescolanze e intersezioni.
A oltre trent’anni dall’inizio delle imponenti ondate immigratorie, l’Italia si sta evolvendo verso un inevitabile multiculturalismo, caratterizzato ancora, però, da una difficile coesistenza e dallo scontro continuo fra la cultura dominante e una serie di culture minoritarie.
E’ più che mai necessario costruire politiche di riconoscimento identitario quando in un Paese la presenza degli immigrati diventa stabile e socialmente visibile. Tuttavia, la premessa indispensabile per poter parlare di multiculturalismo è la disposizione ad accettare e a riconoscere la presenza di più culture. In questo senso, come testimonia la fiorente letteratura dell’immigrazione, la società italiana sta prendendo consapevolezza di questi cambiamenti e sta accettando, seppure lentamente e con molte difficoltà, l’evidenza di una pluralità culturale, linguistica e religiosa.

La diversità culturale è sempre di più il destino del mondo moderno. Sono invece molto pericolose le forme di identità nazionale e culturale che adottano versioni chiuse di cultura o comunità e rifiutano di convivere con la differenza.
La storia dimostra che le culture (quindi le identità culturali) non sono entità statiche, ben delimitate fra di loro e omogenee al loro interno, quanto piuttosto fenomeni plurali e in perenne movimento, attraversati da continue tensioni, relazioni e scambi reciproci.
D’altra parte, la totalità-mondo si realizza nel contesto di una globalizzazione (economica, politica, culturale, dei consumi, ecc.) che è sinonimo di omologazione e di standardizzazione, cioè tende a livellare le differenze, ad assimilare le diverse culture alla cultura dominante.
L’apertura indotta dall’incontro planetario fra le culture genera per tutti un diffuso sentimento di angoscia: ci sembra di non avere più punti di riferimento, di perdere il senso della nostra appartenenza, della nostra identità. Talvolta, tutto ciò, provoca l’insorgere di rivendicazioni identitarie, di fondamentalismi e di opposizioni sanguinose.
Quello che ci si augura e che nei contesti post-migratori, il contatto continuativo e approfondito tra soggetti appartenenti a gruppi etnico-culturali diversi possa avere effetti positivi sulla relazione tra i diversi gruppi e ridurre pregiudizi e conflitti interetnici.

Nella situazione attuale della totalità-mondo, in cui nessuna cultura può prevalere in forza di una legittimità assoluta, si sono create finalmente le premesse per poter uscire dal paradigma dell’univocità, e passare dal pensiero del territorio a quello dell’erranza, dalla dottrina dell’Essere alla scoperta dell’esistente, di tutti possibili esistenti del mondo. In altri termini, si sta affacciando la consapevolezza che occorre entrare nella trama dell’identità legata non più a un mito fondatore, ma al vissuto cosciente e contraddittorio dei contatti tra le culture.
L’ottica del métissage è una “terza via”, cioè un fenomeno che si pone tra l’omogeneo e l’eterogeneo, tra la fusione e la frammentazione. Il métissage non è la coesione, l’osmosi, ma il dialogo, il confronto.
Anche se esistono innumerevoli casi emblematici d’intolleranza verso l’altro che vanno dal rifiuto all’esclusione, dalla segregazione alla persecuzione, non esiste una reale alternativa al métissage, perché non esiste una “purezza” etnica o culturale, e la condizione umana nel suo complesso è siglata dall’incontro, dalla continua nascita di qualcosa di diverso, dal rapporto con la pluralità dell’essere nel suo divenire.
Il pensiero meticcio non è un pensiero della classificazione, quanto piuttosto un pensiero della mediazione, che lavora sugli intervalli tra una categoria e l’altra.
Il métissage è anche un’etica basata su tre grandi dispositivi: la memoria, l’incontro, il divenire. Per questo, non può essere considerato come una politica identitaria, ma come una strategia di acculturazione e di relazione, una terza via tra universalismo e comunitarismo, tra integrazione e rivendicazione delle differenze.

 

Le seconde generazioni in Italia

Per “seconde generazioni” si intendono le persone nate in Italia da genitori stranieri o trasferitesi in Italia  a un’età da zero a diciotto anni.
Se, generalmente, gli immigrati hanno un forte problema di identità, i loro figli nati o cresciuti in Italia hanno strategie identitarie che divergono almeno in parte da quelle dei genitori.
Il percorso adolescenziale di costruzione dell’identità è un viaggio fra perdite e ritrovamenti che conduce alla possibilità di costruirsi un’identità sociale che condivida aspetti della cultura d’origine ed elementi del nuovo gruppo d’appartenenza. In ogni caso, è fondamentale la presenza di figure che facilitino questa formazione d’identità ambivalente, ibrida: genitori e parenti, da una parte, educatori e insegnanti del Paese d’accoglienza, dall’altra.
Nei percorsi di acculturazione e integrazione vissuti dalle famiglie migranti il problema dell’educazione dei figli rappresenta l’aspetto cruciale: esso può favorire e accelerare tali processi o, al contrario, rafforzare il senso di estraneità sia verso l’ambiente, sia nei confronti della famiglia stessa. La scuola, nel migliore dei casi, stimola i ragazzi a riconoscere e valorizzare la propria cultura d’appartenenza, lavorando con loro verso l’integrazione all’interno della cultura di approdo.

