Il futuro del Mezzogiorno

Sul futuro del Mezzogiorno un’intervista al professore Luigi Mascilli Migliorini, ordinario di Storia moderna all’Università degli studi di Napoli l’Orientale.

 

Tutto intorno a noi sta cambiando in maniera rapida: il mondo, l’Europa, il Mediterraneo, la stessa Italia. Professor Luigi Mascilli Migliorini, lei è uno storico. Insegna Storia moderna all’Università Orientale di Napoli. Come vede il futuro del Mezzogiorno in questi mutevoli scenari

Non c’è una risposta semplice a questa domanda, soprattutto se il quadro si allarga fino al mondo. Tuttavia il quesito è un buon punto di partenza, perché oggi il Mezzogiorno d’Italia guadagnerebbe molto a essere, e soprattutto a diventare, un tassello di una generale – uso una parola un po’ impegnativa – rivendicazione dei Sud del mondo nei confronti di quelli che vengono definiti, al contrario, i Nord del mondo.
Detto in altre parole sono convinto che il Mezzogiorno d’Italia, in una globalizzazione neoliberista non possa che andare, non dico a fondo, ma certamente verso la periferia del cuore delle cose.
L’unico modo perché tutto questo non accada – e naturalmente è un discorso che riguarda non solo i Sud ma anche i Nord del mondo, solo che questi ultimi sembrano meno capaci di comprenderlo o meno interessati – è una ridiscussione profonda, seria, non ideologica ma concreta della globalizzazione neoliberista,cioè di quello che essa ha prodotto su tutti piani e in tutti i campi dagli anni ‘90 del secolo scorso fino a oggi.

A questo processo, probabilmente, il Mezzogiorno d’Italia è interessato – non tanto e solamente nelle sue frange, per così dire, della sinistra ideologica – perché è il cuore del problema: la globalizzazione neoliberista non consente alle periferie del mondo, e naturalmente il Mezzogiorno va considerato pienamente una periferia del mondo, di poter immaginare altro che regimi di sopravvivenza.
Il tema, seguendo la scaletta della domanda, tocca in qualche modo anche l’Europa, perché se c’è un campo nel quale la battaglia su questa discussione così profonda ha una sua versione istituzionale è l’Europa, assai più dell’Italia e persino del Mediterraneo.
Perché l’Europa è il luogo istituzionale, in questo momento, in cui si gioca una partita che può determinare una vittoria o una sconfitta – il prolungarsi di una vittoria o il verificarsi di una sconfitta definitiva – della mondializzazione in qualsiasi forma che non sia simile a quella attuale. Perché l’Europa è un’istituzione che ha sovranità politica, una sovranità forse dimezzata e certo particolarissima. Ma è indubbio che l’Unione Europea esercita una sovranità e quindi il vero campo della battaglia politica sui temi della globalizzazione è lo spazio europeo, perché la politica si esercita dove c’è sovranità.
In qualche modo il Mezzogiorno, come l’Italia, sarà quello che è l’Europa e quindi bisogna intervenire nella politica europea. Qui il discorso si dovrebbe allargare a quali siano le battaglie politiche e, soprattutto, a quali siano gli strumenti della battaglia politica per l’Europa. Ma sarà per un’altra volta.

Veniamo al Mediterraneo, perché dico che, per quanto oggi molti ne facciano probabilmente il cavallo di battaglia, mi appare di giorno in giorno meno significativo. Intanto perché la crisi attuale, che è violentissima, mostra in qualche modo quanto il Mediterraneo non appartenga ai Mediterranei, ovvero ai cittadini che abitano nei paesi che affacciano sul Mediterraneo. E in qualche misura non appartiene nemmeno all’Europa, anzi proprio questa crisi dimostra che non appartiene affatto all’Europa. Voglio dire che in larga misura la stabilità del Mediterraneo, che sarebbe la condizione che gioverebbe anche alla causa del Mezzogiorno, è legata alle crisi mediorientali, e le crisi mediorientali sono il frutto della mancanza, per così dire, di una stabilizzazione globale del pianeta: non c’è un equilibrio internazionale.

Ma questo equilibrio internazionale l’Europa non può che in qualche modo invocarlo; forse può partecipare ad esso in forme più costruttive, quelle attuali sono prive di incisività, ma è chiaro che il problema riguarda gli Stati Uniti, la Russia, le grandi forze d’area regionale come la Turchia e riguarda anche attori di quest’area: dall’Arabia Saudita agli Emirati Arabi,dall’Egitto alla Siria. In qualche modo, sullo sfondo, riguarda anche la Cina. Ma noi Europei ne siamo sostanzialmente esclusi. Anzi mi sembra di capire, talvolta temere, che questo equilibrio internazionale non ha interesse particolare a coagularsi perché ha già trovato il suo capro espiatorio, il suo luogo di sfogo e questo luogo di sfogo è l’Europa: le nostre coste, con le migrazioni che provocano le nostre divisioni interne.

Gli ultimi quattro o cinque anni di crisi mediorientale hanno prodotto una disintegrazione dell’Europa, o almeno un affievolirsi della sua coesione – Brexit inclusa, naturalmente – che tutto sommato è un effetto derivato di cause che non nascono dalla crisi europea: se non ci fossero i migranti l’Austria non chiuderebbe le frontiere, non ha un contenzioso specifico con l’Italia; così come l’Ungheria non ha un contenzioso diretto nei confronti della Grecia.
È una situazione indotta da una crisi internazionale che è gestita da altri. Altri che certamente preferiscono che gli effetti non ricadano su di loro ma sull’Europa, non frantumandola del tutto, ma tenendola sotto scacco, a cominciare dallo sviluppo economico.
Fino a che questa condizione permane – ed è una condizione geopolitica nella quale il Sud d’Italia da solo non può fare niente o molto poco e l’Europa, per quanto possa provare ad attrezzarsi, è sempre in maggiore difficoltà – non riusciremo ad avere un rapporto virtuoso tra Mezzogiorno e Mediterraneo.
Siamo dunque in attesa che questa situazione venga risolta da soggetti che non appartengono né all’Europa né al Mediterraneo. E certo non appartengono certo né all’Italia né tantomeno al Mezzogiorno.
Per quanto riguarda strettamente l’Italia, vale il residuo di tutto questo: mi pare che il nostro paese sia una potenza industriale in declino, che ha difficoltà oggi anche ad adottare la politica tradizionale della locomotiva nei confronti del Sud, perché la locomotiva è diventata essa stessa un carrello da trainare.
È chiaro che questi scenari non assolvono da errori e mancanze: niente assolve ad esempio il paese dal non combattere più efficacemente la criminalità e la corruzione. Ma se dobbiamo individuare scenari di lungo periodo, la marginalizzazione dell’Italia, e quindi delle sue aree più deboli, nel quadro generale della globalizzazione mi pare evidente e, temo, inesorabile.

 

E dal punto di vista demografico, anche tenendo conto dei processi di emigrazione e di immigrazione, come vede il futuro del Mezzogiorno?

Su questo tema non ho competenze specifiche, tuttavia sovviene una riflessione: Il Mezzogiorno è un luogo di disoccupazione, in particolare di disoccupazione giovanile altissima: abbiamo punte in alcune aree, come quella napoletana, del 60% di giovani senza lavoro, e quindi parlare di immigrazione potrebbe sembrare veramente assurdo. Che cosa ci viene a fare un immigrato in un posto dove c’è il 60% di disoccupazione giovanile? E in in effetti i migranti non vengono qui per restare, ma generalmente sono solo di passaggio. Qualcuno resta negli interstizi di quei lavori che, come si dice oggi, un giovane acculturato o mediamente acculturato – perché i nostri giovani arrivano normalmente alle licenze superiori e ancora spesso ai livelli triennali o quinquennali della Università – pur non avendo un’occupazione non vuole comunque fare.

