Sperimentazione animale, la spaccatura che non c’è

Non poteva mancare, nel novero delle controversie scientifiche (vere o presunte), quella sulla sperimentazione animale (SA). Anche nel caso della SA il termine più corretto sarebbe “fintoversia”, per utilizzare il bellissimo neologismo coniato da Salvo di Grazia (Di Grazia 2013) nel suo istruttivo blog Medbunker, ispirato da un altrettanto interessante articolo (Ceccarelli 2008): Di Grazia, in accordo con la Ceccarelli, definisce la fintoversia come “una finta controversia motivata dal profitto o da ideologia estrema per creare intenzionalmente confusione nel pubblico su un tema che invece non è controverso”, e bisogna ammettere che, come dimostreremo in questo scritto, questa definizione si adatta perfettamente alle diatribe sulla sperimentazione animale che vengono proposte dalla stampa generalista a ogni piè sospinto.

Le associazioni animaliste e i politici a loro vicini (Brambilla 2014) sono infatti soliti ripetere frasi del tipo “la scienza è divisa sulla sperimentazione animale”, “sempre più scienziati sono dell’idea che la sperimentazione animale sia inutile”, “ci sono metodi in vitro che permettono di sostituire del tutto l’uso degli animali in ricerca” e via discorrendo. Queste affermazioni sono state ripetute anche durante audizioni parlamentari, sia in Italia che in Europa e, come detto, vengono spesso ripetute in maniera acritica dalla stampa nazionale. Ma sarà veramente vero che la scienza è divisa sull’utilità della sperimentazione animale?

Per dare risposta a questo quesito ci vengono in soccorso due sondaggi sull’argomento. Il primo è stato svolto da Nature (Cressey 2011) e vedeva coinvolti 980 ricercatori biomedici: di questi solo il 3,4% riteneva che la sperimentazione animale fosse “non essenziale” all’avanzamento delle scienze biomediche (e ci teniamo a far notare che “non essenziale” non vuole comunque dire che sia necessariamente inutile).
L’altro sondaggio è datato 2009 ed è stato eseguito dal Pew Research Center for the People & the Press: in quel caso (Pew Research Center for the People and the Press 2009) il campione era di oltre 2.500 scienziati, provenienti da varie aree tematiche (e quindi non esclusivamente biomedici), ma anche in quel caso la maggioranza è stata schiacciante, con solo un 7% degli intervistati non favorevole all’utilizzo degli animali in ricerca (per avere un confronto, nello stesso sondaggio era del 13% la percentuale di scienziati che non erano sicuri che l’evoluzione degli esseri viventi, umani compresi, fosse dovuta esclusivamente a un processo naturale): in altri campi, quali il riscaldamento globale, le vaccinazioni obbligatorie o la costruzione di centrali nucleari, la divisione risulta essere ancora più percepibile, con valori varianti dal 70 all’84%.

Quindi possiamo con certezza affermare, sondaggi alla mano, che nella comunità scientifica la controversia non esiste, e che portare la singola opinione di qualche voce fuori dal coro non è sufficiente per poter sostenere il contrario. Come ha detto il filosofo Peter Stokes (Stokes 2012), quando si parla di scienza le opinioni non esistono e si ha diritto solo alle opinioni che possono essere sostenute da prove fattuali. Qualcuno potrebbe obiettare che anche quella degli scienziati intervistati è solo un’opinione, ma sbaglierebbe perché quella degli intervistati rappresenta l’opinione della comunità scientifica.

In ogni caso, anche se non volessimo fidarci dell’opinione di questi scienziati (che non sono comunque pochi, numeri alla mano), ci sarebbero comunque numerose prove fattuali dell’utilità e della bontà (e anche dell’indispensabilità) data dal modello animale in ambito sperimentale. Potremmo per esempio andare ad analizzare la lista dei premi Nobel per la medicina e la fisiologia assegnati dal 1901 sino a oggi (Nobel Media AB 2015) e scopriremmo che su 105 premi assegnati, ben 93 sono basati su ricerche che hanno fatto uso di animali. E se qualcuno si chiedesse se, per caso, fosse vero che l’uso degli animali è una “pratica obsoleta” come sostiene a gran voce la Michela Kuan della Lega Anti Vivisezione (Kuan 2013), basterebbe far notare che sono dovuti all’uso del modello animale anche tutti i premi Nobel degli ultimi 30 anni, nessuno escluso (Animal Research.info 2015).

