Una via meridionalistica alla politica dell’ambiente

1. Quando il Cristo di Levi si è fermato ad Eboli, il Mezzogiorno economico e sociale manifestava al suo interno dualismi completamente diversi da oggi. Era ben evidente anche al suo interno l’esistenza di un Nord e di un Sud e il Sud cominciava dopo Eboli, per cui si poteva ben dire che, data la miserevole condizione di tante plaghe del Mezzogiorno, Cristo si era proprio scordato di andare avanti.
Oggi la situazione è cambiata. La geografia economica e sociale è cambiata. Il Nord di allora è diventato Sud e viceversa. Ma se è cambiata la geografia economica è rimasta “naturalmente” immutata la geografia fisica. Per cui c’è un Mezzogiorno sempre uguale, oggi come allora: dissestato, ballerino, infuocato. Un Mezzogiorno che crolla o può crollare ad ogni scossa di terremoto; che può franare o affogare dopo ogni pioggia più abbondante; che può risentire drammaticamente delle eruzioni dell’Etna, del Vesuvio, dei Campi Flegrei. Ma a questa si è aggiunta un’altra caratteristica trasversale ai vari Mezzogiorno: l’inquinamento delle acque, dell’aria, del suolo.
Il tutto ad ulteriore detrimento della qualità della vita e a dimostrazione della inconsistenza della ricorrente equazione sviluppo economico = cattiva qualità dell’ambiente e di quella opposta ritardo di sviluppo = qualità ambientale meno compromessa.

Facciamo un passo indietro, nel tempo più recente, dalla fine degli anni Ottanta.

Già nel 1988 Giorgio Ruffolo scriveva che “Il Mezzogiorno è caratterizzato da uno sviluppo insufficiente e da una degradazione dell’ambiente giunta a livelli più alti di quelli del Nord”.

L’anno dopo Giuseppe De Rita, a commento dei risultati della ricerca coordinata da Giorgio Marbach sulla distribuzione della ricchezza in 8.092 comuni italiani, pubblicati nel 1989, scriveva che Il Mezzogiorno ha “tanti soldi e poco sviluppo”. Intendendo dire che il Mezzogiorno, che consuma senza produrre, è come “un albero senza radici”. Ma, poiché per consumare bisogna pur disporre di disponibilità economica, è verosimile, secondo De Rita, che questi redditi e il loro aumento siano “il frutto di attività illecite e criminali” e che “utili forse indichiarabili spingono il tenore di vita meridionale oltre il livello del suo reddito ufficiale”.

Ma c’è un altro paradosso che si aggiunge a questo: il Mezzogiorno ha poco sviluppo, ma non poca congestione territoriale (specialmente lungo la fascia costiera campana e intorno ai maggiori centri urbani) e tanto degrado ambientale che non si possono nemmeno considerare il prezzo, sia pure non equo pagato alla crescita economica, ma che sono essenzialmente il frutto di una “naturale” predisposizione al degrado nella quale l’azione umana si é incuneata con effetti dirompenti.
Tanto per continuare in questo momento storico ricordo che questo aspetto fu messo in evidenza anche dall’annuale Rapporto sull’economia del Mezzogiorno presentato dalla Svimez nel 1989 dal quale emergeva che nel Mezzogiorno esistono situazioni di malessere ambientale anche più gravi di quelle esistenti nel resto del Paese.
Questa annotazione faceva ulteriormente giustizia dell’errata convinzione secondo la quale “a causa del minor tasso di industrializzazione e di urbanizzazione, le condizioni dell’ambiente del Mezzogiorno sarebbero relativamente più integre e correrebbero minori rischi di compromissione”. Al contrario “l’apparato industriale meridionale… per la maggior quota di produzioni di prima trasformazione (chimica di base e metallurgia, anzitutto), per la collocazione urbano-costiera di molti grandi impianti, per l’assenza o il cattivo funzionamento di apparati depurativi, dà luogo a conseguenze ambientali più gravi, in termini relativi, di quelle prodotte nel resto del paese”.
