La Grande Risacca e il martello di Lassalle *

  1. Note critiche

La Grande Risacca e il martello di Lassalle

La tecnologia non è né buona né cattiva; nemmeno neutrale

(Prima legge di Kranzberg)

Mondializzazione dei Mercati /Riterritorializzazione degli Interessi

Viviamo ormai da oltre un decennio all’interno di un doppio movimento che si potrebbe definire così: da una parte una sempre più spinta mondializzazione dei mercati, dall’altra una sempre più spinta riterritorializzazione degli interessi; interessi locali e interessi nazionali.
Il primo movimento rimanda al secondo e viceversa. Tali movimenti, in una dialettica sempre più aspra e reciproca, insieme modellano la struttura economica e sociale del mondo. E quindi necessariamente prima o poi anche la sovrastruttura politica e istituzionale, nei contenuti e nelle forme.
Questa doppia dinamica, nella potenza tellurica che sta assumendo, porta a configurare uno spazio politico inedito; inedito sia per la progressiva accelerazione assunta da tali movimenti sia per il peso, anche quantitativo dei fenomeni che tali movimenti sono portati ad innescare.

Dalle migrazioni alla geopolitica

La potenza tellurica di tali movimenti sprigiona dal nuovo nesso scienza/tecnologia, emblematicamente dalla rivoluzione informatica.
Il nuovo Spazio politico assume i contorni di una Grande Risacca: ad un estremo la secessione dei Patrizi (Saskia Sassen), all’altro estremo la secessione dei Plebei.
Le onde della globalizzazione dei mercati producono il Partito della Trilateral, il Partito di Davos; le onde della riterritorializzazione degli interessi producono partiti nazionalisti e leghisti.
Sinteticamente, la forma sociale, cioè il Sindacato confederale è spinto ad una sua progressiva aziendalizzazione, la forma politica, cioè il Partito organizzato, è spinto alla proliferazione in tanti partiti personali, sempre più simili alle compagnie di ventura dell’età del Rinascimento.
Come conseguenza ultima, la politica viene ridotta ad intrattenimento, maschera di un gioco tra oligarchie, buono soltanto a riempire i palinsesti dell’industria della comunicazione, diventata un fattore dominante nella contesa tra le stesse oligarchie.

Naturaliter, in tale Risacca, la Sinistra socialista, proprio perché è l’unica sinistra che non può che essere allo stesso tempo sociale e politica, viene accompagnata alla periferia della storia, alla sua insignificanza: la parabola del Pasok come comune destino.

A meno che la Sinistra socialista – che ha espunto persino dal suo vocabolario la parola capitalismo – non mette mano ad una grande riorganizzazione, premessa di ogni controffensiva: operare cioè un ritorno alle sue origini, una Bad Godesberg alla rovescia, uscire dai vortici della Risacca, e riaprire – dentro la Grande Crisi e la stagnazione secolare che prospetta – la dialettica/conflitto con il capitalismo della attuale fase.

La crisi in cui versano tutti gli attuali partiti socialisti parla sostanzialmente di questo: i cambiamenti nella struttura pongono tali forze di fronte ad un bivio inaggirabile.
Questo scritto vuole essere un contributo in tale direzione.
Un nuovo modo di produrre – un nuovo paradigma tecnico-economico – sta rivoluzionando i quadri temporali, spaziali, istituzionali, sociali di tutti i continenti. Dopo Manchester (nascita della prima rivoluzione industriale), Detroit (nascita del fordismo), la Silicon Valley è diventata il centro di irradiazione della “nuova tempesta di distruzione creatrice”. Questi tre luoghi geografici, rappresentano anche tre luoghi emblematici per il pensiero socialista: Manchester per Marx, Detroit per Gramsci, Silicon Valley è ancora alla ricerca di una teoria all’altezza delle sistemazioni del passato.

Il recente contributo di Evgenij Morozov è particolarmente suggestivo.
Siamo, secondo gli studiosi di scuola schumpeteriana, nel pieno del quinto ciclo di Kondratieff (cotone, carbone, acciaio, petrolio, microprocessore). Ma cambiando il modo di produrre e di consumare, cambiano tutti i rapporti sociali.
Vi ricordate? Il mulino a braccia vi da “la società” del signore feudale, il mulino a vapore la società del capitalista industriale.
Cosa ci sta dando il mulino digitale?
L’essenza, la peculiarità, del nuovo modo di produrre sta nella capacità – in un accumulo in grande accelerazione — di progettare rapidi mutamenti nei progetti, nei processi, nell’organizzazione: individualizzazione del lavoro, personalizzazione del consumo, miniaturizzazione dell’impresa (l’impresa in rete) sembrano essere le tendenze di fondo.

