La scienza, la lingua e i futuri possibili: monolinguismo o multilinguismo di scambio?

Prima parte: comunicare

  1. La scienza e la costruzione del discorso teorico.

Gli oggetti della scienza non sono i fatti bruti, ma i fatti selezionati secondo un disegno organizzato per estrarre un senso dalla moltitudine dei fenomeni che si presentano all’esperienza:

Le savant doit ordonner; on fait la science avec des faits comme une maison avec des pierres; mais une accumulation de faits n’est pas plus une science qu’un tas de pierres n’est une maison.[1]

La mirabile innovazione della scienza moderna è la rinuncia ad afferrare gli eventi nella loro concreta totalità. I referenti delle parole della scienza sono costruzioni intellettuali che interpretano il mondo attraverso “modelli semplificati” dei fenomeni naturali.  La rivoluzione scientifica ha trasferito nella fisica, e in misura variabile in altre discipline, la stessa capacità di astrazione che aveva consentito ai greci di estrarre perfette figure geometriche dalle forme imprecise degli oggetti reali.  Un segmento, un triangolo, un angolo, un’ellisse sono concetti teorici che offrono un modello di oggetti o fatti naturali o tecnologici.[2] Nel ‘700 il matematico illuminista D’Alembert spiegava con parole ammirate il metodo scientifico ai lettori dell’Encyclopédie:

Dans cette étude que nous faisons de la nature, en partie par nécessité, en partie par amusement, nous remarquons que les corps ont un grand nombre de propriétés, mais tellement unies pour la plupart dans un même sujet, qu’afin de les étudier chacune plus à fond, nous sommes obligés de les considérer séparément. Par cette opération de notre esprit, nous découvrons bientôt des propriétés qui paraissent appartenir à tous les corps, comme la faculté de se mouvoir ou de rester en repos, et celle de se communiquer du mouvement, sources des principaux changements, que nous observons dans la nature. Ainsi, par des opérations et des abstractions successives de notre esprit, nous dépouillons la matière de presque toutes ses propriétés sensibles, pour n’envisager en quelque manière que son fantôme.[3]

Molte cose sono cambiate da allora nel modo di fare scienza, ma l’arte di semplificare rimane saldamente al centro della creazione del sapere scientifico. È la rinuncia a comprendere la concreta totalità del reale che paradossalmente conferisce alla scienza la sua enorme forza sul mondo.

 

  1. Il linguaggio della scienza non nasce spontaneamente: la lezione di Cicerone.

Per accogliere i concetti della scienza, le lingue hanno dovuto elaborare uno stile e un lessico specifici, capaci di conferire ai fatti e alle ipotesi una forma coerente con i suoi principi epistemici:

The language of science is, by its nature, a language in which theories are constructed; its special features are exactly those which make theoretical discourse possible.[4]

Il latino, che nel comune sentire è l’icona stessa del linguaggio  scientifico, dovette dedicare una buona dose di sforzo per conquistare le parole necessarie a esprimere le idee della scienza, nate nella cultura greca e incardinate in quella lingua.  Roma dominava il mondo ma la lingua greca era speciale: dai tempi della repubblica fino al collasso dell’Impero l’elite romana fu bilingue, a testimonianza dell’immensa ammirazione della classe dominante per l’arte e il pensiero della Grecia. Per almeno due secoli i romani usarono il latino soltanto per volgarizzare il sapere, a beneficio del largo pubblico, incolto e non bilingue. Graecia capta ferum victorem cepit, è la notissima sintesi di Orazio.[5]

Fu Cicerone a spezzare consapevolmente la dipendenza dalla lingua greca, ponendo mano alla creazione di un vocabolario latino adatto ad esprimere i concetti astratti della filosofia e della scienza. Con grande intelligenza egli si aprì allo sperimentalismo linguistico e al conio di neologismi:

Hoc mihi Latinis litteris illustrandum putavi, non quia philosophia Graecis et litteris et doctoribus percipi non posset, sed meum semper iudicium fuit omnia nostros aut invenisse per se sapientius quam Graecos aut accepta ab illis fecisse meliora, quae quidem digna statuissent in quibus elaborarent.[6]

Imitando il percorso compiuto dai greci, egli manipolò parole comuni come quantus ricavandone il termine quantitas (posótes); altrettanto fece per evidentia (enárgeia), humanitas (philanthropía), qualitas (poiótes), ed essentia (ousía). Creando un vocabolario filosofico capace di esprimere nozioni astratte, Cicerone mutò il destino del latino e aprì la strada al suo uso plurisecolare come lingua della scienza.
«Someone had to create the word quantity.  It is not an obvious concept», chiosa Gordin nel bel libro dedicato al linguaggio della Scienza, «certainly less so than “eye” or “tree,” and yet it is difficult to imagine science without it».[7]