Queste osservazioni sono solo parzialmente datate: lo sono, cioè, solo per quanto riguarda la residua consistenza delle produzioni di prima trasformazione (chimica di base e metallurgia, anzitutto) che, particolarmente nell’area napoletana, hanno ridimensionato il loro peso con la chiusura degli stabilimenti dell’Italsider e della raffineria Q8, proponendo altri problemi legati alla dismissione e al recupero di quelle aree e degli impianti.
Le considerazioni della Svimez, restano, comunque, interessanti e valide perché mettono in discussione almeno parte delle scelte di politica industriale compiute nel Mezzogiorno: in termini di comparti produttivi e di insediamenti.
Ma, come non bastasse, vi é da aggiungere che oltre un terzo degli impianti definiti a rischio sono localizzati nel Mezzogiorno; con un’incidenza estremamente più rilevante di quanto i numeri non dicano, se i dati si confrontano con la scarsa incidenza dell’apparato industriale meridionale su quello complessivo del paese.
L’impatto sull’ambiente che ne deriva è estremamente negativo. Ed è per questo, ad esempio, che le foci di molti dei pochi fiumi meridionali presentano “concentrazioni elevate di metalli pesanti di origine presumibilmente industriale”.
Per cercare di riparare a questa situazione non mancano gli impianti di depurazione di acque (poco meno di 500), ma ne risultano funzionanti solo un terzo. Anche lo smaltimento dei rifiuti solidi costituisce un grave problema: non solo per i ritardi nel raggiungimento di elevate percentuali di raccolta e smaltimento differenziati (molti comunque sono anche i piccoli comuni definiti “ricicloni”) e per la scarsità di impianti di smaltimento autorizzati, ma anche per l’assenza di una efficace e condivisa politica di riduzione e smaltimento.
Una risorsa di fondamentale importanza per lo sviluppo sociale non meno che per quello economico, l’acqua, malgrado 40 anni di intervento straordinario, costituisce ancora un problema per la qualità e per la quantità della disponibilità. Gli acquedotti perdono ancora il 40-50% del prodotto trasportato e circa 40 bacini utilizzati anche per il prelievo di acqua potabile, risultano atrofizzati.

Mi pare ce ne sia abbastanza per dire che il Mezzogiorno é stretto tra due emergenze: quella economica e quella ambientale.
Tuttavia proprio questa osservazione offre spiragli per trovare soluzioni comuni ai due problemi.
Se è giusta l’osservazione di partenza (il Mezzogiorno ha tanti soldi e poco sviluppo) e se é vera l’osservazione successiva (il Mezzogiorno ha poco sviluppo e tanto degrado ambientale), da queste due verità ne scaturisce una terza: il degrado si può frenare e riparare solo con notevoli interventi che richiedono investimenti che richiedono gente che lavori e che inducono sviluppo economico e promozione sociale.
Insomma il Mezzogiorno che non ha vissuto a pieno l’era industriale, ne ha vissuto i peggiori aspetti qualitativi e si è affacciato al “post-industriale” senza avere “completato” la precedente era industriale per il miglior sviluppo della quale esistono ancora “spazi” produttivi, ubicazionali ed occupazionali.
Ciò, però comporta che si abbia massima chiarezza di idee su cosa intendere per sviluppo e su quale sviluppo si possa ritenere anche sinonimo di progresso e promozione sociale e sia, nello stesso tempo, compatibile con il mantenimento di una buona qualità ambientale. Il che significa che bisognerebbe avere l’impopolare coraggio di dire che lo sviluppo di attività non compatibili con il mantenimento di una buona qualità ambientale è uno sviluppo che distrugge e non crea ricchezza o, comunque, ne crea in una quantità che va decurtata del danno ambientale e delle spese necessarie per ripararlo.