Integrazione nelle imprese delle fasi di progettazione e di produzione, riduzione di importanza delle economie di scala, alleggerimento e riduzione del numero dei componenti meccanici in tanti prodotti, integrazione in rete dei fornitori di componenti e di imprese di assemblaggio dei prodotti finali, sviluppo velocissimo di piccole imprese specializzate nella produzione di servizi e componenti.

Così schematizzati possono riassumersi i principali caratteri dei cambiamenti organizzativi nelle imprese e nei settori. Risorse di calcolo (computer) e di comunicazione (telefonia, reti di computer, Internet), di potenza sempre maggiore e a costi via via decrescenti, costituiscono la rete su cui scorre la transizione dal fordismo al nuovo modo di produrre.
Ma calcolo e comunicazione sono risorse la cui particolarità sta nel produrre organizzazione, alimentando relazioni, ordinando dati, creando significati.

Un modo di comunicare, è anche un modo di organizzare (Christopher Freeman).
Secondo un’antica regola, le prime vittime dell’onda d’urto sprigionata dal nuovo modo di produrre – un vero e proprio tsunami – sono proprio i sistemi più organizzati e strutturati: ciò vale sia per i sistemi di pensiero, sia per le realtà, produttive o politico-istituzionali.

L’onda d’urto ha avuto un effetto micidiale sull’insieme del discorso strategico socialista; ad andare in pezzi sono stati soprattutto due pilastri: la concezione del lavoro come dimensione collettiva, la concezione dello Stato/nazione come luogo storico e strumento principe delle politiche di redistribuzione e di cittadinanza.
Strategicamente, l’individualizzazione del lavoro, configura un processo di destrutturazione dello spazio sociale, l’esaurimento-svuotamento dello Stato-nazione, nel vortice della globalizzazione, configura una destrutturazione dello spazio politico. Ma l’effetto combinato della destrutturazione dei due pilastri sconvolge il triangolo dello Stato/nazione – democrazia politica – cittadinanza sociale – che ha rappresentato lo spazio politico, l’arena all’interno della quale, in un lungo scontro-confronto, si è costruito l’edificio moderno dei diritti sociali, “stecche del corsetto” della cittadinanza democratica.

Quali sono le nuove faglie sociali, intrinseche al nuovo modo di produrre? Chiederselo è imprescindibile, coglierne le linee di tendenza è essenziale – perché solo in questo modo è possibile fare i conti con l’affermarsi del nuovo paradigma.
Ragionare sulle cause profonde di tale crisi mi sembra prioritario. All’inizio, l’analisi va posta sulle nuove faglie sociali, intrinseche al nuovo modo di produrre.
Riconcettualizzare la “frattura sociale”, coglierne le nuove caratteristiche, diventa determinante, per fare i conti con le ragioni della crisi e per delineare i termini e i terreni di una possibile controffensiva, che per essere tale deve riguardare la riorganizzazione del discorso su entrambi i pilastri; non solo il pilastro dello spazio sociale, ma anche il pilastro dello spazio politico, proprio perché l’ultimo ha svolto e svolge, nello stesso tempo, la funzione d’ambito e di garanzia del primo. Si diceva destrutturazione dello spazio sociale.

Nel suo grande affresco sul capitalismo informazionale – la sistemazione forse più profonda sulla terza marca di capitalismo, dopo quello del laissez-faire, dopo quello keynesiano – Manuel Castells evidenzia, come all’interno del nuovo modo di produrre, emergano due grandi faglie sociali, fenomeni confermati anche da tante analisi di caso: la prima riferita al lavoro, la seconda alla condizione sociale.
1.Il lavoro sta vivendo una profondissima metamorfosi: un primo aspetto riguarda il processo di individualizzazione, aspetto su cui si è concentrata particolarmente l’attenzione, cioè il passaggio dal lavoro-posto al lavoro-percorso; ma c’è anche un secondo aspetto, ancor più importante, la tendenza crescente alla sua interna polarizzazione: da una parte cioè una specie di riartigianalizzazione del lavoro, dall’altra un lavoro generico,

Inoltre, il lavoro non solo si individualizza e si polarizza ma subisce un’ulteriore trasformazione: perde parte della sua potenza e della sua capacità di integrazione sociale; in termini politico-sociali le implicazioni sono formidabili proprio perché, nel lavoro e con il lavoro, si è realizzata la grande opera di integrazione sociale dell’era moderna.