L’avventura del latino è un caso eccezionale poiché la scienza è una raffinata creazione umana e le condizioni necessarie alla conquista del suo linguaggio si sono verificate raramente nella storia. Le lingue dell’uomo sono molte migliaia, ma quelle che occupano una posizione statisticamente significativa nella produzione di qualcosa che potremmo chiamare scienza, sono meno di un paio di decine. In ordine alfabetico si possono elencare: Arabo, Cinese (classico), Danese, Olandese, Inglese, Francese, Tedesco, Greco (antico), Italiano, Giapponese, Latino, Persiano, Russo, Sancrito, Svedese, Siriaco, e Turco (Ottomano). Non esiste nessun’altra sfera dell’attività umana -commercio, poesia, politica o qualsivoglia altra – che si sia sviluppata in un numero così esiguo di lingue.[8]

 

  1. Parole chiare per mettere ordine nel disordine delle cose.

La scienza ha bisogno di parole chiare e precise per dare un ordine razionale al disordine apparente delle cose. Quattro secoli di lavoro l’hanno dotata di un linguaggio definito, fatto di parole, immagini, diagrammi e simboli matematici, fisici e chimici. Ognuno trasmette i significati in modi differenti e tutti contribuiscono a costruire il messaggio. Gli stili argomentativi sono fortemente codificati, il vocabolario è complesso, la sintassi è precisa e le frasi devono escludere le interpretazioni ambigue.

Furono i grandi nomenclatori del ‘700, come Lavoisier e Linneo, ad avvertire acutamente la necessità di mettere ordine nelle conoscenze accumulate in secoli di osservazioni sottratte a ogni “certa dimostrazione” (Galileo), liberando il linguaggio della scienza dalle parole del senso comune.
Astronomia, fisica e matematica avevano potuto contare, fin dal sorgere della scienza moderna, su una tradizione di pensiero astratto e rigoroso che risaliva alla Grecia classica e all’ellenismo. Geologia, botanica, zoologia e chimica erano invece alle prese con lunghi elenchi di nomi, di oggetti e di fatti privi di ogni tentativo di ordine.  Lavoisier, che aveva una formazione matematica, ricorda lo stato di confusione che aveva trovato nelle lezioni di un famoso chimico del suo tempo:

J’étais accoutumé à cette rigueur de raisonnement que les mathématiciens mettent dans leurs ouvrages […] En chimie, c’ètait  tout un autre monde […] on me présentait des mots qu’on n’était point en état de me définir.[9]

Convinto che «l’on ne peut perfectionner le langage sans perfectionner la science, ni la science sans le langage». Lavoisier cercò di introdurre nella chimica regole fondate sul rapporto delle idee con le parole. Egli comprese che la teoria non emerge spontaneamente dalla percezione dei sensi e che il linguaggio non si limita a descrivere le esperienze ma dona ad esse una forma:  «I fatti da soli non dicono niente allo spirito» affermava negli stessi anni Guyton de Morveau, lanciando un appello per la riforma del linguaggio della chimica (1782).[10]

Con la collaborazione di Guyton de Morveau, Berthollet e Fourcroy, Lavoisier pubblicò, nel 1787, il Metodo della nomenclatura chimica, dove propose la prima classificazione sistematica fondata sulla riduzione delle sostanze naturali ai loro componenti elementari. I vecchi e fantasiosi nomi scomparvero: il “vitriolo di Venere” divenne “solfato di rame”.  Termini come ossigeno, azoto, carbonio, idrogeno, e suffissi come -oso e -ico per gli acidi, -ito e -ato per i sali, trovarono qui la loro prima formulazione. Gli acidi ricevettero nomi che indicavano l’elemento componente e il grado di ossigenazione (acido solfurico e solforoso).  Il nuovo linguaggio della chimica incoraggiava l’uso di parole derivate da radici latine o greche per sottolinearne l’astratta razionalità  e per marcarne la distanza dal senso comune.[11]

Le proposte dei nomenclatori suscitarono polemiche durissime, perché  infrangevano il collegamento con l’esperienza oggettuale. Realtà familiari come l’aria e l’acqua venivano decomposte in sostanze sconosciute, che si potevano incontrare solo in laboratorio. Le denominazioni arbitrarie e “straniere”, irrispettose dei dati sensoriali e della storia, vennero tacciate di usurpazione perché invertivano l’ordine del mondo, ponendo le parole figlie della terra sul trono delle cose figlie del cielo.[12]
Nel clima tumultuoso della Francia rivoluzionaria e post-rivoluzionaria la nuova nomenclatura divenne materia di battaglia politica e fu per qualche tempo accantonata.  I difensori di una pedagogia fondata sull’esperienza vedevano il linguaggio tecnico come nemico dell’empirismo: la lingua dei sapienti non è quella della natura, affermavano, e l’insegnamento ideale deve far vedere piuttosto che dedicarsi a parlare. La nomenclatura di Lavoisier riemerse tuttavia e si impose nei primi decenni dell’’800 e funge ancora da base al sistema chimico odierno.