L’immigrazione è evidentemente un’immigrazione d’urto, che interessa di volta a volta delle situazioni specifiche ma che non si stabilizza da noi. Quindi non mi sembra che nel Mezzogiorno ci sia oggi una grande questione immigrazione. Semmai abbiamo il problema dell’emigrazione dei cervelli, perché a questa disoccupazione giovanile è immediatamente conseguente l’emigrazione. L’emigrazione meridionale oggi non è più – come invece sono stati gli svuotamenti storici del Mezzogiorno: l’emigrazione transoceanica e quella dopo la seconda guerra mondiale – migrazione di braccia, perché le braccia le forniscono ormai a condizioni assai più vantaggiose le terze e le quarte ondate delle migrazioni africane e mediorientali. Abbiamo ormai una significativa emigrazione di cervelli. I numerici dicono che in questo momento le nostre università si stanno svuotando. Certo, anche quelle settentrionali, ma si stanno svuotando in maniera molto più significativa soprattutto quelle meridionali. È un svuotamento, voglio sottolinearlo, anche dal punto di vista qualitativo, che riguarda l’intero Mezzogiorno, perché quando c’è un depauperamento dei cervelli, c’è un indebolimento generale del sistema della formazione.
Per quale motivo un giovane italiano deve frequentare, fino agli ultimi gradi, dottorati e post dottorati in un’università – che sarà anche eccellente sul piano della formazione, ma talvolta non lo è – per poi trovare eccessive difficoltà per il suo inserimento nel mondo del lavoro, se invece è evidente che andando a studiare da un’altra parte trova lavoro? Ma se è così, quanto tempo ci vorrà perché i nostri giovani decidano di seguire i percorsi formativi direttamente altrove? D’altra parte sta già accadendo, è inevitabile.

Tutto questo rischia di portare al restringimento del sistema universitario italiano, un restringimento che toccherà i livelli alti e aggraverà quella che viene definita come la questione meridionale dell’università. Il ridimensionamento toccherà soprattutto il sistema formativo del Mezzogiorno che, d’altro canto, si trova già in una situazione più complicata.
Faccio un esempio: se Catanzaro non riesce a trattenere cervelli ma può fare semplicemente una scolarità di primo livello perché dovrebbe avere sostegno? Ho detto Catanzaro ma il ragionamento può riguardare la stessa Napoli o l’intero sistema delle sette Università campane.
Potrà verificarsi che le triennali “reggano” ancora, ma progressivamente si svuoteranno le magistrali e soprattutto i dottorati, perché i ragazzi andranno altrove. Il conseguente smantellamento avverrà innanzitutto nel Sud e poi, con molta più attenzione perché i casi sono meno urgenti, nel Nord.
Ecco perché sottolineo il carattere pericolosamente qualitativo di questo fenomeno che può produrre un ulteriore impoverimento complessivo di un’area già povera, che così diverrebbe inesorabilmente periferica.

 

Come vede, a questo punto il futuro della stessa società meridionale? Magari a iniziare dalle questioni fondamentali: come la salute e il welfare sanitario?
Parlavamo prima di migrazioni, ebbene Il welfare sanitario presenta fenomeni di emigrazione. Abbiamo un fenomeno di migranti della salute che dalle nostre aree vanno a farsi curare negli ospedali del centro-nord o spesso anche in altre aree dello spazio europeo.
Come per l’università – anzi molto più che per essa perché i fenomeni corruttivi e clientelari della sanità sono in alcuni casi, in Campania per esempio, devastanti – si percepisce il medesimo loop, il medesimo circolo vizioso nel quale ci stiamo chiudendo.
Ma, mentre ho possibilità di giudicare la qualità dell’insegnamento universitario, in particolare nel Mezzogiorno, non posso fare lo stesso per la sanità. So che comunque la sanità meridionale quantomeno non è poi così terribile come viene rappresentata. Tuttavia il contesto generale, ciò che avviene nei nostri ospedali, quello che sappiamo per esperienza diretta, il tipo di accoglienza che si ha, i casi evidenti di parassitismi, mostrano una sanità malata. Questa sanità malata, poco alla volta, genera un rischio – che va al di là della riduzione delle prestazioni, fatto grave che evidentemente colpisce maggiormente le parti più deboli del Paese – che è di prospettiva, che vale per l’università come per la sanità. Il rapporto Nord-Sud oggi si gioca non solo in termini di reddito ma anche in termini di prospettive e quindi il rischio è che l’Italia, volendo partecipare all’internazionalizzazione e mondializzazione e temendo di non agganciare con l’intero sistema paese gli standard qualitativi medi necessari, prenda atto – invocando magari proprio i fenomeni di corruttela e mala gestione – che risorse e prestazioni vanno concentrate in alcune aree del paese, e queste aree saranno certamente a nord del Garigliano.

 

E il mondo del lavoro? Intendo l’occupazione, il lavoro flessibile, la disoccupazione?

Nella domanda il lavoro è declinato come occupazione, lavoro flessibile e disoccupazione; in realtà manca la questione vera del lavoro nel Meridione, che è quella del lavoro nero: noi siamo competitivi perché lavoriamo in nero.
Lo vedo per i miei giovani studenti, bellissime intelligenze per le quali non si può parlare certamente di lavoro flessibile né tantomeno di precariato, ma si deve parlare di vero e proprio sfruttamento del lavoro intellettuale. Succede altrettanto con chi lavora in uno studio professionale quale esso sia. Ma sono molte sono le forme del lavoro nero.
Questo deriva naturalmente dalla mancanza strutturale di lavoro. Probabilmente è vero quello che dicono gli economisti circa una situazione a macchia di leopardo, quindi diversa da zona a zona, e l’osservatorio di Napoli da questo punto di vista non è un buon osservatorio, perché certamente in questo caso Napoli concentra non i vantaggi ma tutte le difficoltà della metropoli più tutte le difficoltà del Mezzogiorno e quindi può essere un cattivo punto di osservazione.
In ogni caso sono innegabili i problemi legati al lavoro nero ed anche alla criminalità. Ma anche non volendo considerare la criminalità, che rappresenta il lavoro nero per eccellenza, la nostra struttura sociale ed economica è fragile, è debole. E né mi sembra che si possa assegnare molta fiducia, anche se è ormai necessario, alle forme nuove di imprenditorialità legate al turismo, questo famoso “petrolio del Mezzogiorno”. Anche perché poi il turismo prevede un’ infrastrutturazione che nel Mezzogiorno è assolutamente inadeguata.

Un caso tipico: Matera capitale della cultura nel 2019. È una bellissima occasione, è stata una scelta felice perché si è andati a cercare un Mezzogiorno anche molto particolare, lontano dalla rappresentazione oleografica e meno pittoresco di quello che talvolta lo stereotipo consiglia. Ma a Matera oggi non ci si arriva, o meglio: ci si arriva con mezzi e tempi inadeguati, per cui da questa occasione ci si può aspettare un successo intenso ma parziale. Siamo ormai a metà del 2016, questa cosa succede tra due anni e mezzo e non è che un ampliamento dell’aeroporto, una linea ferroviaria e un sistema generale delle comunicazioni si inventa in due anni e mezzo.
Tutto questo è emblematico di quanto dicevo prima, come anche la Salerno-Reggio Calabria; insomma, ci sono tante cose che ti fanno capire come anche di questo turismo non si può certo farne una panacea per ogni male. Certo, se guardiamo alle nostre città oggi vediamo che sono diffusi i B&B e la piccola iniziativa privata, anche con un certo successo. Il Salento, a tal proposito, negli ultimi anni offre l’esempio di un boom turistico autentico, che immagino abbia migliorato le condizioni economiche anche delle singole famiglie.

Da questo punto di vista – dato che sto parlando con Città della Scienza – il lavoro comunque da condurre sull’autoimprenditorialità e sugli spin off, dai livelli più semplici a quelli più sofisticati, è un lavoro che non solo è meritorio ma è un lavoro che più se ne fa e meglio è.
Le intelligenze possono essere messe in moto, anche se l’habitus culturale del meridionale non ha una immediata disposizione a guardarsi intorno e a chiedersi che lavoro si può fare. Il meridionale non vede il mercato, non vede di che cosa ha bisogno la gente intorno a lui.
Ma tutto quello che si può fare per una cultura della imprenditorialità nel Mezzogiorno va fatto. A partire dall’ accompagnamento delle nuove esperienze. Per esempio, con il micro credito: se ne parla molto ma, da quel che so, i ragazzi faticano anche per trovare 10.000 o 15.000 euro per avviare un’impresa senza essere subito strangolati dall’urgenza di restituire questi soldi.