A ben vedere, la metamorfosi del lavoro porta anche a una crisi progressiva, ad uno svuotamento, della stessa categorializzazione del lavoro affermatasi fin dal sorgere della rivoluzione industriale: i tessili, i chimici, i metalmeccanici ecc.; ma tale categorializzazione, pur di natura essenzialmente merceologica, ha funzionato, per dirla con Max Weber, anche come idealtipo: essere cioè allo stesso tempo identità e arma formidabile nella lotta sociale delle classi lavoratrici.
Tale questione ha una enorme portata, proprio perché sul nesso categoria/camera del lavoro si è costituito il Sindacato confederale, la forma più politica di sindacato, e di cui la categoria rappresenta un muro portante dell’intera costruzione. Il nesso categoria/camera del lavoro ha simbolicamente rappresentato il tentativo di impedire che il lavoro si riducesse primitivamente a forza-lavoro.

Ma se ricategorializzare il lavoro diventa sempre più necessario, di fronte al progressivo svuotamento di significato della antica categorializzazione, ricategorializzare il lavoro significa anche smontare e rimontare la forma di organizzazione che le lotte del lavoro hanno costruito e sedimentato in decenni e decenni di lotta sociale.
Ma non c’è alternativa: oggi un uomo al computer è un uomo al computer in tutte le postazioni di lavoro.
Il nuovo modo di produrre permette, infatti, contemporaneamente sia l’integrazione del processo lavorativo, sia la destrutturazione della forza-lavoro; e, conseguentemente, della sua potenza di integrazione.

Le tecnologie informatiche ed elettroniche – una volta si sarebbe detto l’uso capitalistico delle macchine

– rendono possibile la disintegrazione e la dispersione delle antiche comunità di lavoro. Delocalizzazioni e ristrutturazioni diffondono insicurezza. L’obsolescenza rapida dei saperi e dei mestieri genera erosione biografica (Richard Sennet).

2.La seconda faglia si configura come un ritorno della vulnerabilità, inedita e su larga scala, cioè l’emergere e l’estendersi del fenomeno definito esclusione.
In termini di struttura sociale, tempo fa si parlava della società dei due terzi.
Una società industriale che vedeva la gran parte dei suoi membri integrata verso l’alto, che si lasciava dietro però una fascia residuale di povertà, fascia non ancora pienamente coinvolta dal processo di sviluppo, che affrontata però con politiche opportune, sostanzialmente redistributive, lasciava intravedere la possibilità di un qualche riassorbimento.

Oggi invece alcuni parlano di società dei quattro quinti: un nucleo ristretto, collocato molto in alto in termine di occupazione e di reddito, circondato da una grande area di precarietà e di vulnerabilità che naviga faticosamente tra lavoro precario, occupazione intermittente, disoccupazione (Thomas Piketty). Altri ancora di società dei tre terzi, un terzo di privilegiati, un terzo di deboli, un terzo di precari.

Tutte le interpretazioni puntano comunque ad evidenziare che la marginalità non indica tanto un’area periferica in via di più o meno lento assorbimento, quanto il prodotto della destabilizzazione degli stabili, per dirla con Robert Castel, l’effetto cioè dell’onda della crisi che parte dal centro della società, in particolare del lavoro salariato.
Il senso del mutamento sociale in corso configura una nuova questione sociale, i cui elementi di fondo possono così riassumersi: drastica riduzione della mobilità sociale verso l’alto, destabilizzazione degli stabili, polarizzazione del lavoro, perdita del potere di integrazione del lavoro.

Il tema della povertà e della diseguaglianza, tema eminentemente economico e che rimanda a politiche distributive, si mescola e viene progressivamente sovrastato dal tema della esclusione sociale, tema eminentemente relazionale, che rinvia a sua volta alla questione ben più complessa del legame sociale, della sua rottura e della sua ricostruzione.

Si tratta di fare i conti con i caratteri nuovi sia della configurazione del lavoro, sia della configurazione sociale e, tutto ciò, in un contesto in cui le grandi migrazioni e l’insicurezza spingono alla etnicizzazione e alla corporativizzazione del conflitto sociale: significa sinteticamente una profonda reinvenzione strategica ed organizzativa del campo di forze della sinistra politica e sociale – in sintesi della costruzione di un grande Partito. Senza Partito la stessa autonomia del sociale finisce per essere episodica ed esaurirsi in se stessa.