Una riforma sistematica investì nello stesso arco di tempo anche le scienze naturali, dove Linneo sancì l’abbandono dell’identificazione delle specie viventi per mezzo di descrizioni basate su una lunga serie di perifrasi, sostituendola con la classificazione mediante una semplice coppia di termini (binomio) indicanti il genere e la specie di appartenenza (Homo sapiens, Fagus sylvatica).  Nel 1758 pubblicò, con il nome di Systema Naturae, la sua prima classificazione analitica, che sottopose poi a continue revisioni ed ampliamenti fino al 1770. Egli individuò negli organi sessuali il fondamento della tassonomia botanica e dettò le regole per denominare generi e specie, con esemplare rigore e parsimonia verbale. Usò il latino per segnare una maggiore distanza con i nomi “vernacolari” di piante e animali.[13] Consapevole che «Nomina si pereant, perit et cognitio rerum» ebbe l’ambizione di denominare rigorosamente tutti gli animali, le piante e i minerali conosciuti, riecheggiando la biblica operazione nomenclatoria assegnata nella Genesi ad Adamo il nomoteta.

 

  1. Dall’abbandono del latino al collasso nel monolinguismo anglofono.

Il ‘700 non fu solo il secolo della razionalizzazione della nomenclatura, ma fu anche l’epoca dell’abbandono del latino.  Il latino, che era stato per alcuni secoli la lingua internazionale della scienza, venne usato sempre più raramente: gli studiosi si volsero alle lingue nazionali e la scienza parlò in Francese, Inglese, Tedesco, Italiano e Svedese.
Il fenomeno apparve ai contemporanei tanto preoccupante quanto inarrestabile, come scrive D’Alembert nell’Introduzione all’ Encyclopedie:

Les savants des autres nations à qui nous avons donné l’exemple, ont cru avec raison qu’il écriraient encore mieux dans leur langue que dans la nôtre. L’Angleterre nous a donc imités; l’Allemagne, où le latin semblait s’être réfugié, commence insensiblement à en perdre l’usage: je ne doute pas qu’elle ne soit bientôt suivie par les Suédois, les Danois et les Russes. Ainsi, avant la fin du XVIIIe siècle, un philosophe qui voudra s’instruire à fond des découvertes de ses prédécesseurs, sera contraint de charger sa mémoire de sept à huit langues différentes; et après avoir consumé à les apprendre le temps le plus précieux de sa vie, il mourra avant de commencer à s’instruire.[14]

In realtà le élites accademiche dell’Europa conservarono ancora per almeno due secoli una conoscenza abbastanza solida del latino, e lo adottarono ampiamente nella creazione delle nuove terminologie. Le radici classiche permisero di forgiare parole dal suono familiare, facilmente assimilabili dalle maggiori lingue scientifiche dell’Europa, dando origine a un vasto repertorio verbale aperto alla mutua comprensione e profondamente transnazionale. Il linguaggio scientifico, edificato su questo nucleo terminologico condiviso, sembrava potersi esprimere in tutte le lingue con la medesima adeguatezza e precisione.  Gli scienziati appresero ad utilizzare più lingue, limitandosi a comprenderle o diventando capaci di parlarle. Per almeno due secoli intercomprensione e multilinguismo (in genere tri-linguismo francese, tedesco e inglese) furono la risposta adeguata al superamento delle barriere linguistiche.

L’illusione dell’universalità si dissolse rapidamente nei primi decenni del ‘900, quando l’affermarsi della civiltà industriale ampliò il numero degli studiosi, estese i compiti della scienza e ne spostò  i confini molto oltre l’Europa. Nacque la grande scienza con i suoi progetti su larga scala, gli ingenti finanziamenti, le attrezzature complesse e gli estesi laboratori. Il peso delle ricadute tecnologiche trasformò le regole che presiedevano alla diffusione ed alla applicazione delle conoscenze scientifiche: cambiando il mondo, la scienza ha cambiato anche le condizioni del suo stesso sviluppo.
Nell’epoca della tecnoscienza l’uso di parole derivate da radici latine o greche rimane ancora frequente ma si associa sempre più spesso a quello di termini coniati a partire dalle lingue vive. Le modalità della creazione di neologismi variano da disciplina a disciplina, ma la mescolanza di tradizione, fantasia e capriccio  è comune in tutti i campi. Nei settori più carichi di connessioni applicative di grande rilievo sociale ed economico, è aumentato il ricorso a stili di comunicazione mutuati dalla stampa e dalla pubblicità.