Non mi risultano o non ricordo di casi in cui un giovane mi abbia raccontato di un credito di 50.000 euro, ottenuto con facilità e con un investimento a lunga scadenza e lungimirante sulla sua intelligenza; le banche stanno naufragando in un mare di crediti inesigibili, purtroppo nessuno di questi crediti inesigibili è stato dato un ragazzino di 25 anni con una buona idea.
L’unica leva che intravedo dunque è questa: autoimprenditorialità e valorizzazione del territorio e dei cervelli. Attenzione, non bisogna alimentare però la retorica del piccolo versus grande, grande e piccolo procedono insieme. Non è una semplice questione di indotto ma una logica di distretto. E’ difficile fare crescere il piccolo senza che da qualche parte, oltre le infrastrutturazioni necessarie, manchi il grande.

 

Come vede il futuro delle città e, di conseguenza, delle campagne nel Mezzogiorno?
ll rapporto città-campagna mi fa pensare in questo momento a due cose: la prima è il ruolo dell’agricoltura nel Mezzogiorno che sembrerebbe, in questo momento, uno dei pezzi che si racconta con minori lacrime, perché ci sono esperienze di innovazione verso colture più raffinate e produzioni di nicchia che sembra che stiano funzionando adeguatamente e più se ne fanno meglio è.
Esperienze innovative se fanno, ma sempre troppo poche; Napoli ha una spettacolare facoltà di Agraria che certamente è connessa con la realtà, ma lo può essere molto di più: parliamo di una delle più grandi facoltà di Agraria, non solo del Mezzogiorno, ma dell’Italia e dell’Europa. In che misura il Mezzogiorno è in grado di fruirne,in affiancamento alle esperienze innovative che pure ci sono – penso al miglioramento della qualità dei nostri vini, delle nostre mozzarelle- creando nuovi brand e ampliando il sistema di tutela dei marchi?

Tutto questo avrebbe bisogno di un’attenzione maggiore da parte della classe politica locale e nazionale: Attenzione che talvolta c’è e talvolta non c’è. Va benissimo l’Expo sull’alimentazione a Milano, ma è chiaro che se uno dice che l’alimentazione tipica italiana è la dieta mediterranea, forse l’Expo sull’alimentazione poteva essere fatto a Napoli. D’altro canto è anche vero che le grandi industrie agroalimentari stanno al Nord più che nel Mezzogiorno.
In ogni caso se per campagna intendiamo l’agricoltura, la struttura a macchia di leopardo stavolta presenta una geografia meno insoddisfacente, anche se il margine di miglioramento è strepitoso.
Se intendiamo invece la campagna in termini di territorio ho l’impressione che abbiamo un problema molto forte, sicuramente in Campania, che riguarda le aree interne, aree collinari o di montagna in cui è all’ordine del giorno lo svuotamento.

La discesa verso le coste del nostro Mezzogiorno è sensibilissima, e questo non solo non va bene per ragioni di carattere “memoriale”, per la perdita di identità e tradizioni, ma perché tutto questo gonfia il terziario, gonfia la pubblica amministrazione. Non è il segno di un positivo sviluppo: è solo segno di chi, stando male nel letto, si rivolta fino ad arrivare all’altro lato. Ma sono sradicamenti che non recuperi più. Servirebbe un impegno concreto di cui c’è scarsa traccia. Certamente servirebbe un riequilibrio territoriale tra città che si stanno gonfiando oltre limiti controllabili e gestibili e un entroterra che si sta svuotando perché non c’è lavoro, non c’è prospettiva sul futuro.
Sono stato qualche giorno fa in visita in un paesino delizioso che sta sopra Formia, Campodimele: è un borgo ben risistemato da un sindaco bravo, con i soldi della Comunità Europea e che ha 250 abitanti. Fanno anche piccole iniziative, c’è un festival della fiaba ed altre cose interessanti. È a soli 20 minuti da Formia, raggiungibile con una strada neanche troppo disagevole. Ma in quel paese da vent’anni non si è risolto il problema dell’approvvigionamento idrico. E sì che sono solo 250 persone. Così la gente che ha acquistato una case per le vacanze comincia a pensare di venderla, perché d’estate non si può nemmeno farsi una doccia. Siamo di nuovo al loop che evocavo prima: non è immaginabile che si possa governare lo smottamento verso la costa se in molte di questi luoghi, con queste opportunità, non si riesce a garantire nemmeno l’approvvigionamento idrico.

 

Continuiamo il discorso sulla società. Come vede questioni di fondo quali l’integrazione o l’esclusione sociale, la questione delle donne, dei giovani, degli anziani?
Mi sembra che su queste categorie, che sono categorie classiche, il Mezzogiorno stia rispondendo ancora oggi, poi vedremo se tenderà ancora a farlo, in una maniera classica, cioè presentandosi, per così dire, nella sua antropologia storica, o con il carattere molto feroce dell’esclusione o col carattere molto coeso delle solidarietà che si manifesta a livello dei nuclei familiari soprattutto, ma a volte anche in contesti più estesi come piccoli quartieri o piccole aree territoriali. Cioè viviamo, in qualche modo, con i vantaggi e gli svantaggi della reazione di sempre del Mezzogiorno alle forme della modernizzazione, quando la modernizzazione non è riuscita a intervenire con pervasività, positiva o negativa,affacciandosi appena e se ne afferrava una coda e poi ci si arrangiava da soli.

Oggi il Mezzogiorno, che deve fare fronte a una crisi dei redditi e all’evidente mancanza di lavoro, raramente vede una feroce lotta degli esclusi tra loro. Da noi le forme di accoglienza, e torniamo all’emigrazione, sono da questo punto di vista ineccepibili, raccontano di una civiltà veramente millenaria che considera l’altro, che sia un vicino o arrivi da lontano, con grande solidarietà: noi ci soccorriamo a vicenda e ci compattiamo perché le classi più sofferenti esprimono proprio questo. Oppure al contrario abbiamo la ferocia della dell’emarginazione che si può ritrovare persino in tanti fatti di cronaca nera.
Tutto questo proseguirà? I redditi delle nostre famiglie continueranno a sostenere queste forme di relazione? Il giovane continuerà a trovare una nicchia dentro la quale la famiglia lo aiuta? È difficile dirlo, bisognerebbe anche capire le quantità di cui stiamo parlando e anche vedere quanto a lungo tutto ciò durerà. Banalmente: i nostri settantenni e ottantenni sono nonni che talvolta sostengono il reddito di un trentenne, è chiaro che quel trentenne quando sarò ottantenne non potrà sostenere nemmeno se stesso e certamente non potrà sostenere suo nipote. Però stiamo parlando di una distanza da qui a 50 anni: e 50 anni per uno storico sono un’epoca, veramente come il mesozoico, non sono certo di che cosa accadrà davvero.

Non c’è dubbio però che però questa situazione sta andando avanti così come l’ho descritta: per il momento il Mezzogiorno sta compattando tutte le forme sociali nella famiglia. Il che ha dei vantaggi ma anche degli svantaggi: la famiglia è un generatore per così dire di controllo sociale di obblighi, di arrangiamenti, e poi i redditi sono redditi da pensione, redditi pubblici. È possibile che si continui ad andare avanti così? È moderno, non è moderno? No, non è moderno, e non lo era neanche prima, ma adesso c’è il rischio di un’accelerazione che mandi in crisi questo sistema più rapidamente di altri sistemi anche più feroci di esclusione sociale.

 

Nel futuro del Mezzogiorno quale ruolo avrà la legalità? Intendo in tutte le sue dimensioni: criminalità organizzata, criminalità comune, sicurezza in generale?
Voglio provare ad arrivarci da un altro punto di vista. Mi aveva molto colpito l’intervista, credo dopo i fatti di Parigi e del Bataclan, a un giovane delle banlieues parigine che raccontava dei fenomeni di affiliazione alle organizzazioni terroristiche negli stessi termini che noi conosciamo per la nostra criminalità: lui se n’era sottratto, nonostante la vita in una realtà tosta, in un ambiente di giovani che appunto si stanno, come si dice, radicalizzando, superando la difficoltà di essere visto come diverso e trovando la forza di sottrarsi a quei meccanismi. Raccontava, insomma, una storia che alle orecchie di un meridionale suonava nota, era esattamente quello che sappiamo accadere nei nostri quartieri cittadini, cioè esistono delle forme di reclutamento che – nonostante le resistenze individuali, che pure ci sono – hanno motivazioni identitarie e motivazioni economiche, e ha detto una frase che appunto mi ha colpito: ci vuole forza per andare a fare il proprio lavoro quando sai che per sparare a qualcuno ti danno 2000 euro.