Le associazioni animaliste cercano spasmodicamente di instillare nel pubblico la convinzione che il problema sia scientifico, anziché etico, perché probabilmente sono coscienti del fatto che il discorso etico ha poco appeal sulle masse, soprattutto se si considera che gli animali utilizzati in ricerca sono per la stragrande maggioranza topi e ratti (Commissione Europea 2010, 2013). Anche dal punto di vista etico le associazioni animaliste cercano di “barare” un po’, facendo ampio uso di immagini di animali che possano suscitare più empatia (cani, gatti, primati), anche se, come dimostrato dalle statistiche europee citate prima, questi animali, tutti assieme, assommano a meno dello 0,12% del totale: in Italia i numeri sono percentualmente anche più bassi e per quanto riguarda i gatti, pur onnipresenti in quasi tutte le campagne propagandistiche delle varie associazioni animaliste, bisogna notare che il numero di esemplari utilizzati (Ministero della Salute 2011, 2015) è pari a zero sin dal 2009 (e anche negli anni precedenti costituivano una percentuale infinitesima, nell’ordine dello 0,002%). Eppure, se andiamo a vedere le più importanti campagne animaliste, come per esempio quella fatta nel 2012 (Lorenzoni 2012) per cercare di convincere alcuni senatori a votare in maniera conforme ai desiderata delle associazioni, le immagini proposte prevedevano, per l’appunto, un cane, un gatto e una scimmia a rappresentare la sperimentazione animale in toto (chiamata, tra l’altro, con il termine errato di vivisezione).

Anche l’uso di termini fuorvianti, come quello di vivisezione, è una pratica comune delle associazioni animaliste: il termine, come fa notare il professor Umberto Veronesi (che non si può dire non sia sensibile alla sofferenza degli animali), è un termine “anacronistico e non più rispondente alla realtà, ma viene utilizzato spesso per suscitare visioni di orrore” (Veronesi 2012). Ciononostante, continua a venire utilizzato dalle associazioni animaliste proprio per la sua forte componente emotiva intrinseca. Possiamo quindi assistere a un evidente dualismo nelle strategie delle associazioni animaliste: da una parte c’è un richiamo all’etica, cercando di esagerare al massimo le sofferenze degli animali, con ampio uso di foto spesso decontestualizzate (chi scrive si ricorda ([MV] 2012) di aver visto foto di sterilizzazioni di gatti randagi o scene tratte da film horror spacciate per sperimentazione animale), dall’altra c’è un continuo richiamo alla supposta assenza di basi scientifiche, all’obsolescenza storica delle tecniche che impiegano animali e all’ampia presenza di alternative: addirittura nel 1980 possiamo trovare articoli di quotidiani dove vengono portate ad esempio (oltre all’immancabile frase sugli “innumerevoli scienziati contrari”, tanto innumerevoli da risultare tutt’oggi una percentuale irrisoria) la “medicina cibernetica” e le simulazioni al calcolatore (A.D. 1980) date già all’epoca come reali ed attuali e capaci di sostituire completamente un animale, cosa che non è possibile neppure adesso, neppure per singoli organi o sistemi: giova anche ricordare che i migliori computer disponibili nel 1980 erano un nulla rispetto a un qualsiasi smartphone odierno eppure secondo la propaganda dell’epoca, che si ritrova ripetuta quasi verbatim anche oggi, i metodi alternativi sarebbero già stati disponibili (e verrebbe da chiedersi che fine abbiano fatto negli ultimi 35 anni!).

Questo dualismo tra etica e scienza viene utilizzato per distorcere la realtà e la continua oscillazione tra empatia e razionalità, senza soluzione di continuità, viene utilizzata per impedire alle persone di compiere un ragionamento completo. Se, infatti, venisse seguita una sola strategia, ad esempio quella del richiamo all’etica, questa fallirebbe sulla maggior parte della popolazione, che mangia regolarmente carne o pesce e che è ben felice di avere le proprie città derattizzate e i propri cari curati. D’altra parte l’approccio pseudoscientifico cadrebbe miseramente se alla popolazione si lascia il tempo di analizzare con cura le affermazioni dei sedicenti scienziati animalisti e di controllarne la veridicità: nel seguito di questo articolo analizzeremo, dati alla mano, alcune delle affermazioni scientifiche (o supposte tali) che riempiono la propaganda animalista e vedremo quanto sono aderenti alla realtà. Se si analizzano infatti le affermazioni riportate sulla propaganda animalista si osserva un pattern ripetitivo nel quale sono quasi sempre le stesse affermazioni a fare capolino.