Posti di fronte all’enorme patrimonio di conoscenze generato da una collaborazione saldamente internazionale, gli studiosi iniziarono ad avvertire la pluralità delle lingue come un pericolo per le norme epistemiche della “scienza aperta”. Non c’è scienza senza comunicazione e esame critico vicendevole dei risultati: chi pubblica in una lingua minore, che la maggioranza non padroneggia, rischia di infrangere l’unità del sistema scientifico globale perché sottrae le sue affermazioni allo  scrutinio vicendevole degli esperti (peer review).[15]
Alle ragioni degli studiosi si affiancarono quelle del mondo del commercio, dell’industria, delle comunicazioni e della tecnoscienza. I nuovi utenti non coltivavano velleità universalistiche, ma erano spinti da necessità pratiche: desideravano una lingua franca per gli scambi globali.  Gli uni e gli altri, partendo da bisogni differenti, erano alla ricerca di un veicolo di comunicazione disponibile e condiviso.
La storia  politica e militare dell’occidente ha infine deciso per tutti e l‘inglese è diventato la lingua veicolare della scienza. In pochi decenni «L’inglese si è conquistato una posizione inespugnabile come lingua standard a livello mondiale: esso è una parte intrinseca della rivoluzione della comunicazione globale».[16]  

La comunità scientifica internazionale è ora risolutamente monoglotta. È inglese non solo il cuore tecnico del linguaggio scientifico, ma è inglese anche la lingua usata per parlare e argomentare di scienza. Il monolinguismo inglese ha soppiantato le altre lingue anche nell’uso locale, imponendo l’anglificazione delle riviste e dei congressi nazionali e infine della lingua dell’istruzione superiore. Gli strumenti adatti alla rapida disseminazione delle nuove conoscenze hanno preso il sopravvento su quelli necessari alla loro stessa produzione, generando problemi che per ora passano pressoché inavvertiti, ma potrebbero avere ricadute negative nei prossimi decenni. L’urgenza di esprimere le idee della scienza in una lingua comprensibile a tutti spiega la facile accettazione del monolinguismo anglofono come strumento di comunicazione. La sua adozione pervasiva ha però oscurato la consapevolezza che il linguaggio è prima di tutto un sistema cognitivo e comunicare è solo una delle sue funzioni: comunichiamo ciò che abbiamo pensato e le parole usate sono le stesse o sono simili a quelle che diciamo a noi stessi nella lingua che ci è più familiare.

 

Seconda parte: pensare

  1. La necessità di comunicare e l’urgenza di pensare: la lingua e l’impronta della storia.

Ancor prima di essere la chiave della socievolezza, il linguaggio è lo strumento dell’intelligenza che interpreta il mondo attraverso il colloquio con se stessi. Il discorso interiore ci aiuta ad apprendere il nuovo, ad elaborare i pensieri ed a confrontarci con il lato creativo della nostra vita mentale.[17] Le parole che risuonano nella nostra mente sono in continua evoluzione perché ogni nuova esperienza amplia il patrimonio di cui disponiamo per comprendere la realtà.[18]

La letteratura è piena di monologhi e anche il Dio della Genesi progetta la creazione dell’uomo attraverso un dialogo con se stesso e con l’universo:

 26. E Dio disse: «Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza, e domini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutte le bestie selvatiche e su tutti i rettili che strisciano sulla terra». 27. Dio creò l’uomo a sua immagine;  a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò.

Le medesime parole sono poi ripetute per comunicare ad Adamo ed Eva il loro destino:

 28. Dio li benedisse e disse loro: «Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra; soggiogatela e dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente, che striscia sulla terra».

Grafico VillaLe parole sono strumenti ambigui perché il tempo vi accumula una grande molteplicità di significati, immergendole in una rete semantica a limiti indefiniti. Le parole isolate non significano nulla senza la collezione di tutti i contesti nei quali possono essere usate. È compito di chi ascolta determinare quale significato debba essere inteso in ogni momento, decifrando le intenzioni di chi parla. In genere il messaggio funziona perché chi lo riceve lo situa nel contesto in cui esso viene  trasmesso.[19]
La rete delle parole (WordWeb) si può rappresentare attraverso grafi dove queste diventano vertici (o nodi) e le relazioni semantiche diventano linee di connessione (o legami); il grado k di un vertice è il numero totale delle sue connessioni.
La rete comprende un grande numero di nodi con pochi legami e un piccolo numero di nodi con molti o moltissimi legami. In termini statistici questa distribuzione risponde alla legge di potenza, e non a quella casuale di Poisson.