Non credo che il Mezzogiorno che non ha vissuto il “buono” dell’era industriale possa contare tutto e solo sul “post-industriale”; però so che occorre indicare quali comparti possono essere sviluppati nel rispetto delle compatibilità di cui dicevo. Tra l’altro ricordando anche che nella cosiddetta “industria ecologica” tutti i comparti di risanamento ambientale, trattamento delle acque e dei rifiuti, sviluppo di fonti di energia integrative e alternative, possono trovare ampio spazio nel Mezzogiorno.
Né va trascurato che se è vero che il post-industriale significa soprattutto servizi, questi vanno qualificati nel loro significato sottolineando anche che un servizio di fondamentale importanza da rendere ai cittadini, é quello di una buona qualità ambientale e di un territorio sicuro. Un servizio per fornire il quale lo Stato, le Regioni, i Comuni devono attrezzarsi, cioè fare investimenti, cioè mettere in moto attività produttive e di ricerca, cioè creare sviluppo e posti di lavoro.

2. Sino ad ora ho genericamente parlato di Mezzogiorno.
Ma di quale Mezzogiorno si parla? Questo termine viene usato in modo sempre più pigro e acritico trascurando che esso indica realtà diverse da quelle di sessant’ anni fa e differenti al suo interno. Insomma Mezzogiorno come sinonimo di arretratezza economica e sociale, come dicevo all’inizio, non é più un termine utilizzabile per individuare né la stessa realtà territoriale di 40-30 anni fa, né una realtà omogenea.
Quando alcuni geografi si accapigliavano per stabilire se l’Abruzzo fosse Mezzogiorno e se al Mezzogiorno appartenesse la Sardegna, la questione sembrava di secondaria importanza rispetto al fatto che l’una e l’altra regione appartenevano di fatto ad una comune area della povertà e del ritardo di sviluppo che -in Italia come sul resto della Terra- costituiva sinonimo di Mezzogiorno, o Sud che dir si voglia, in contrapposizione al Nord “progredito” e “sviluppato”. Allora, si risolse di considerare Mezzogiorno l’area di intervento della Cassa per il Mezzogiorno compreso il basso Lazio, l’Abruzzo e la provincia marchigiana di Ascoli Piceno, e di distinguere un Mezzogiorno continentale e uno insulare comprendente Sicilia e Sardegna.
Ma, oggi, Mezzogiorno é ancora quello? Sicuramente no. Molti indicatori di crescita e di sviluppo lo confermano e la geografia dei monti e degli spartiacque può agevolmente recuperare al “centro” non solo la provincia di Ascoli e il basso Lazio, ma anche l’Abruzzo. Di più, non solo l’area si é ristretta, ma all’interno del Mezzogiorno non tutte le situazioni sono egualmente classificabili: parafrasando Orwell si potrebbe dire che tutti i Mezzogiorno sono eguali, ma alcuni sono più Mezzogiorno degli altri.
Il “nucleo storico”; il “nocciolo duro” del ritardo economico si identifica essenzialmente con tre regioni: Campania, Calabria e Sicilia. D’altra parte anche parlare genericamente di arretratezza é poco corretto, a meno che non si intenda parlare essenzialmente di disoccupazione e mancanza di lavoro. In tal caso il “nocciolo” é proprio quello delle tre regioni ricordate e, peraltro, coincide perfettamente con il “nucleo storico” della criminalità organizzata. L’osservazione non é del tutto originale in quanto già prospettata dal Censis in occasione del disegno di una “nuova geografia economica del Mezzogiorno”, ma costituisce un punto fermo nel tentativo di individuare possibilità e vincoli nella realizzazione dell’obiettivo di creare concrete e durature situazioni di crescita dell’occupazione e di sviluppo economico e sociale.
Cerchiamo, dunque di vedere da vicino queste possibilità e questi vincoli.