Una delle citazioni più gettonate è che “Il 92% delle sostanze che superano la sperimentazione sugli animali non superano la sperimentazione umana” (Cagno, 2013), affermazione vera ma fonte di decontestualizzazione: se è infatti vero che solo l’8% dei farmaci che hanno superato la fase in vitro finisce in commercio è anche vero che le cause sono molteplici e non necessariamente dovute a problemi di traslazione all’uomo dei risultati ottenuti nell’animale. In alcuni casi, come spiegato chiaramente anche nell’articolo originale (Harding 2004), la non commercializzazione può essere dovuta a fattori di tipo economico, ove la redditività prevista per il farmaco, alla luce dei risultati ottenuti nei trial clinici, sia inferiore a quella preventivata in fase progettuale e quindi non giustifichi la continuazione dei trial o la messa in commercio. I farmaci che vanno a coprire segmenti di mercato già ampiamente forniti possono infatti essere redditizi solo se forniscono un margine significativo di miglioramento rispetto a quanto già sul mercato. Prestazioni analoghe o solo leggermente più performanti di quanto già in commercio, solitamente a prezzo più basso, non giustificano infatti sempre le spese previste per la produzione su grande scala e per il marketing di lancio. Ma non solo: anche se ci si trovasse in un caso in cui il problema è di tipo traslazionale, ciò non sarebbe un buon motivo per contestare la ratio sottostante agli studi su modelli animali.

Il fatto che una percentuale di farmaci che hanno superato uno o più stadi di test non passi uno step successivo è intrinseca nella struttura stessa del processo di sviluppo di un farmaco. Per ogni farmaco che arriva in commercio il numero di molecole che risultano efficaci nei cosiddetti studi in silico (cioè nelle simulazioni al calcolatore) è molto alto e stimabile in un numero compreso tra le 10.000 e 25.000 molecole. Di queste solo una percentuale minima arriverà agli studi in vivo, mediamente lo 0,2%. Delle 10-20 molecole che superano gli studi in vitro solo la metà, mediamente, arriverà ai trial clinici e di queste solo una arriverà in commercio; possiamo quindi riassumere dicendo che delle molecole che iniziano gli studi in silico solo lo 0,001-0,002% arriva a commercializzazione (Brunton, Chabner, & Knollman, 2011): sarebbe forse questo un buon argomento per contestare l’inutilità degli studi in silico? La risposta è ovviamente scontata.
Analogo ragionamento può essere fatto per un’altra delle affermazioni più in voga nel mondo del contrasto (pseudo)scientifico alla sperimentazione animale, il fatto che “Il 51% dei farmaci commercializzati negli USA presenta gravi reazioni avverse che non si erano verificate nei test sugli animali” (Cagno 2012).

Il dato può essere anche vero dal punto di vista numerico (Moore, Psaty, Furberg 1998), ma anche qua c’è una storpiatura sottile ma fondamentale: la realtà è che il 51% dei farmaci presenterà almeno un singolo caso di reazione avversa non descritta in precedenza: né negli studi nell’animale né nei trial clinici sull’uomo (e questo è detto chiaramente da Moore et al. che non si sognano minimamente di dare la colpa alla sperimentazione sugli animali). Purtroppo il processo di ricerca e approvazione di un farmaco non è perfetto ed è probabile che una certa percentuale di reazioni avverse (principalmente quelle rare, che si verificano in un caso ogni 10.000 o più individui) non venga notata in fase di trial clinici sull’uomo, che coinvolgono mediamente 5-6.000 pazienti nei trial multicentrici. In realtà, a voler essere pignoli e a voler andare a vedere i numeri reali, il quadro che si ottiene è esattamente l’opposto: il numero di farmaci che vengono ritirati dopo la commercializzazione è piuttosto basso, mediamente meno del 3% su un periodo di 25 anni (Lasser et al. 2002).