Il formalismo statistico è un poco ostico ma può essere chiarito con un semplice esempio, proposto dagli stessi autori della ricerca. Una rete casuale con distribuzione di Poisson è paragonabile alla rete autostradale, dove i nodi sono le città, e i legami sono le autostrade che le collegano. La maggior parte delle città sono connesse all’incirca dallo stesso numero di autostrade. Al contrario una rete che segue la legge di potenza è paragonabile a quella del traffico aereo, dove un grande numero di aeroporti minori sono connessi tra loro attraverso un piccolo numero di aeroporti maggiori. Questi ultimi sono dotati di un altissimo numero di collegamenti, e fungono da fulcro o hub per il transito verso gli aeroporti minori.[20]

Allo stesso modo, nella rete delle parole, molti nodi con pochi legami sono collegati a pochi nodi con un alto numero di legami che funzionano come veri e propri hub o fulcri semantici, permettendo collegamenti molteplici tra parole e concetti originariamente distanti. Navigando agevolmente tra nodi e fulcri la mente può creare associazioni impreviste capaci di generare parafrasi, analogie e metafore.    L’unicità di ogni lingua non è nelle singole parole ma nella rete che le avvolge: una lingua può avere un’unica parola “polisemica” per esprimere una molteplicità di concetti che un’altra lingua rappresenta con parole plurime e distinte.[21]

Negli anni tra il 1940 e il 1950 il linguista Morris Swadesh sviluppò un metodo per valutare la distanza fra le lingue, attraverso una lista di parole che fossero il più indipendenti possibile dall’ambiente e dalla cultura, come le parti del corpo, i primi numeri, le grandezze, alcuni verbi basilari (“mangiare”, “bere”). È stato dimostrato che le reti semantiche, che circondano i vocaboli della lista Swadesh in lingue diverse, contengono una molteplicità di connessioni condivise, che oltrepassano le differenze geografiche e culturali.[22] Accanto a queste emergono però collegamenti culturalmente connotati, che sono peculiari di ogni lingua e ne riflettono la storia. “Acqua” è una parola della lista Swadesh ed è universale nel suo significato concreto, ma non in quello simbolico, che è stato diversamente plasmato dalle religioni dell’Occidente e dell’Oriente. “Scienza” non è una parola della lista Swadesh, ma nel mondo globale tutti la usiamo e la comprendiamo. È sufficiente controllare su Wikipedia la sua definizione in due lingue relativamente affini come inglese e tedesco per scoprire quanto siano differenti i rispettivi campi semantici.

La definizione inglese di Science afferma che:

Science is a systematic enterprise that builds and organizes knowledge in the form of testable explanations and predictions about the universe.

La definizione tedesca di Wissenschaft, (nella versione semplificata pubblicata in lingua inglese) è più complessa e stabilisce che:

Wissenschaft is the German language term for any study or science that involves systematic research. Wissenschaft incorporates science, learning, knowledge, scholarship and implies that knowledge is a dynamic process discoverable for oneself, rather than something that is handed down. It did not necessarily imply empirical research. Wissenschaft was the official ideology of German Universities during the 19th century. It emphasised the unity of teaching and individual research or discovery for the student. It suggests that education is a process of growing and becoming. Some 19th century Americans visiting German universities interpreted Wissenschaft as meaning “pure science,” untainted by social purposes and opposed to the liberal arts. Some contemporary scientists and philosophers interpret Wissenschaft as meaning any true knowledge or successful method, including philosophical, mathematical, and logical knowledge and methods.

La concezione tedesca conserva in modo evidente l’impronta dell’ideologia Humboldtiana della stretta connessione tra scienza (Wissenschaft) e educazione (Bildung) e della loro unità come totalità coerente della conoscenza umana. Gli echi di questa impostazione si ritrovano nell’opera di Einstein e nel travaglio intellettuale che ha accompagnato la creazione del linguaggio della meccanica dei quanti.

È la ricchezza della rete semantica e la presenza di fulcri multi-connessi che, in ciascuna lingua, consente la creazione di percorsi plurimi e permette una differente utilizzazione delle parole nell’atto della comunicazione e in quello del  pensiero. Il primo può usare parole e stili codificati e condivisi e può accettare una standardizzazione che lo rende facilmente traducibile, come accade nella scienza dei nostri giorni.  Il secondo è lo strumento dell’identità intellettiva e mantiene una forte dipendenza dalle connessioni semantiche che ogni cultura ha elaborato nel corso della sua storia: navigando tra nodi e fulcri ognuno costruisce il proprio mondo.