Le possibilità
Per quanto, da tempo, la questione meridionale attraversi una fase di “stanca” caratterizzata da un approccio sostanzialmente annoiato e “di dovere”, il tema sul drammatico problema dell’occupazione vede cimentarsi imprenditori, uomini politici e istituzioni. Ciascuno con una propria ricetta; tutti accomunati dall’esigenza di fornire strumenti di “ripresa”; generalmente il tutto nella sostanziale scarsità di idee sui settori e sui comparti nei quali l’intervento debba più opportunamente orientarsi.
Un punto di partenza che trova molti d’accordo é quello secondo il quale il Mezzogiorno anche dopo un quarantennio di interventi “straordinari” ha ancora bisogno di infrastrutture e di opere pubbliche. Ed é sostanzialmente vero: non ce n’é la stessa esigenza che si riscontrava all’inizio del dopoguerra, ma ce n’é ancora bisogno.
Il problema é che “infrastrutture” e, ancor più, “opere pubbliche” sono concetti intesi in modo non univoco e, quindi, sono, indicativi di realtà differenti talora contraddittorie e addirittura in contrasto con gli obiettivi di crescita e sviluppo che vorrebbero favorire. Dunque occorre saper dire infrastrutture per che cosa e opere pubbliche per chi e per quali esigenze. In assenza di risposte a questi quesiti, infrastrutture possono essere, allo stesso modo, un acquedotto, l’autostrada Salerno-Reggio Calabria, una “città annonaria”, e il ponte sullo Stretto di Sicilia. E opere pubbliche possono essere un viadotto, lo stesso ponte sullo Stretto, un impianto di depurazione, il rimboschimento collinare, e/o tanto altro.
La storia almeno degli ultimi decenni ci dice che dal dopoguerra ad oggi opera pubblica é stata sempre e dovunque, sinonimo di cementificazione: strade, autostrade, dighe e quant’altro, generalmente incuranti del reale significato di utilità pubblica dell’opera e ancor più incuranti dell’impatto sull’ambiente (anche in termini di consumo del suolo). Il che significa anche che l’analisi dei costi pubblici e dei benefici spesso più privati che pubblici di queste opere dà risultati generalmente sconfortanti.
Tanto da indurre a guardare con attenzione e timore alla realizzazione di altre “opere pubbliche”. Eppure il “pubblico”, la collettività, ha bisogno di opere. Ne ha soprattutto bisogno per restituire vivibilità all’ambiente e sicurezza al territorio; ne ha per integrare l’attuale insoddisfacente dotazione di taluni servizi come quelli, idrici, ad esempio; ne ha per liberarsi nel modo più soft e produttivo della grande quantità di rifiuti prodotti; e avrebbe anche bisogno di essere liberata di tante opere cosiddette pubbliche, che tanto male hanno fatto ad ambiente e territorio quanto bene hanno fatto ad interessi privati, clientelari, mafiosi.
Anche questi che possiamo considerare interventi di “decostruzione” si potrebbero considerare interventi di pubblica utilità e la decementificazione che ne deriverebbe orienterebbe almeno una parte della politica delle opere pubbliche nel senso della riduzione piuttosto che dell’aumento della quantità di cemento.
Ma questo è solo un aspetto, significativo, capace di dare un segnale, come si dice, non certo comunque onnicomprensivo di una nuova e diversamente orientata politica dei lavori pubblici.
La decostruzione, dunque, é un caso limite, emblematico e significativo: provocatorio, ma non risolutivo. Anche quando si abbatte una costruzione abusiva, il discorso non finisce lì; occorre poi ricostruire nel lecito o ripristinare lo stato dei luoghi.
La decostruzione, perciò, é solo l’inizio o é solo un momento. Più importante é il vero e proprio intervento di ricostruzione. Intendendo per ricostruzione non solo e necessariamente l’edificazione di opere, ma soprattutto la messa in atto di azioni che consentano di ricostruire una situazione di vivibilità e di sicurezza di ambiente e territorio.