La presenza delle seconde generazioni, anche se ancora minoritaria, è un indice importante della stabilizzazione del fenomeno migratorio. Gli alunni nati in Italia, a differenza degli studenti cresciuti  in un Paese estero, non hanno il problema della lingua: l’italiano è per molti di loro la lingua madre, o addirittura l’unico idioma che conoscono, così non devo affrontare ciò che è ritenuto da molti studiosi l’ostacolo più grande del processo di integrazione scolastica: l’apprendimento della lingua autoctona. I ragazzi nati in Italia da genitori immigrati, almeno sulla carta, rappresentano la parte del collettivo degli studenti con cittadinanza non italiana che incontra meno problemi nel processo di integrazione scolastica, in quanto hanno compiuto l’intero processo di socializzazione nel “nuovo” Paese. Chi è arrivato successivamente si trova invece catapultato nella nuova società senza conoscerne la lingua e i codici culturali (i gesti, le regole di comportamento: in poche parole, tutto il mondo del non detto).
In molti casi, le seconde generazioni condividono con i coetanei autoctoni gli stessi stili di vita, i consumi culturali e le esperienze. Resta comunque presente il bisogno di “armonizzare” tradizioni e culture, anche se il nascere e crescere nel paese ospitante può fungere già come una sorta di “ammortizzatore sociale”, nonostante i diversi tratti somatici o il colore della pelle possano ostacolare il processo di identificazione nella comunità italiana. Se da un lato il giovane non si riconosce pienamente nell’immagine dell’italiano medio, dall’altro è la diffidenza della società di accoglienza che genera sentimenti di inadeguatezza e illegittimità.

La costruzione dell’identità è correlata al vissuto sociale sperimentato nei diversi contesti di appartenenza: scuola, famiglia, gruppo dei pari, ambiente lavorativo, ecc… Questo sentimento è l’intreccio di vicissitudini individuali e di storie sociali ed è continuamente modellato dalla richiesta e dai valori dell’ambiente e della cultura in cui si è immersi. Nel momento in cui una persona emigra vengono messe in atto delle strategie identitarie adattative nel tentativo di farsi riconoscere, accettare e valorizzare. Sono quattro i modelli identitari principali adottati dagli adolescenti di origine straniera.
Il “cosmopolitismo” riguarda i ragazzi nati in Italia da genitori con titoli di studio alti, ben inseriti dal punto di vista lavorativo, economico e sociale, parlano perfettamente l’italiano (usano la lingua madre solo per comunicare coi famigliari e i compaesani), si autodefiniscono “cittadini del mondo” e in futuro si immaginano in giro per il mondo, non in un luogo specifico. L’”isolamento” tocca coloro che sono giunti in Italia in età adolescenziale: parlano male la lingua autoctona, non si riconoscono in nessuno dei due Paesi, passano la maggior parte del tempo libero da soli a casa e genitori, che possiedono titoli di studio bassi, lavorano molte ore al giorno e hanno poco tempo e risorse da dedicare ai figli.

Il “ritorno alle origini” è un destino diverso, rispetto al precedente, per gli adolescenti stranieri nati nel Paese d’origine: essi si identificano completamente nella cultura e nelle tradizioni del Paese natale (cinema, musica, cucina), frequentano esclusivamente persone appartenenti alla stessa comunità, ossia gruppi etnici coesi, solidali, numericamente presenti sul territorio, sono in Italia per acquisire un titolo di studio alto, per poi spenderlo un domani in patria.
Infine, il “mimetismo” riguarda i ragazzi nati in Italia che si percepiscono italiani al 100%, non parlano la lingua dei loro genitori, frequentano esclusivamente persone italiane, e i famigliari sono ben inseriti nella società.

Vi è un’altra strategia identitaria meno diffusa, messa in evidenza dagli studi sul campo: il “modello biculturale”, tipico di giovani appartenenti a famiglie di alto capitale socio-culturale, i quali hanno acquisito ottime competenze in entrambi gli universi culturali. La cultura di origine è stimata nel contesto migratorio (es., comunità inglese, francese, tedesca, ecc…).
Il processo di costruzione dell’identità, pur essendo  intimo e personale, è influenzato dallo sguardo e dall’opinione dell’altro. I figli degli immigrati sono svantaggiati rispetto ai coetanei autoctoni in quanto si trovano a dover elaborare un’identità personale e sociale in una condizione di doppia fragilità: quella derivante dalla loro condizione di adolescenti (non più bambini, non ancora adulti) e quella legata alle difficoltà di rielaborare l’esperienza famigliare dell’emigrazione in un contesto che tende all’esclusione e alla stigmatizzazione del diverso. Le eventuali crisi identitarie si presentano in primo luogo per chi arriva in Italia a un’età già avanzata. Lo smarrimento è dovuto alla mancanza di punti di riferimento nel nuovo contesto culturale ed è generato dalla consapevolezza che la propria visione del mondo è in qualche modo inadeguata, fondata su saperi e strutture cognitive e morali tipici di un preciso luogo geografico. Ciò comporta che le conoscenze che i componenti del gruppo maggioritario danno per acquisite o naturali costituiscono un enigma per lo straniero, che  rischia di essere “doppiamente assente” (dalla comunità di appartenenza e da quella di accoglienza).

Il non considerare le difficoltà di interpretazione sperimentate dal migrante crea un circolo vizioso di odio e di rifiuto. Occorre incentivare i rapporti con gli autoctoni, tramite i quali lo straniero può lentamente apprendere le regole implicite sottostanti al nuovo contesto relazionale.

 

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