On prépare l’avenir en créant une image intérieure de l’environnement. Cela n’est pas indifférent: pour vivre, il faut anticiper, et anticiper suppose de construire une image intérieure du milieu dans lequel on vit. C’est qui permet de faire des choix. Il est par conséquent  utile de laisser assez de place pour ce processus.[…] pour l’homme, l’anticipation, prélude  à la découverte,  se fait au sein d’une civilisation particulière  et dans une langue particulière.[23]

 

  1. I vantaggi del cervello multilingue.

Ogni lingua riesce ad esprimere solo una parte della infinita realtà del mondo (Wittgenstein): per questo il colloquio tra lingue diverse arricchisce il pensiero di tutte. Chi studia una seconda lingua sviluppa una consapevolezza metalinguistica e metaculturale che è uno dei più importanti obiettivi dell’educazione. Diventare multilingue significa mettersi in relazione con sottili livelli della percezione, della cognizione e dell’emozione di persone che vivono entro un differente sistema linguistico.[24]

La diversità tra le lingue non impegna solo la nostra mente, ma coinvolge anche il nostro cervello, che organizza nuove connessioni per la co-gestione del pensiero multilingue, diventando più efficiente nell’uso delle proprie facoltà esecutive. La conoscenza diventa più profonda perché la mente deve negoziare costantemente il significato di ogni concetto, incanalando l’attenzione verso la scelta delle parole appropriate. Per risolvere i problemi di interferenza/conflitto tra le diverse lingue, essa deve aumentare l’efficienza funzionale del sistema generale di controllo esecutivo promuovendone un rafforzamento che si estende anche ai compiti non verbali. Secondo alcuni ricercatori, il multilinguismo aiuta a mobilitare le riserve cognitive del cervello e allontana mediamente di almeno quattro anni la comparsa dei sintomi di malattia di Alzheimer.[25]

La crescente consapevolezza delle molte ricadute funzionali legate al possesso di più lingue spiega la grande attenzione che giornali e riviste, contigue agli interessi dell’economia internazionale, dedicano ai problemi del plurilinguismo. Sembra che Financial Time, Economist e Time Magazine, facciano a gara nel diffondere le nuove acquisizioni delle neuroscienze sui vantaggi del cervello multilingue. Titoli come Why bilinguals are smarter («New York Times», March 17, 2012), The multilingual dividend («Financial Times», March 13, 2013), The power of the bilingual minds («Time», July 25, 2013), sono un chiaro indice della compiaciuta convergenza tra il mondo delle indagini neurocognitive e quello dei settori più innovative dell’industria, della finanza e del commercio.

 

  1. Qualche riflessione sui futuri possibili: monolinguismo o multilinguismo di scambio.

In un mondo dove l’inglese è la lingua globale della comunicazione, capace di dare notorietà universale alle nuove conoscenze, è possibile sostenere ancora il multilinguismo come strumento necessario per mantenere vive le diversità culturali? Possiamo continuare a comunicare attraverso l’inglese veicolare, pur pensando nella lingua dove ciascuno si sente più in armonia con se stesso? La risposta a queste domande è molto difficile, ma l’analisi delle associazioni linguistiche diffuse in rete può fornire qualche suggerimento inatteso.

Links that speak: The global language network and its association with global fame è il titolo di una pubblicazione di molto successo uscita sui «Proceedings of the National Academy of Sciences» (PNAS) nel dicembre del 2014.[26] Il lavoro conta tra gli autori nomi famosi e si basa sulla raccolta di una grande quantità di dati ricavati da tre Global Language Networks (GLNs), quali traduzioni di libri, citazioni di Wikipedia, e messaggi di Twitter, che connettono fonti multilinguistiche da tutta la rete. Le conclusioni, non propriamente inattese, confermano la struttura gerarchica delle lingue del mondo :

In this paper – affermano gli autori –  we used network science to offer a previously unidentified characterization of a language’s global importance. The GLNs, mapped from millions of online and printed linguistic expressions, reveal that the world’s languages exhibit a hierarchical structure dominated by a central hub, English, and a halo of intermediate hubs, which include other global languages such as German, French, and Spanish.

La novità più suggestiva è la ridefinizione della dominanza linguistica in termini di hub, secondo una metafora informatico-aeroportuale fortemente suggerita dalle rappresentazioni grafiche adottate nel lavoro.
Come tutte le buone metafore, anche questa contiene molto più di quello che vorrebbe significare, come si evince dalla definizione di hub reperibile in Wikipedia:

In informatica e telecomunicazioni, nella tecnologia delle reti informatiche, un hub (letteralmente in inglese fulcro, mozzo, elemento centrale) rappresenta un concentratore, ovvero un dispositivo di rete che funge da nodo di smistamento dati di una rete di comunicazione dati organizzata con una topologia logica a bus e di topologia fisica a stella.