In quel caso si spara nel contesto Bataclan, da noi si spara nel contesto camorra. Il punto è sempre lo stesso, però lì si tratta delle banlieues di Parigi cioè di un pezzo certo importante ma di qualcosa di molto più vasto, qui invece è il cuore del problema.
Sulla criminalità organizzata a Napoli c’è stato anche un dibattito negli ultimi mesi – mal posto e quindi non poteva dare alcun risultato –sul carattere per così dire quasi costitutivo della camorra. Quello camorristico non è carattere “costitutivo”: è un carattere storico, preciso, determinato intanto dall’assenza di lavoro. E qui ci troviamo di fronte ad un altro loop, è una parola che sto usando spesso ma perché non c’è nulla di peggio – almeno dal mio punto di vista di storico – di processi che si avvitano su se stessi; quando i processi storici si avvitano su stessi o li spacchi da qualche parte – ma non necessariamente la spaccatura avviene in modo virtuoso, si possono spaccare dalla parte sbagliata: una guerra ad esempio è un modo di spaccare un loop che altrimenti non riesci a risolvere e così anche può accadere nei processi minori di carattere sociale – o non li risolvi.

Oggi noi siamo in una situazione in cui la criminalità è frutto della mancanza di lavoro ed è a sua volta un fenomeno deterrente per la creazione di nuovi, e buoni, posti di lavoro e a questo punto si chiude il cerchio. Si chiude il cerchio perché non si capisce da dove affrontare questo fenomeno. L’azione contro la criminalità è senza dubbio meritevole e coraggiosa, ma del tutto inadeguata. Affrontare il problema dal punto di vista securitario e della repressione, oppure dal punto di vista dell’educazione rappresentano tutti giustissimi approcci ma nessuno risolutivo.
È vero che i fenomeni di organizzazione della criminalità economica sono diventati molto vasti, la storia ci parla ormai di 100 anni di colletti bianchi, ma oggi altro che colletti, si tratta di interi vestiti. E non possiamo non sapere che, anche in questo caso la mondializzazione capitalista si è fatta con un allargamento delle aree opache, e dentro le aree opache la criminalità non può che crescere o quantomeno deve essere tollerata come un derivato inevitabile e intoccabile.
La sicurezza nei termini che pone il signore della Brianza non è per noi un problema. Noi abbiamo il problema della “stesa”: ragazzini che corrono sui motorini e sparano all’impazzata. Cos’è davvero la “stesa”? E’ un fenomeno post-moderno? Certamente da un certo punto di vista è molto più grave di altri. È nel contempo un fenomeno nuovo e arretrato. Non voglio apparire sfiduciato, ma la situazione è davvero complessa.

Concludo con una considerazione: la criminalità, almeno questa meridionale, non sembra essere all’altezza della criminalità di Chicago o di San Francisco degli inizi del ‘900. Perché la criminalità da noi assume queste forme nuove e arcaiche non lo so bene. Né d’altra parte voglio promuovere come soluzione l’inserimento della criminalità nel quadro dello sviluppo economico. Tuttavia quello che accade a Napoli, e la “stesa” lo dimostra, è che questa accumulazione capitalistica primitiva, fatta attraverso la criminalità, fenomeno che la nascita degli Stati Uniti evoca continuamente, non ha prodotto nessun risultato proprio in termini di accumulazione capitalistica: non vediamo un investimento significativo. Sì, ci sono le cosiddette “lavanderie”, c’è l’apertura della pizzeria per riciclare denaro ma non per investire in qualcosa d’altro e per passare dalla gestione dell’attività criminale all’utilizzo invece di attività di sviluppo economico.

Naturalmente tutto questo è molto complesso, nemmeno negli Stati Uniti le due questioni restano completamente distinte. In Sicilia, la mafia sembra aver fatto in parte questa operazione: cioè è andata sottotraccia e riemerge attraverso il controllo di attività che sono anche di sviluppo economico.

Questo non significa che ci dobbiamo accontentare del capitalismo criminale come forma di accumulazione primitiva, ma che stiamo ancora peggio di altri perché quando hai un centro storico sotto scacco di ragazzini di 13 anni, protetti dal ventenne che viene protetto a sua volta dal cinquantenne, allora hai anche la versione iperdeteriorata della criminalità. E questo francamente è troppo.

 

Ha introdotto già il prossimo tema: l’economia. Partiamo da quella industriale: low e medium-tech; hi.tech.
Sono frontiere tutte molto interessanti e in qualche modo obbligatorie. Quello che talvolta si trascura di dire, penso, è che in queste nostre riflessioni sul sistema produttivo del Mezzogiorno è quasi come se quelle che ci sono davanti fossero delle opzioni: invece ci sono degli adempimenti da fare. Quando si parla, a esempio, dello sviluppo dell’industria turistica o dell’infrastrutturazione culturale oppure della modernizzazione e di una più chiara filiera industriale, produttiva e distributiva, dell’agricoltura – soprattutto dei cosiddetti prodotti di nicchia – e a maggior ragione quando si parla poi di high-tech, di varie dimensioni, non ci si riferisce a qualcosa che potremmo o non potremmo fare; tutto questo è esattamente quello che dovremmo fare. Semplicemente sono le strade da percorrere. E non solo per il Mezzogiorno d’Italia. Percorsi che competono comunque a quei soggetti che hanno già vissuto tutte le fasi della precedente industrializzazione e per i quali sarebbe veramente improponibile, da tutti i punti di vista, continuare a perseguire i vecchi modelli o immaginare che si possa rifare quello che è già stato fatto e si è concluso.

Detto questo, ci sono alcune osservazioni a margine. Innanzi tutto bisogna chiarire qual è il rapporto tra l’infrastrutturazione di base e tutte queste articolazioni di cui stiamo discutendo. Perché non sono completamente sicuro che tutta la filosofia e la pratica della deindustrializzazione che noi abbiamo subito consentano poi di immaginare che in questi deserti sia facile far fiorire i fiori della quarta o della quinta rivoluzione industriale.
Invece mi pare, ma è lo storico che parla, che dove le successioni storiche di rivoluzioni e varie fasi dell’industrializzazione – pur vivendo trasformazioni dolorosissime, penso all’Inghilterra – non si sono mai azzerate del tutto si è proceduto molto meglio che da noi, anche nelle tappe successive.

Detto in altre parole, il Mezzogiorno è sempre stata un’area dell’industrializzazione di base sufficientemente risicata, con cattedrali nel deserto e industrie più indotte che radicate nel territorio, pur se indotte talvolta in modo virtuoso.
Da tutto questo, dopo la deindustrializzazione degli anni ‘80 e degli anni ‘90, non si può immaginare che nascano distretti completamente slegati dalla realtà, e se a tutto questo aggiungiamo la non avvenuta infrastrutturazione in termini di trasporti e comunicazioni ci si chiede come possa avvenire da un momento all’altro una trasformazione. È inutile evocare la California. La California non è un’area paragonabile al Mezzogiorno d’Italia, ma un’area ad altissimo investimento industriale, e non da oggi, e con infrastrutture che sono la cifra degli Stati Uniti, con centri universitari di straordinaria attrattiva. Bisogna, insomma, abbandonare alcune retoriche e cercare di capire in che modo quel “deve” essere fatto “può” essere fatto.

La seconda questione è che tutte queste nuove forme di industrializzazione, che rispondono a nuovi livelli e nuove stagioni di innovazione, sembrano in qualche modo dichiarare sin dall’inizio di non preoccuparsi troppo di quella che invece è la preoccupazione classica del meridionalismo, cioè della industrializzazione ad alta intensità di lavoro. Mi sembra di capire che questa preoccupazione non corrisponda più ai dati del contesto mondiale, e allora sovviene l’idea che un mondo che è già così affaticato, che continua a mantenere livelli demografici significativi, e ne siamo anche in un certo senso lieti, per vivere di questa industrializzazione possa alleggerirsi di bagaglio umano, come ha sempre fatto nella sua storia.