 

Si diceva: destrutturazione dello spazio politico

Sostiene Jurgen Habermas che la questione oggi più importante è quella di sapere se la forza del capitalismo planetario – forza esplosiva in senso produttivo, sociale, culturale – possa essere ricondotta sotto controllo sul piano sopranazionale e globale, ossia al di là dei confini nazionali. Tale possibilità decide nella sostanza del rapporto tra politica e mercato: se la politica riguadagna terreno rispetto agli automatismi del mercato oppure se continua a svolgere solo una funzione ancillare; allenare i propri cittadini alla concorrenza, trasformare i cittadini in impresari del proprio capitale umano – alla Tony Blair – adeguarsi semplicemente a una visione etica del mondo che è tipica del neoliberalismo; se, in definitiva, il capitalismo globalizzato possa essere addomesticato o semplicemente smorzato.

La costruzione di Entità Statuali Continentali diventa il banco di prova ed insieme la condizione per innalzare a un livello superiore la potenza della politica: se il triangolo stato/nazione – democrazia politica – cittadinanza ha rappresentato lo spazio, all’interno del quale, attraverso un lungo processo di lotte politiche e sociali, il movimento operaio e socialista è riuscito ad addomesticare gli spiriti animali delle due precedenti forme di capitalismo, l’esaurimento dello stato/nazione mette la sinistra di fronte ad un bivio: disarmo dello stato sociale o riarmo dello stato/nazione; accettare un’ erosione degli standard pubblici di solidarietà sociale, oppure delineare un balzo in avanti, pensarsi e proporsi come la forza propulsiva del nuovo Stato federale europeo, sia per garantire la difesa e l’avanzamento della strategia della cittadinanza democratica, sia per costruire una prospettiva di governo del processo di globalizzazione.

In un saggio recente, Massimo D’Alema sostiene che «un forte potere democratico sopranazionale non è mai stato assunto come carattere distintivo dai partiti socialisti europei»; la radice di tale orientamento sta probabilmente nell’errore di aver concepito la globalizzazione come interdipendenza invece che come rottura di confini, come sconfinamento (Carlo Galli). Errore che, se è stato fatale a Mikhail Gorbaciov, non è stato certamente irrilevante per i partiti socialisti europei, quando, al governo in tredici Stati su quindici, non hanno colto l’occasione di chiudere la partita dello stato federale europeo.

La globalizzazione, dal punto di vista sociale, si è rivelata come polarizzazione spaziale, come polarità tra locale e globale.
Per riportare sotto controllo la potenza del capitalismo planetario, forma più indurita nei suoi scopi, ma incomparabilmente più flessibile nei suoi mezzi delle forme precedenti, è indispensabile riordinare lo spazio politico, ridefinire i confini.
Mentre, appunto, la globalizzazione sembra dispiegarsi attraverso una doppia dinamica (mondializzazione dei mercati – riterritorializzazione degli interessi) una politica socialista dovrebbe, all’inverso, separarsi rapidamente dallo stato/nazione e uscire dalla cattiva polarità locale-globale.
Se infatti lo Stato-nazione, strategicamente, risulta una trincea abbandonata, la polarità locale/globale configura una doppia negatività: una dimensione locale sostanzialmente ininfluente, o peggio ancora, uno scivolamento verso le piccole patrie, e una dimensione globale sostanzialmente inafferrabile.

Solo un Partito socialista della globalizzazione può proporsi di determinare una nuova spazialità come arena della contesa tra mercato e politica: assumere lo stato federale europeo come suo nuovo spazio politico, può, a un tempo, ridare allo spazio territoriale la funzione di pietra angolare progressiva, e allo spazio europeo la potenza necessaria per un controllo multipolare del processo di globalizzazione.
Inoltre, se la struttura sociale post-fordista presenta molte analogie – scontando ovviamente il balzo in avanti simbolizzato dall’avvento della Rete – con la struttura sociale pre-fordista, la configurazione sociale complessiva sembra sempre più assumere le caratteristiche della Moltitudine, per usare una categoria cara a Toni Negri.
Sorge quindi spontanea la domanda: come si organizza la Moltitudine? Come ci si organizza nella Moltitudine? Tutte le grandi città, Napoli docet, sono interpretabili solo introducendo tale categoria.