Accogliendo il suggerimento della metafora, sarebbe utile ripensare la lingua inglese non più come una meta di approdo, ma come un nodo di smistamento attraverso il quale si transita per avviarsi altrove. Tutte le lingue, grandi e piccole, traggono vantaggio a rimanere interconnesse: se vogliamo che la nostra lingua non si estingua, ma acquisti visibilità, dobbiamo agire su più fronti, investendo nella multi-traduzione del maggior numero di testi e incoraggiando gli utenti  dei Global Language Networks ad usare la lingua locale.  Nello stesso tempo, se vogliamo che le nostre idee acquistino visibilità globale, dobbiamo riproporle in una seconda lingua ricca di connessioni.[27] L’inglese attuale è l’hub che predomina su tutti: facciamo bene a servircene, ma non dobbiamo tralasciare di ripartire, per ritrovare ognuno la propria lingua, arricchendo il vocabolario di tutti con le peculiarità di quello di ciascuno. Negli anni 90 del ‘900, un’interpretazione ingenua della globalizzazione disegnò l’immagine di un mondo senza più storia, illimitatamente mobile, ubiquo e monolingue. All’inizio di questo secolo abbiamo capito che la storia non è finita, la geografia non è morta e il futuro è multilingue. Il compito per ognuno di noi è apprendere le lingue dei vicini senza abbandonare la nostra, perdendo con essa la ricchezza della sua storia.

Nella scienza, come in ogni arte, ciò che serve per elaborare il nuovo è certamente più profondo e diverso da ciò che serve in seguito per pubblicizzarlo: sarebbe tragico per tutti parlare bene in inglese e non avere più niente da dire.

 