 

E lo sviluppo economico dell’agricoltura? Dei servizi, del turismo?
Insisto: che qui ci siano possibilità di una straordinaria accelerazione dell’accoglienza turistica è fuori discussione. L’accoglienza turistica ovviamente deve anche avere, per così dire, delle precisione di pubblico altrimenti non funziona; è difficile immaginare Sorrento, o almeno queste Sorrento e Positano, con 10 volte il volume attuale di flusso turistico. Fermo restando naturalmente che va cercata una diversa distribuzione nel corso dell’anno e un miglioramento dei cosiddetti periodi morti, tutte cose necessarie che anzi, ripeto, le considero un obbligo.
Quanto tutto questo possa risolvere problemi radicali, non saprei dirlo oggi. Ma so, tuttavia, che siccome l’obbligo c’è, queste cose vanno fatte.

Aggiungo però che questa è una piccola parte di quello che siamo obbligati a fare, poi ci vogliono, a seconda dell’idea di scala che si ha del turismo, delle infrastrutturazione e qui siamo veramente indietro rispetto alle ambizioni del futuro, ma direi che siamo indietro anche rispetto ai bilanci del passato.
Ad esempio il fatto che la Circumvesuviana, per stare ad un’esperienza a noi nota, non funzioni, e che quindi non si riesca più in 50 o 55 minuti a raggiungere destinazioni relativamente vicine con un adeguato trenino, e quando dico adeguato mi riferisco al fatto che abbia un decoro minimo, è grave. Il suo funzionamento non sarebbe un segno dello sviluppo, sarebbe il minimo risarcimento della normalità che ci viene negata.

Dico questo perché ho l’impressione che, nella discussione che il Centro Studi di Città della Scienza vuole avviare, ci sia una giusta ambizione che va oltre il ridefinire il calendario dell’ordinarietà, ma si vogliano definire, da quell’ordinarietà, gli investimenti necessari per la straordinarietà, per accelerare il decollo della trasformazione del Mezzogiorno e allora non basta rimettere in piedi la Circumvesuviana. Ma se quella non funziona non è che possiamo immaginare il treno veloce alla giapponese che ci fa arrivare a Reggio Calabria in due ore, mettendo in rete tutte le tappe intermedie.

Tutto questo inoltre pone problemi grandissimi nel rapporto tra lo sviluppo e l’ambiente. Noi abbiamo già avuto devastazioni enormi, in tal senso abbiamo vissuto una stagione piuttosto intensa dagli anni ‘50 agli anni ‘70 e ’80, e quindi non possiamo adesso rischiare una nuova, semmai più moderna e accurata, devastazione perché andrebbe a sovrapporsi a quanto si è verificato nel passato.
Del resto, a titolo di esempio, non è che da domattina siamo in grado di desertificare completamente il litorale domizio per ricostruirlo su valori e con sistemi che siano al tempo stesso capaci di tutelare l’ambiente e di garantire un’attrazione turistica di tipo ambientale.

Oggi tutto questo non è alla nostra portata.
Viene da chiedersi dove costruiremo i grandi alberghi, oggi necessari per uno sviluppo autentico del turismo. Certo, si sono sviluppati B&B e agriturismo, c’è ormai una presenza molto diffusa di queste forme di accoglienza sul territorio, ma non ovunque queste forme hanno avuto lo stesso impatto positivo che hanno avuto, a esempio, nel Salento, perché lì si agiva su un territorio molto meno antropizzato e, quindi, molto meno devastato.
Come si può invece proporre un agriturismo diffuso da noi o sulla quella costa calabrese distrutta dalle speculazioni degli anni ‘70 e ‘80 che non si debba scontrare poi con un’altra antropizzazione, con altre forme e tipi rispetto ai precedenti.

 

Lei pone il problema delle infrastrutture. Aeroporti, ferrovie, strade, infrastrutture telematiche.
Su questo punto, almeno per un paio di cose, il bilancio visto da Napoli è particolarmente incoraggiante e fa capire come le cose possono anche funzionare. Ma anche perché però alla fine non funzionino.
A Napoli, negli ultimi anni, per l’aeroporto e per l’alta velocità c’è stata un’indubbia e positiva trasformazione della possibilità dell’abitante napoletano di relazionarsi con l’esterno. Tutto questo ha sicuramente portato, e io stesso ne posso essere diretto testimone per quel può valere, a una maggiore facilità rispetto al passato di partecipazione a processi gestionali e decisionali, di circolazione delle idee e delle persone. Che io possa, con facilità, raggiungere in due ore Parigi, ma anche Madrid o Vienna, o che possa, in una giornata, andare a fare delle riunioni Milano e tornare, significa banalmente che la mia partecipazione al sistema generale delle comunicazioni culturali e della progettazione culturale è enormemente semplificata.

Tuttavia questo non risolve le questioni di fondo. Non dico che le amplifica, perché significherebbe fare del catastrofismo fuor di luogo, ma per un verso questa maggiore vicinanza non ha mai lasciato immaginare, né credo lascerà mai immaginare, che la grande casa editrice di Bologna il Mulino si trasferisca a Napoli, perché tanto ci vogliono solo tre ore da Bologna a Napoli. È solo più facile per l’autore del Mulino essere partecipe di quella vicenda, ma non avviene il contrario. Né questo ha determinato una maggiore facilità, per chi voglia fare editoria – parlo ovviamente di piccole cose che conosco, ma forse sono esempi che valgono anche per altre scale di valore – impiantare a Napoli un’industria culturale resa particolarmente vantaggiosa dal fatto che si sono ridotte le distanze con Milano o Parigi.

Non è vero dunque che sia uno scambio; certamente è facilitata la vita del napoletano partecipe di questa o quell’ iniziativa, ma i centri decisionali, nella loro fisicità, mantengono la geografia di sempre. Anzi, da questa vicinanza traggono motivo maggiore per evitare ramificazioni che a questo punto sono diventate inutili. Questo cambierà col tempo? Non sembrerebbe: nel caso dell’università, lo abbiamo visto, sta anzi accelerando fenomeni di desertificazione delle nostre strutture di elaborazione del pensiero, piuttosto che il contrario.
Queste cose, quindi, non hanno creato una circolazione reciproca – di andata e ritorno – che dovrebbe essere tipica di un’area che dalle infrastrutture non ricava solo vie di fuga ma anche vie di accesso.
È vero però che questi processi possono avere una lunghezza della scala temporale maggiore di quella che possiamo osservare a occhio nudo, e quindi la situazione descritta è quanto registriamo all’oggi.
Così come per quanto riguarda le strade e le infrastrutture telematiche, registriamo di non possedere nemmeno le vie di fuga. Tutto è fermo, tranne qualche estenuante lavoro di triplicazione del breve tratto tra Napoli e Salerno. Mentre il sistema delle ferrovie regionali si ferma a Salerno. È stata annunciata la Napoli-Bari, che potrebbe avere un grande significato anche per la coesione di alcune realtà del Mezzogiorno. Ma, appunto, è stata solo annunciata.

La situazione delle infrastrutture telematiche è disastrosa. Nessuna città delle dimensioni di Napoli manca oggi dei cablaggi diffusi ed efficaci. A Napoli mancano del tutto, così come manca la banda larga in tutto il paese. Quindi, nulla di diverso da quanto non abbia già detto. Sono cose che si dovrebbero fare, solo così ci si potrà affacciare sul mondo, e capire in che misura ci siano stati mutamenti significativi nella base produttiva del Mezzogiorno

 

E l’ambiente meridionale, in tutte le sue accezioni: di territorio, di inquinamento, di paesaggio, di rischi (rischio idrogeologico, sismico, vulcanico)?
Purtroppo mai come nel caso dell’ambiente, del governo dell’ambiente e del territorio, si verificano danni sostanzialmente irreparabili. Nel senso che non abbiamo da lamentare solo grandi impatti di devastazione ambientale, ma c’è stata una diffusa capillare, direi microscopica, devastazione del territorio. Si è creato, anche in questo, caso un circolo vizioso sul quale non è facile intervenire. A partire dall’abusivismo edilizio: c’è un cortocircuito forsennato tra autorità preposte al governo del territorio ed elettori di quelle stesse autorità, c’è un’accumulazione di procedure burocratiche complesse quanto inefficienti: un complesso farraginoso di norme e relazioni, dentro al quale oggi nessuno è disposto a rinunciare alla sorta di omertà reciproca che deriva da questo sistema che non funziona e che consente il piccolo quanto il grande abuso, così da continuare a devastare in misura micrometrica il territorio. E i rimedi per ora sono solo annunciati. D’altra parte noi siamo la “Terra dei fuochi”, dove l’immane scempio non è certo causato da un sistema industriale autoctono; hanno invece trasferito Seveso in Regioni più permeabili e facilmente controllabili dalla criminalità.