Se si sta al tema, straordinaria importanza vengono ad assumere quelli che con un neologismo possiamo chiamare Condensatori sociali, cioè organismi cooperativi (autoorganizzazione, volontariato, consumerismo, cooperazione ecc.), che sono ad un tempo argine versus l’atomizzazione sociale e produttori di socialità collettiva.
Organismi che nella Rete possono acquistare una diffusione ed una potenza assolutamente inedita. Di straordinario  interesse,  la  analisi  che  viene  proposta da Paul Mason nella sua opera sul  Postcapitalismo, insieme a quella di Mariana Mazzucato sullo Stato innovatore.

La nuova rilevanza strategica dei Condensatori sociali viene esaltata dal fatto che, mentre l’impresa fordista contribuiva a costruire essa stessa, concentrando il lavoro, la forza del suo interlocutore, l’impresa a rete, disperdendo il lavoro, lo rende più debole e vulnerabile e ciò, oggettivamente, modifica tutti i rapporti di forza sociali e politici nella città.
Per riformulare una strategia neosocialista, concentrare l’analisi sui Condensatori sociali – vecchi e nuovi – sulla loro missione e sulla loro forma, diventa oltre modo dirimente per due ragioni: se una delle faglie è rappresentata dall’esclusione sociale, cioè da un fenomeno essenzialmente relazionale, la risposta non può consistere in misure sostanzialmente redistributive come è avvenuto verso la povertà, ma deve spostarsi sulla ricostruzione delle cosiddette reti primarie di solidarietà; reti primarie che il Welfare classico, nel suo percorso, ha sostanzialmente relegato ai margini (lo statalismo ha marciato di pari passo con l’individualismo – direbbe Émile Durkheim).

Ma Se il cuore della questione sta nella ricostruzione-costruzione delle reti primarie di solidarietà, ciò significa anzitutto militanza sociale e culturale, più ancora che militanza politica in senso stretto. Probabilmente ha ragione Alain De Benoist – in questo sta forse il suo gramscismo – quando sostiene che se il secolo passato è stato il secolo della militanza politica, il prossimo secolo sarà soprattutto il secolo della militanza culturale e della militanza sociale. Ma ciò non può non avere un effetto profondo sulla forma-partito, sul modello stesso di Partito.

L’etero-direzione del mercato, la riattualizzazione continua della cittadinanza sociale e democratica rappresentano sempre il cuore della questione che un partito socialista europeo ha davanti, nella ridefìnizione del suo profilo e del suo ruolo.
L’esito di tale impresa dipenderà in definitiva, dalla capacità di riordinare il suo intero campo di forze, attingendo alle stesse esperienze sociali che sempre la realtà incessantemente produce ma selezionandole e connettendole e riconnettendole in un discorso unitario.
Le idee, contrariamente a quello che comunemente si crede, sono l’elemento più abbondante nel mondo: sono rare invece le organizzazioni che scelgono e connettono.

Reinventare strategia e organizzazione alla misura della nuova marca di capitalismo e delle nuove faglie sociali rappresenta per tutti gli insiemi che costituiscono la sinistra l’occasione per misurare le proprie forze e per sfuggire a un destino da replicanti. Condensatori sociali vecchi e nuovi vanno pensati o riformati alla luce delle nuove faglie. L’invenzione di nuovi istituti (Carta del lavoro alla Alain Supiot, ecc.), la trasformazione e la riorganizzazione delle istituzioni storiche (sindacato confederale, cooperazione, ecc.), l’investimento in quella che Lesther Salomon chiama rivoluzione associativa (terzo settore, economia sociale, ecc.), lo sviluppo di un altro potenzialmente grande attore sociale come il movimento dei consumatori, lo sviluppo di grandi reti cooperative e comunitarie rappresentano elementi essenziali nella riformulazione del discorso strategico socialista.

Il modello di partito socialista europeo a cui pensare – europeo perché l’Europa è la patria della politica, deve proporsi come centro motore di tale innovazione.

 

Il martello nella iconografia della concezione originaria marx-lassalliana del partito di massa rappresentava il simbolo della innovazione, cioè di un concentrato di capacità e di volontà collettiva.
Innovazione sociale e, insieme, innovazione politica: non si dà l’altra senza l’una.
Solo diventando centro motore, cioè solo alla condizione di produrre l’innovazione necessaria è possibile porsi al centro di una costellazione di forme antiche e nuove di partecipazione e cooperazione sociale e reggere la sfida con la nuova marca di capitalismo.
Specie nel momento in cui il capitalismo attuale attraversa la più grande crisi della sua storia, crisi che scuote dalle fondamenta i modelli produttivi e i modelli di consumo e che proietta come avvenire una stagnazione secolare.

*Articolo pubblicato su “Ti con zero” del 3 dicembre 2016