E questo sarebbe un modo finalmente produttivo di connotare la spesa dell’ambiente che oggi é essenzialmente una spesa di “riparazione”. Una spesa, cioè, volta a finanziare interventi che servono a mettere qualche pezza, a tamponare qualche falla dopo una frana, un’alluvione, un terremoto. Si chiamano “spese difensive” e sono sostanzialmente improduttive, perché, nella logica della “politica del rattoppo” danno un po’ di fiato a qualche sinistrato, fanno lavorare qualche impresa, provocano perfino l’incremento del PIL, ma non rimuovono le cause del dissesto o del degrado, comunque del rischio.
Né il discorso si esaurisce nelle opere di intervento a tutela dal rischio naturale. Le opere di ripristino, tutela e salvaguardia dell’ambiente manomesso sono di non minore impegno e richiedono anch’esse investimenti, imprese che intervengano, gente che lavori.
Una fin troppo trascurata e dimenticata indagine condotta dall’ENI-Isvet all’inizio degli anni Settanta quantificava i costi e i benefici dell’intervento pubblico nel disinquinamento ambientale. Da allora sono passati oltre quarant’anni; la situazione globale é complessivamente peggiorata, ma si sono anche fatti consistenti passi in avanti. Oggi fare calcoli con le cifre prospettate allora non ha senso. Ma é importante conoscere le conclusioni di quello studio perché sono indicative di una tendenza che é rimasta immutata. Ebbene le conclusioni dicevano che “esiste una giustificazione economica all’intervento da parte della collettività”. Ciò perché il costo degli interventi da realizzare in un quindicennio veniva valutato in 9.000 miliardi mentre i benefici derivanti dall’eliminazione dell’inquinamento si facevano ammontare in 12.000 miliardi (in lire 1970).
In aggiunta, poi, ci sono le opere in cui non si deve toccare niente. Le opere, cioè, che non comportano né decostruizoni né costruzioni, ma solo azioni di tutela. Sono quelle rientranti nel grande comparto della protezione della natura, in una concezione moderna e non “giurassica” della stessa, che si realizza non solo e non tanto attraverso l’istituzione di parchi e riserve, oasi e quant’altro consente di tutelare la natura e i suoi rappresentanti animali e vegetali ma innanzitutto dando peso e significato concreto ai tanti parchi già esistenti. Tutto ciò mettendo ad un tempo in moto un interessante processo economico.
Negli ultimi anni la superficie territoriale protetta in Italia ha raggiunto quasi il 12%: una superficie immensa specie se considerata in un Paese fortemente urbanizzato. Ma basta una legge, per proteggere la natura e combattere incendi e abusivismo edilizio che sono le piaghe maggiori dei parchi? Certamente no, se non si riesce a dire alla popolazione più direttamente coinvolta che i parchi non sono solo una serie di divieti, ma oggi sono sempre più occasioni di sviluppo economico pulito.
Ma questo é solo uno degli approcci al problema.
Sottolineare la vitale esigenza di dare ai cittadini un ambiente vivibile ed un territorio sicuro non significa affermare che la politica di sviluppo del Mezzogiorno si può esaurire nella realizzazione di opere pubbliche rientranti nel grande quanto poco esplorato filone degli interventi di politica dell’ambiente. Ma significa sottolineare l’esistenza di un modo diverso e più produttivo economicamente e socialmente di intendere la realizzazione di opere pubbliche; il che costituisce anche un modo di dare messaggi sicuri e “orientamenti” alle imprese. Imprese le quali hanno bisogno anche di essere culturalmente orientate, oltre che informate.
L’impresa, tuttavia, è una realtà molto ampia e variamente diversificata che ha un obiettivo prioritario: produrre e realizzare profitti.
È sul produrre cosa -e, ancor più, sul produrre cosa nel Mezzogiorno- che bisognerebbe ulteriormente intendersi, anche perché la risposta a questo quesito potrebbe servire ad orientare utilmente la realizzazione di almeno parte delle infrastrutture di cui prima dicevo.