E potremmo continuare con “nei soli Stati Uniti, ogni anno muoiono 100.000 persone a causa di reazioni avverse ai farmaci (è la quinta causa di morte)” (Vecchione 2013), affermazione che già di per se è facilmente smentibile andando a controllare le cause di morte negli Stati Uniti sul sito dei CDC (Centers for Desease and Control and Prevention), dove scopriremmo che la morte per farmaci non risulta in nessuna delle prime dieci cause di morte negli Stati Uniti (CDC 2013) ma (anche ammettendo che il dato fosse stato, per assurdo, vero) non si capisce perché la colpa debba essere della sperimentazione animale e non dei trial clinici successivi che hanno dato il via libera definitivo alla commercializzazione del farmaco. E se volessimo continuare a essere pignoli nel valutare quanto la sperimentazione animale sia efficace nell’evitare che molecole molto tossiche entrino nei trial clinici, scopriremmo che lo scopo viene raggiunto molto bene, dato che il numero di decessi in fase 1 (quando una nuova molecola viene testata per la prima volta su un essere umano) è stato pari soli a 15 casi negli ultimi 30 anni (pari a circa lo 0,0005% dei pazienti testati): in realtà il numero di decessi inevitabili, se si fossero seguite scrupolosamente le linee guida, sarebbe stato di soli 3 decessi (e si arriverebbe quindi allo 0.0001% dei casi): anche il numero di effetti collaterali gravi è sostanzialmente basso, nell’ordine dello 0,02% dei casi (Sibille, Donazzolo, Lecoz,  Krupka 2006).

Se l’uso degli animali fosse davvero così inutile e fuorviante come qualcuno cerca di farci credere, questi numeri sarebbero di diversi ordini di grandezza più elevati, con conseguente aumento del numero di vite umane perse o messe fortemente a rischio. Come si può vedere, spesso i creatori di fintoversie forniscono bibliografie che, seppur apparentemente credibili e coerenti a prima vista, spesso sono usate in maniera strumentale per cercare di dimostrare una tesi precostituita. Il fenomeno è noto con il termine inglese di cherry-picking, perché è similare all’azione di cogliere solo le ciliegie migliori (le fonti – o addirittura le frasi – che possono sembrare confermare la nostra teoria) dimenticando totalmente tutto il resto della produzione scientifica a riguardo. Abbiamo già dato alcuni esempi di cherry-picking nei paragrafi precedenti ma bisogna ricordare che i migliori cherry-picker riescono a prendere singole frasi da un lavoro e a utilizzarle per dimostrare l’esatto opposto di quello che il lavoro originale voleva dire.

Tra i migliori esempi italiani (che, invero, sono alquanto numerosi) possiamo citare un blog gestito da un ragazzo senza nessuna preparazione scientifica, che però riesce a infarcire i propri scritti di lunghissime bibliografie, completamente decontestualizzate: una volta (Lio 2015) è riuscito persino a utilizzare un vecchio articolo del farmacologo Silvio Garattini (Garattini 1985) (che analizzava in maniera rigorosa i punti deboli della pratica tossicologica dell’epoca proponendo possibili miglioramenti, senza mettere in dubbio l’utilità del modello animale) per sostenere che l’inutilità del modello animale sia stata ammessa dallo stesso professore. Come nota a margine, per coloro che fossero curiosi di leggere questo capolavoro di retorica, facciamo notare che in bibliografia vengono immancabilmente citati i dati di cui abbiamo già parlato nei paragrafi precedenti (numero di effetti collaterali, numero di decessi ecc…).

Altri due cavalli di battaglia dei cosiddetti Antivivisezionisti Scientifici (AVS) sono la “validazione” e l’ “assenza di anestesia”. Entrambi i casi sono privi di fondamento, anche se bisogna ammettere che non sono di così immediata comprensione e sono quindi necessarie alcune parole di spiegazione aggiuntiva. Per quanto riguarda la validazione, Michela Kuan, sulle pagine web della LAV definisce la sperimentazione animale come “un modello mai validato, fuorviante e immorale” (Kuan citata su LAV.it 2014), facendo leva sulla terminologia per colpire l’opinione pubblica che non sa che il processo di validazione è richiesto per i test in vitro per dimostrare che siano capaci di dare un risultato almeno sovrapponibile ai risultati ottenuti sugli animali con sostanze note. In pratica si tratta di testare con il metodo in vitro un certo numero di molecole che si sa per certo essere tossiche o innocue nell’animale per vedere se il metodo in vitro è capace di riconoscerle come tali. Validare in maniera analoga il metodo in vivo presupporrebbe testare sull’essere umano tutta una serie di sostanze tossiche nell’animale per essere certi che lo siano anche sulle persone (quelle non tossiche nell’animale sono già utilizzate in commercio): spero che tutti comprendano perché questo tipo di approccio non è possibile.