Noi abbiamo avuto, ad esempio in Calabria e a Sarno, alluvioni di dimensioni non diverse da quelle in Liguria. Tutto sarebbe da rifare, ma mi chiedo con quale governance, perché noi abbiamo un problema di governance del territorio che non funziona. D’altra parte non è una governance autoritaria, ma democraticamente eletta, che esprimiamo ogni volta liberamente e consapevolmente perché sembra assicurarci quei piccoli margini di “evasione” dalla legge. Legge che non riusciamo a immaginare come spazio indispensabile, perché non immaginiamo di ricevere da essa una tutela autentica e allora – nell’assenza, presunta o reale, della tutela della legge – preferiamo poterci garantire dei piccoli spazi di evasione che ci consentono di fare piccoli danni che si accumulano, fino a esiti catastrofici. Non c’è governo del territorio perché non c’è governo, questo è un tema antico del Mezzogiorno che oggi si ripropone immutato.
Tuttavia questo non è solamente autogenerato dalle società meridionale, ma è generato dalla società meridionale a contatto coni sistemi a essa esterni, che prima si chiamava Stato nazionale e ora si chiamano Europa e globalizzazione..

 

Ciò vale anche per l’ambiente marino?
Le nostre coste hanno alcuni punti di straordinaria bellezza e altri che sono significativamente compromessi: correndo lungo la costa calabra sul versante tirrenico è difficile immaginare che essa possa ritrovare elementi di autentica bellezza e anche di fruibilità turistica a livello adeguato. Certo altre zone sono meglio conservate, ma anche perché hanno meno sofferto la pressione antropica.
La corsa alla bandiera blu è certamente una cosa virtuosa – chi mai vorrebbe la bandiera nera – ma da sola non definisce quasi nulla, perché per il Mezzogiorno, che è così pieno di mare, dovrebbe esserci un impianto, ben concertato, di luoghi anche a fruizione marina differenziato: dove è il porto non si può immaginare che, nello stesso luogo, vi sia un turismo alla Nerano.
Per tutto questo si dovrebbe immaginare una governance, legata al territorio, di tipo sovraregionale, si parla ad esempio di macroregioni e per il Mezzogiorno questa sarebbe una prospettiva molto interessante.

Anche perché a differenza di altri, noi in fondo, con il Regno di Napoli, abbiamo avuto un’esperienza di sovraregionalità che qualche traccia l’ha lasciata. Mentre se tu domani mattina metti insieme le coste della Toscana e della Liguria vedi che sono due pezzi disomogenei, mentre una continuità tra Campania, Calabria e Puglia e Abruzzo e Molise esiste. È, possiamo dire, nella tradizione delle nostre pratiche storiche quindi, tutto sommato, al netto naturalmente delle rivalità politiche, la governance sovraregionale nell’area del Mezzogiorno non sarebbe poi una cosa così complicata. Probabilmente è indispensabile per i problemi della gestione del mare così come per l’infrastrutturazione, anche perché, altrimenti, Napoli va a Milano e dimentica gli interessi che ha per Bari o viceversa, Bari punta su Bologna e dimentica il rapporto con Napoli, eccetera. Il Mezzogiorno si tiene insieme solo se identifichiamo un luogo di governance più forte di quelli esistenti di incontro tra le Regioni.

 

Nella tradizione del Mezzogiorno c’è anche la cultura. Come vede gli scenari culturali del futuro in termini di educazione (scuola, università), ricerca scientifica, ricerca umanistica, arte, beni culturali?
Le basi della nostra scuola sono ancora molto solide. Mi è capitato qualche tempo fa di essere a Reggio Calabria con dei colleghi, anche molto importanti, del mondo storico per alcune lezioni (una lodevole iniziativa della Regione Calabria), e quei colleghi provenienti da sopra il Garigliano o addirittura di là delle Alpi, erano sorpresi e si complimentavano dicendomi che per loro non era molto frequente – per alcuni era addirittura la prima volta – avere la partecipazione, vivace e ricca di interesse, delle scolaresche.
Le nostre strutture formative, proprio perché viviamo in una parte del mondo in cui la cultura ancora rappresenta anche un obiettivo sociale, tengono. Tengono i nostri insegnanti delle elementari, tiene il nostro sistema formativo, tengono anche le università.

Naturalmente gli indicatori che oggi vengono adottati non testimoniano di questo. E da qui anche la sorpresa dei miei colleghi. Questo però è anche dovuto al fatto che sono indicatori che tendono a privilegiare la fase poi di ricaduta sul mercato del lavoro, ma qui non c’è da recriminare tanto su un ritardo dell’insegnamento se non, forse, per una formazione ancora troppo umanistica. Certo si respira sempre un’aria da periferia del mondo, ma questo non può essere imputato, almeno non esclusivamente, al sistema formativo.
In questo quadro non fanno eccezione le università, tanto le principali quanto le nuove che sono nate e che hanno cercato, in tanto disordine, la loro collocazione.

Tutto questo tuttavia, come dicevo prima, non legato a uno sviluppo complessivo dell’ambiente sociale, rischia ormai di avvitarsi su se stesso perché proprio quello che oggi è salutato con piacere – l’ampliamento, la globalizzazione, le mappe che si allargano, i mezzi di trasporto rapido – fa si che, come già accaduto in altri momenti quando i piroscafi andavano più veloci delle navi a vela e i treni dei cavalli, che una parte del Mezzogiorno se ne va. E questo non si scambi con l’effetto virtuoso della circolazione, perché è bene dirlo, quello a cui assistiamo non è circolazione ma emigrazione. Perché circolazione significa che se vanno via 2000 laureati dalla Campania ne vengono dall’Olanda, dal Belgio, dalla Spagna magari non duemila ma almeno 1200. Questo non avviene, quindi la nostra è una pura e semplice emigrazione che oggi si sta determinando a livelli più alti dell’acculturazione ma che fatalmente finirà con col contagiare anche livelli meno elevati.
Perché, ripeto, il rischio è che nel momento in cui i bacini di attrazione siano quelli dove più facile è la collocazione in attività qualificate, il declino della struttura produttiva italiana nel suo complesso, e di quella meridionale che è più fragile, si porta dietro anche il declino dei luoghi di formazione.

Lo dico in maniera molto semplice: se l’Alitalia non è più l’Alitalia e la Fiat non è più la Fiat, vuol dire che gli ingegneri dell’Alitalia e della Fiat non si formano più, e che un napoletano probabilmente non troverà conveniente neppure andare a Torino perché a Torino c’è qualcuno che avvita i bulloni: ma per fare tutto questo di cinque o sei politecnici nel paese non c’è bisogno. Ce ne sarebbe bisogno, e di buon livello, se noi avessimo strutture produttive ad altissimo investimento tecnologico e di governance tecnologica. Ma se la governance economica deperisce nel settore dell’automobile, scompare dalla chimica, si allontana dai trasporti e subiamo la concorrenza dei paesi meno acculturati ma molto più determinati in questi campi, tutto il sistema formativo italiano verrà eroso dall’interno.
Tutto ciò non viene compreso. Ci si immagina sempre che il nostro sistema formativo sia minacciato da fattori esterni o dal fatto che i docenti siano degli imbroglioni, gli studenti dei fannulloni e via dicendo. Non è così, noi ci stiamo erodendo perché stiamo perdendo la ragion d’essere.

Ricordo che molti anni fa un professore mi raccontò che il Venezuela all’epoca – non so se è così ancora adesso – non aveva università perché immaginava che fosse preferibile spendere il denaro necessario a costruire le infrastrutture per pagare ai migliori delle proprie scuole secondarie l’accesso alle grandi università americane.
Questo accade molto spesso i nei paesi in via di sviluppo o di medio sviluppo, cioè che non si investa più in altra scala. Per esempio, l’Università Orientale in questo periodo è stata oggetto di un’attenzione da parte del governo somalo, per creare qui accoglienze di studenti delle lauree magistrali, perché in Somalia non trovano conveniente, dopo la triennale, creare tutta la filiera. Saranno 100 – 150 i Somali che vogliono frequentare una magistrale e quindi tanto vale che si faccia una convenzione con il governo italiano e si trovino luoghi come l’Orientale in cui si possano creare i percorsi formativi adatti. Ecco, questi sono i rischi che anche noi possiamo correre, anzi che stiamo già correndo.
La ricerca scientifica in Italia si fa ancora bene, lo sento dire da tutti e ne ho esperienza diretta, ma è evidente che non basta il genio isolato, come non bastava ai tempi di Galileo che, isolato, non ha creato la scienza moderna che hanno creato i francesi e gli inglesi, forse meno geniali ma più sorretti dalle proprie società.