Note

[1] H. Poincaré, La Science et l’Hypothèse, Flammarion, Paris 1917. Trad. dell’autrice: «Lo studioso deve ordinare; la scienza si fa con i fatti come una casa con le pietre; ma un accumulo di fatti non è scienza più di quanto un mucchio  di pietre sia una casa».
[2] A.N. Whitehead, Scienza e Filosofia. Conferenza pronunciata nel marzo 1932, Ed. italiana, Castelvecchi, Roma 2014.
[3] J.-B. le Rond d’Alembert, Discours préliminaire à l’Encyclopédie (1751), Édition électronique (ePub, PDF) v.: 1,0: Les Échos du Maquis, 2011. Trad. dell’autrice: «In questo studio che noi facciamo della natura, in parte per necessità, in parte per diletto, noi rileviamo che i corpi hanno un gran numero di proprietà, ma talmente unite per la maggior parte in un medesimo soggetto, che allo scopo di studiare ciascuno più a fondo, siamo obbligati a considerarle separatamente. Per mezzo di questa operazione della nostra mente, noi scopriamo presto proprietà che sembrano appartenere a tutti i corpi, come la facoltà di muoversi o di restare in riposo, e quella di comunicarsi del movimento, sorgente dei principali cambiamenti che noi osserviamo in natura. Così, per mezzo di operazioni e di astrazioni successive della nostra mente noi spogliamo la materia di quasi tutte le sue proprietà sensibili, per non considerare in qualche maniera che il suo fantasma».
[4] M.A.K Halliday, J.R. Martin (a cura di), Writing Science: Literacy and Discursive Power,  Falmer, London 1993.
[5] Q. Horatius Flaccus, Epistulae, II, 1, 156.
[6] M.T. Cicero, Tusculanae Disputationes, I, 1. Trad. dell’autrice: «Ho ritenuto di dover illustrare (queste questioni) attraverso la lingua latina, non perché la filosofia non possa essere appresa attraverso la lingua e i maestri greci, ma perché sono sempre stato dell’opinione che i nostri o abbiano imparato da soli ogni cosa più sapientemente dei Greci, o abbiano reso migliori quelle conoscenze ricevute da loro, che avessero ritenuto con certezza degne di dedicarvisi».
[7] M. Gordin, Scientific Babel: the Language of Science,  from the Fall of Latin to the Rise of English, University of Chicago Press, Chicago 2015.
[8] Ivi.
[9] Archives de l’Académie des Sciences, fonds Lavoisier, ms 1259. In Oeuvre de Lavoisier: Chapitre 1: historyofscience.free.fr/Comite-Lavoisier/f_chap1_lavoisier.html. Trad. dell’autrice: «Ero abituato al rigore di ragionamento che i matematici mettono nelle loro opere […] In chimica era tutto un altro mondo […] mi presentavano parole che non erano per niente in grado di definirmi».
[10] E. Grison, Guyton de Morveau, in «Sabix. Bulletin de la Société des Amis de la Bibliothèque de l’École polytechnique», n. 23, avr. 2000: www.sabix.org/bulletin/b23/guyton.html.
[11] L. B. Guyton de Morveau, J.-H. Hassenfratz, A.-F. Fourcroy, A.-L. Lavoisier, P.-A. Adet, C. L. Bertholet, Méthode de nomenclature chimique…, Chez Cuchet, Paris 1787.<
[12] J. Riskin, Chimie et Révolution : le pouvoir des mots, in «La Recherche», 1999, n. 320, p. 75.
[13] G. Montalenti, Carlo Linneo, in Enciclopedia Italiana, Treccani, ad vocem; P. Rossi ( a cura di), Storia della scienza, 9 voll., vol. 1: La rivoluzione scientifica: dal Rinascimento a Newton, Gruppo Editoriale L’Espresso, Roma 2006.
[14] J.-B. le Rond d’Alembert, Discours préliminaire à l’Encyclopédie, cit. Trad. dell’autrice: «Gli studiosi delle altre nazioni, ai quali abbiamo dato l’esempio, hanno giustamente pensato che avrebbero scritto ancora meglio nella loro lingua che nella nostra. L’Inghilterra ci ha così imitato; la Germania, dove il latino sembrava essersi rifugiato, comincia pian piano a perderne l‘uso; non ho dubbi che sarà rapidamente seguita dagli Svedesi, dai Danesi e dai Russi. Così, prima della fine del XVIII secolo, un filosofo che volesse istruirsi a fondo sulle scoperte dei suoi predecessori, sarà costretto a caricare la sua memoria con sette o otto lingue diverse; e dopo aver consumato nell’apprenderle il tempo più prezioso della sua vita, morrà prima di aver cominciato ad istruirsi».
[15] M.L Villa, La scienza sa di non sapere: per questo funziona, Guerini e Associati, Milano  2016.
[16] Language and electronics: the coming global tongue, «The Economist», 21 dicembre 1996.
[17] A.C. Reboul, Why language really is not a communication system: a cognitive view of language evolution, in «Frontiers in Psychology», 24 settembre 2015. http://dx.doi.org/10.3389/fpsyg.2015.01434
[18] R.V. Solé, L. Seoane, Ambiguity in Language Networks, Santa Fe Institute, working paper, 2 aprile 2014. http://www.santafe.edu/news/item/working-paper-sole-ambiguity-language/
[19] S.T. Piantadosi, H. Tilly, E. Gibson,  The communicative function of ambiguity in language, «Cognition», 122, n. 3. marzo 2012, pp. 280-291. https://colala.bcs.rochester.edu/papers/piantadosi2012communicative.pdf
[20] A.L. Barabási, Linked: The New Science of Networks, Perseus Publishing, Cambridge, MA 2002.
[21] L. Boroditsky, How the languages we speak shape the ways we think: The FAQs, in M.J. Spivey, K. McRae, M. Joanisse (a cura di), The Cambridge handbook of psycholinguistics, Cambridge  University Press, New York, NY 2010 e G. Lupyan, B. Bergen, How Language Programs the Mind, in  «Topics in Cognitive Science», 17 luglio 2015, http://onlinelibrary.wiley.com/doi/10.1111/tops.12155/full
[22] H. Youna, L. Suttond, E. Smith, C. Moore,  JF. Wilkinsc, I. Maddiesong, W. Croft, T. Bhattacharya, On the universal structure of human lexical semantics, «PNAS» (Proceedings of The National Academy of Sciences of the United States of America), 16 febbraio 2016 , vol. 113, no. 7, pp. 1766-1771.
[23] A. Danchin, Les langues de la découverte scientifique, in  «L’Archicube», n.9, dicembre 2010. Trad. dell’autrice: «Noi prepariamo l’avvenire creando un’immagine interiore dell’ambiente. Ciò non è indifferente: per vivere bisogna anticipare, e anticipare presuppone costruire un’immagine interiore del contesto nel quale viviamo. È questo che permette di fare delle scelte. È utile, per conseguenza, lasciare abbastanza spazio per questo processo […] per l’uomo l’anticipazione, che è il preludio alla scoperta, avviene in seno a una particolare cultura e in una particolare lingua».
[24] B. Della Chiesa, J. Scott, C. Hinton (a cura di), Languages in a Global World: Learning for Better Cultural Understanding, Centre for Educational Research and Innovation, OECD Publishing, 2012,  http://dx.doi.org/10.1787/9789264123557-en.
[25] E. Bialystok, Reshaping the Mind: The Benefits of Bilingualism, «Canadian Journal of Experimental Psychology», 2011, vol. 65, n. 4, pp. 229–235.
[26] S.Ronen, B. Gonçalves, K.Z. Hua, A.Vespignani, S. Pinker, and C.A. Hidalgo, Links that speak: The global language network and its association with global fame, «PNAS», 2014, vol. 111, n. 52, E5616–E5622, doi: 10.1073/pnas.1410931111| Published online December 15, 2014.
[27] Ibid.