Anche per quanto riguarda l’anestesia ci troveremo a utilizzare un’affermazione della Kuan che sul Corriere della Sera ci illumina sull’argomento affermando che “gli esperimenti senza anestesia sono i più invasivi perché il cane è totalmente vigile durante tutta l’operazione e il dolore non viene alleviato in alcun modo” (Trebeschi 2012), affermazione a cui fa seguito una dettagliata lista delle autorizzazioni a utilizzare cani per fini scientifici in Italia, con relativo riassunto della tipologia di esperimento. L’affermazione, che mira a evocare nella mente del lettore atroci sofferenze dovute a chissà che intervento chirurgico, appare subito curiosa a chi è del settore perché la normativa prescrive l’obbligo di anestesia per tutti gli studi in cui “il dolore sia superiore a quello di un’iniezione eseguita seguendo la buona pratica veterinaria” (Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana 2014), ma anche in questo caso è facile controllare quanto queste affermazioni rispondano alla realtà, andando a leggere con accuratezza la descrizione dell’esperimento. Per chi non avesse voglia di imbarcarsi in questo lavoro di controllo, rendiamo noto che la lista proposta non comprende nessun tipo di intervento chirurgico, comprende 6 casi di studi sull’utilizzo cronico di un farmaco (che quindi si è già dimostrato non tossico in fase acuta), due casi di farmaci o vaccini per cani e un caso, addirittura, di un prodotto veterinario contro zecche e zanzare (l’equivalente di un collare antipulci, insomma). Sarebbe interessante chiedere a Kuan quali esperimenti tra quelli elencati siano la fonte delle atroci sofferenze che, nella sua opinione, necessiterebbero di un’anestesia!

Il finale non poteva che essere della Talidomide, il farmaco che negli anni Sessanta causò la nascita di oltre 10.000 bambini malformati e che viene spesso sbandierato dalle solite fonti come esempio del fallimento della sperimentazione animale (Greek, Shanks,  Rice 2011; Kuan 2012; Lio 2013). La storia viene ripetuta da così tanto tempo, spesso citando sempre le stesse fonti o citando articoli come quello di Greek et al. come se fossero affidabili che spesso capita che anche persone competenti (ma non esperte in campo biomedico) cadano in errore (Marelli 2015), guarda caso proprio prendendo come riferimento il lavoro di Greek, che fa una serie di affermazioni non provate e con un livello di attendibilità paragonabili a quelle sull’esistenza di Babbo Natale, per esempio quando sostiene che la Grüenthal avrebbe fatto i test su animali gravidi ma che l’archivio storico sarebbe andato distrutto (e quindi non lo può provare). La realtà storica è stata descritta in dettaglio varie volte, anche recentemente (Padovan 2015), ma per quelli che preferiscono un veloce riassunto basti sapere che il farmaco non fu mai testato su animali gravidi prima del ritiro, gli studi tossicologici disponibili non comprendono test di teratogenesi (Keller, Kunz,  Muckter, 1956; Somers, 1960), e che le malformazioni furono dimostrate sull’animale (Somers, 1962) dopo soli tre mesi dalla prima segnalazione su Lancet di una possibile correlazione tra malformazioni e assunzione di talidomide (McBride, 1961).

Quindi, a conclusione, possiamo dire che spesso lo stile propagandistico è tale da riuscire a convincere facilmente persone non competenti nel settore e che per questo motivo è fondamentale che chi parla di scienza (ma anche gli scienziati stessi) utilizzino parte del loro tempo per cercare di spiegare al grande pubblico quali sono le reali posizioni della scienza. In maniera da evitare che anche chi è del settore cada preda della disinformazione propagandistica di cui abbiamo parlato, andando a riportare le solite fonti distorte e finendo per alimentare ulteriormente la diffusione di una delle più eclatanti fintoversie di tutti i tempi. Quella sulla sperimentazione animale.

 

Bibliografia

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