Oggi è lo stesso: tutti i ragazzi “fuggiti” all’estero raccontano di laboratori accoglienti ma anche di grandi risorse messe in campo dagli altri paesi per la ricerca scientifica.
La ricerca scientifica presuppone investimenti del pubblico e del privato. Tempo fa – c’era ancora la Fiat – lessi in una statistica che gli investimenti della Fiat in ricerca erano un decimo di quelli della Volkswagen. Ci sono sistemi per convincere i privati a fare ricerca, perché un privato, in ogni Stato nazionale, dipende fortemente anche dalle politiche del potere pubblico: si è mai fatto un tentativo per “costringere” le grandi aziende private ad avere standard, ad esempio, del 2 o 3% del proprio bilancio annuo in ricerca? Non mi pare.
La ricerca umanistica in Italia gode innanzi tutto del grande vantaggio che è rappresentato dal capitale umano. È chiaro che le acculturazioni che noi siamo in grado di fornire in chiave umanistica non sono alla portata di tutti i paesi. Pare addirittura che ci sia una specie d’emigrazione di nostri laureati triennali – ma a volte basterebbero anche forse solo i diplomati – per insegnare il greco nei licei francesi. Perché noi ancora abbiamo dei licei in cui il greco è insegnato per cinque anni, mentre normalmente in Francia il greco è materia che viene appresa, a partire da zero, nel percorso universitario. Da noi se scegli il greco o il latino nel percorso universitario, hai alle spalle 5 anni di formazione, fatta bene o fatta male, ma sono pur sempre cinque anni.

Poi c’è il patrimonio culturale in quanto tale, che è del tutto insostituibile. Per qualsiasi epoca, diciamo almeno fino al XVII secolo e a partire da almeno un millennio prima di Cristo. È un patrimonio così imponente che non possiamo nemmeno immaginare di essere i custodi di tutto questo. Un mio professore inglese mi spiegava quanto fossi fortunato ad essere italiano, perché l’Italia possiede il 50% dei documenti scritti dell’intero pianeta.
Questa è una condizione unica, molto impegnativa, non facilmente sostenibile. Bisogna fare in modo che la comunità internazionale, oltre che conoscere e apprezzare tale condizione, ci aiuti. È un discorso complicato. Per il Mezzogiorno, direi che forse il discorso è ancora più raffinato: rispetto ad altre aree del Paese manca la percezione internazionale di che cos’è il Mezzogiorno d’Italia. Napoli è un’eccezione, Palermo un’eccezione minore e naturalmente i cultori amano tutto e amano anche il Mezzogiorno. Ma una configurazione autonoma di una cultura meridionale italiana, che è una cultura mediterranea ma non si riduce a essere una cultura mediterranea, pari a quella che si ha nel circuito internazionale per città e per aree come Venezia e il Veneto, Firenze e la Toscana, a volte anche per la Lombardia, noi non l’abbiamo e questa percezione noi la dobbiamo costruire.

Per questo sono molto felice, a esempio, che sia diventata Matera capitale della cultura nel 2019. Perché è Matera, ed intanto rende un grande servizio all’Italia, cioè evita che l’Italia venga riconosciuta sempre per quelle, peraltro nobilissime, “scatole di cioccolatini” che sono Venezia o gli Uffizi. Poi perché Matera esprime del Mezzogiorno una dimensione simbolica che non è quella solo delle rovine della classicità, del carretto siciliano, del pulcinella napoletano. C’è una specie di nuda severità della roccia, non saprei come altrimenti dire, che esprime le radici contadine del nostro mondo – diverse da quelle della valle padana – aspre e difficili ma molto nobili e molto dure.
Per cui mi auguro che questa possa essere l’occasione di un racconto – ce ne sono già alcuni segnali in alcune cose che stanno accadendo nella cultura musicale e visiva meridionale – in cui Matera narri, in un mondo in cui il minimalismo è all’ordine del giorno, il minimalismo radicale, profondo, eticamente nobilissimo del Mezzogiorno d’Italia restituendo quindi un’unità di visibilità e di racconto ad un’area che è altrimenti completamente scompaginata.

 

Veniamo, infine, alla dimensione politica. Come pensa si svilupperà in termini di democrazia, di partecipazione, di coesione territoriale, come verrà declinato il regionalismo, che ne sarà dei partiti politici e che ruolo avranno i movimenti nel Mezzogiorno d’Italia?
Anche in questo caso c’è quello che è obbligatorio fare e quello che l’obbligatorio non riesce a fare. Non c’è dubbio che noi oggi abbiamo standard di democrazia e, più in generale, di partecipazione alla vita pubblica del Mezzogiorno che oscillano tra la reiterazione di un male antico, come l’assenteismo o il clientelismo, e dall’altra parte però sperimenta forme e tentativi di cambiamento. Tra queste bisogna metterci anche quest’esperienza napoletana, che non deve essere guardata solo per i suoi limiti ma anche, almeno, per le sue ambizioni. Che queste vengano poi realizzate è altro discorso. Certamente oggi Napoli appare un luogo in cui quattro anni di dichiarazione sui beni comuni, alcune battaglie vinte – altre solamente dichiarate – e forme di partecipazione sociale più o meno diffusa – grazie anche all’azione del Comune in tutte le attività culturali – hanno prodotto a mio avviso una rivisitazione dei legami del tessuto politico e del tessuto sociale.

Ma questo sta accadendo anche in Puglia, in parte è accaduto persino in Calabria e con le battaglie contro la mafia in Sicilia. Insomma, io credo che questo processo, che è certamente esposto ai rischi del populismo, vada guardato un po’ da lontano, sapendo quanto l’anomalia politica e sociale del Mezzogiorno sia forte, è un po’ come la base delle nostre strutture educative: intanto c’è questo. E questo non deve essere trascurato. Anche perché tutto ciò esiste dove prima c’erano fenomeni di clientelismo molto forti, che oggi pure permangono, però ne vediamo anche il naufragio: penso alle primarie nella nostra città. Negli ultimi dieci anni il sistema non ha avuto la forza di imporsi rispetto a un tentativo generale di voler contare, di voler partecipare.
D’altra parte nel Mezzogiorno d’Italia anche i cinque stelle – pur essendo assolutamente implausibili – comunque pongono la questione di essere dentro gli schemi di partecipazione e di controllo del territorio.
Oggi, nel mondo globalizzato, dentro i grandi schemi, è veramente difficile immaginare cosa possa essere una democrazia; negli schemi della partecipazione territoriale, del local come si dice, attraverso le pratiche, se non di autogoverno, quantomeno di autodisciplina e di autoriflessione – evitando ovviamente le strumentalizzazioni eccessive e di agitare questa bandiera quando non è utile o non è opportuno – pur nell’impossibilità di governare il mondo, si ha almeno la possibilità di governare il proprio giardino e mi sembra una cosa che vada fatta.
D’altra parte, se questo non viene concesso i cittadini cercano di prenderselo.

Un esempio è la TAV: siamo ormai a vent’anni di battaglie e tutto sommato oggi la sensazione è che sia più forte il tentativo di trovare una soluzione di compromesso che non di imporre una scelta. Nessuno si può più permettere l’irrigidimento, un po’ superficiale, di chi ha la presunzione di portare il progresso, anche perché in questo caso il progresso era portato, in galleria, da una parte all’altra del mondo e chi si vedeva costruire la galleria in casa il progresso neanche lo vedeva, non è come le ferrovie inglesi che costruivano un casello ferroviario e una stazione ogni 15 chilometri.
Tutto questo potrebbe tramutarsi in un’evasione di massa dall’idea del governare i grandi processi che non sono più governabili: è possibile. Però pongo una questione: noi abbiamo un’equivalenza tra democrazia e libertà che ha un suo tempo storico. Potrebbe darsi che non è più quel tempo storico.

Per me, che sono studioso di cose dal ‘700 in avanti, è abbastanza chiaro: c’è un momento nel quale, non è che la libertà è funzione della democrazia, ma la democrazia sembra una forma per assicurare la libertà: libertà dal bisogno, libertà di espressione … tutte le libertà possibili. In altre parole: se io non sono colui che riesce a controllare il governo delle leggi alle quali devo obbedire non sono libero, se io sono uno che partecipa alla formazione delle leggi a cui devo obbedire sono libero.
Mi chiedo se questa equazione sia ancora vera. Se è vera in assoluto. Forse, nella percezione delle persone, non lo è. È possibile che oggi le condizioni della libertà non siano più necessariamente percepite come un tempo. La natura della norma è diventata così vasta, così porosa e così flessibile la norma stessa, che in fondo i miei margini di libertà dentro la norma sono diventati così grandi da non essere particolarmente preoccupato dall’idea che la norma l’abbia fatta io oppure no.

Forse abbiamo un’idea diversa oggi dell’estensione della nostra libertà. Facciamo il caso dei diritti civili, su cui ci possono essere ritardi e intralci ma che generalmente nessun governo si sognerebbe di negare. In questo caso può darsi che io sia più interessato al mio matrimonio e a quello dei miei figli che a chi controlla le banche, perché penso che sia la mia vita quotidiana, e quindi una democrazia in cui non controllo chi fa le nomine delle banche ma che mi da i diritti civili potrebbe essere un orizzonte più che soddisfacente.
E questo sposta, perché vuol dire allora che la democrazia dobbiamo immaginarla in modo diverso e dobbiamo capire quali sono le nuove funzioni della libertà.
Le forme che oggi si stanno maggiormente diffondendo – a parte quelle informatiche, che sono un po’ meno convincenti, e il populismo – sono pratiche di socialità diffusa territoriale. È difficile incontrare una persona che non abbia voluto provare a partecipare, non a un partito, ma a un’associazione. C’è un associazionismo diffuso dentro il quale tu hai l’impressione di contare una testa un voto, ma in un quadro di 40 o 50 persone che si occupano solo di che cosa fanno i cani quando i padroni li abbandonano durante le vacanze o della tutela delle tele dei Girolamini, o di salvare naufraghi sui gommoni.

Però queste cose non devono far sorridere i pensatori della rivoluzione universale, perché a chi ci sta dentro sembra di vivere bene e di fronteggiare e di resistere, persino meglio, agli assalti di impotenza che ti vengono quando vedi il telegiornale, molto più che andando a votare. Hanno la sensazione di “fare qualcosa”, di avere uno spazio entro cui quello che appare incontrollabile quando si ascolta il telegiornale può essere affrontato. La narrazione di queste nuove forme – vera o meno che sia – è la coperta di piccoli rombi, ciascuno dei quali è autosufficiente e il cui collante non è dato da un partito o da un governo, talvolta il collante può essere l’Ente locale, quindi di nuovo il territorio. Così parrebbe funzionare oggi, nel mondo del XXI secolo, la partecipazione. Anche qui nel Mezzogiorno, anzi talvolta più qui che altrove. In fondo de Magistris mi pare che, a pelle, questa cosa l’abbia percepita se non teorizzata.
Tutto questo, ripeto, può produrre strumentalizzazioni e degenerazioni, ma non dobbiamo essere impauriti del derivato negativo, dobbiamo vedere quello che sta accadendo e ciò che di inevitabilmente positivo porta, vale a dire una pratica del sociale: la gente esce di casa volentieri se può fare qualcosa di concreto.

Probabilmente la stessa cosa è accaduta in Inghilterra con la Brexit: i 3 milioni che il giorno dopo rivolevano il referendum erano persone che molto probabilmente non erano andate a votare quel giorno, ma avevano sicuramente pratiche quotidiane che li legavano in una dimensione reticolare, solo che questa volta si erano dimenticare che c’era un attentato preciso a tutto questo che era la Brexit.
Nel Mezzogiorno, che sembrerebbe arretrato, questa cosa sta accadendo in molti luoghi, dove trovi un reticolo di associazioni e iniziative che non è da meno a realtà che sembrerebbero molto più avanti. Non è più vero che in altre parti d’Italia, siccome c’erano i liberi comuni, c’è una propensione maggiore all’associazionismo diffuso. Oggi anche nel Mezzogiorno, soprattutto nel Mezzogiorno, penso ad esempio alle battaglie contro la criminalità, l’associazionismo ha preso piede e si è radicato.

 

Professore, tiriamo le somme e tentiamo di proporre un quadro sintetico finale: secondo lei il futuro del Mezzogiorno sarà di bellezza o di degrado? Di Progresso o di stagnazione?
C’è anche la bellezza del degrado (non il degrado della bellezza, quello è terribile), che accuratamente sorvegliata diventa un’arma straordinaria, perché la bellezza se si produce in forme troppo armoniche è stucchevole nei tempi contemporanei. La nostra bellezza non si produrrà mai – non si è mai prodotta o raramente prodotta – in un’armonia immediata, la “scatola di cioccolatini” di cui sopra.

Il problema è che il Mezzogiorno anche nel degrado esprime bellezza: questo è un vantaggio e nel contempo, naturalmente, una catastrofe. Questa non è una profezia, è già accaduto. Oggi noi, per i nostri livelli di degrado, dovremmo essere messi molto peggio, in realtà non lo siamo perché esprimiamo bellezza negli esseri umani che vengono generati in questo luogo, nella creatività che, quasi per una malattia antica, esso genera continuamente. L’altro giorno, in una conferenza, dicevo a degli amici di Trieste: guardate Napoli nelle sue varie forme: una è che qui, da 2500 anni, gli esseri umani stanno insieme, e quindi voi vi accorgerete in ogni frammento, anche quelli più violenti, che qui abbiamo una civiltà della relazione con gli altri totale. Noi ogni mattina sappiamo che incontreremo un numero ragguardevole di esseri della nostra specie che hanno interessi, gesti, opinioni uguali e differenti dai nostri, e che sono ostili, indifferenti e anche benevoli. Sappiamo tutto questo e usciamo di casa con questo spirito perché questa è la nostra civiltà. Questo vale per tutto il Mezzogiorno, persino nelle aree contadine. Noi abbiamo una capacità di sviluppo della parte relazionale dell’umano che è molto forte, e questo ci assicura le capacità di creatività e comprensione delle cose, a prescindere dal degrado in cui siamo nati o in cui piombiamo.

Il futuro del Mezzogiorno quindi sarà sempre quello che è stato, cioè una grande civiltà umana. Questo è sicuro, ma civiltà umana significa anche violenza e tante altre cose. Certamente siamo sottratti ai fenomeni di devastazione che attraversano talvolta i paesi del Nord Europa o altre aree. Per esempio, nei confronti dei migranti noi possiamo avere anche grande indifferenza, ma forme esasperate di nichilismo non appartengono alla società meridionale che ha proprio nella relazione con l’altro il naturale antidoto al nichilismo esistenziale che caratterizza altre società. Non saremo mai nazisti.
Progresso e stagnazione sono, anch’esse, parole impegnative. Che il Mezzogiorno mantenga una velocità adeguata a quelli che sono gli standard internazionali, oggi io lo escluderei. Però questo è già accaduto, e continua ad accadere. Le nostre università non rassomigliano più a nessuna università del pianeta, così come le nostre biblioteche.

Possiamo dire che tutto questo infici in maniera radicale la tenuta di quella bellezza di cui parlavo prima? No. La valorizza? No. La ostacola, l’affatica? Certamente.
Il Mezzogiorno d’Italia si deve ora confrontare nel rapporto nord-sud non solo con il paese ma con l’Europa, e sta vivendo le stesse forme di perifericità e maldestra partecipazione che aveva vissuto nel rapporto con lo stato unitario. Tutto questo, però, ci sta danneggiando ma non ci sta completamente annichilendo. E non è stagnazione. Noi partecipiamo della vita complessiva della modernità globale portandogli quelle caratteristiche per le quali a Napoli non trovi una biblioteca moderna ma può arrivare qualcuno – un artista, uno stilista – che trovi che le condizioni con cui Napoli partecipa al moderno e al post moderno sono assai più interessanti di quelle che ha verificato a Lione o a Malmoe, perché Napoli rassomiglia molto più a New York o a Mumbay. Ma i motivi per cui noi rassomigliamo di più a New York o a Mumbay sono di tale avvitamento che non ci sono mai stati strappati e continuano a essere generati.