Produrre merci (nel senso di “beni” di consumo) é certamente una risposta, ma non più la risposta.
Dire che é solo una risposta significa prendere atto del fenomeno di progressiva dematerializzazione dell’economia che caratterizza i paesi economicamente più sviluppati e, allo stesso tempo, impone l’esigenza di essere particolarmente precisi nella individuazione delle merci da produrre.
Dire che non é la sola risposta significa ricordare che oltre che merci si possono produrre anche servizi e che questi servizi, come prima ricordavo, oggi sono soprattutto quelli per la vita e per la qualità della vita.
Questa constatazione introduce un ulteriore problema: quello dei luoghi in cui si vive e del modo in cui in essi si vive. I dati sono universalmente noti: si vive prevalentemente in città -soprattutto si vive in città nei paesi del primo mondo e, quindi, in Italia e nel Mezzogiorno- e vi si vive sostanzialmente male o in modo disagevole. Ciò é vero soprattutto e dovunque per le grandi città per le quali sono richiesti, previsti e prevedibili interventi di grande portata per il miglioramento della qualità della vita e, quindi, per la migliore dotazione e distribuzione di infrastrutture e servizi: nei trasporti, per la rimozione e smaltimento dei rifiuti, per la istruzione e la cultura, per lo sport e il tempo libero…
Di questo argomento si discusse approfonditamente nella Conferenza delle Nazioni Unite sulle città (Habitat, Istanbul, giugno 1996) durante la quale si mise in luce che le grandi città o i grandi agglomerati urbani non sono solo un condensato di problemi sociali, ambientali, urbanistici, ma anche un insieme di grandi opportunità per gli investimenti in infrastrutture e servizi. Tutti i grandi agglomerati urbani, generalmente cresciuti tumultuosamente e al di fuori di regole e pianificazione dell’uso dello spazio, della fornitura di servizi, e della dotazione di infrastrutture; tutti i grandi agglomerati urbani, dicevo, hanno bisogno di essere “risistemati” con opere di adeguamento del rapporto domanda/offerta di servizi.

I vincoli
La quasi totalità delle realizzazioni appena ricordate é riconducibile al grande filone delle opere pubbliche, di quelle opere che oltre ad essere (come si auspicava) di pubblica utilità sono realizzate essenzialmente con intervento pubblico. Ma lo Stato non interviene in prima persona o per lo meno oggi lo fa molto meno di ieri. Più opportunamente esso offre l’opportunità e la convenienza di intervenire attraverso l’attività legislativa tramite la quale crea obblighi e, appunto, convenienze. Per fare qualche esempio, la regolamentazione per legge della produzione e smaltimento dei rifiuti crea la convenienza ad intervenire nel settore della raccolta differenziata e del riciclo e trattamento dei rifiuti; la dichiarazione di alcune aree del paese (la prima in ordine cronologico è stata la provincia di Napoli) come “aree ad elevato rischio di crisi ambientale” impone la “rimozione” delle cause di rischio e offre interessanti prospettive alle industrie cosiddette “verdi” che operano nel settore della bonifica e del disinquinamento; eventuali leggi che imponessero l’adeguamento antisismico delle aree soprattutto urbane esposte al rischio di terremoti e si proponessero la sistemazione del dissestato Appennino creerebbero amplissime necessità di intervento con particolare riguardo alle industrie edili e all’indotto del settore… e via discorrendo ed enumerando.
Se queste sono le opportunità, chi mette in azione il processo? La risposta più semplice ed evidente è: lo Stato. Ma una volta che lo Stato, le Regioni, le Province, i Comuni, ciascuno per quanto di sua competenza e spesso anche in “partnership” con la Comunità Europea, hanno creato il contesto per l’intervento, é l’impresa privata che deve realizzare gli interventi perché ad essa lo Stato li appalta o affida.
E qui, per quanto riguarda il Mezzogiorno, si apre il dolente capitolo dei vincoli; di almeno due vincoli: credito e criminalità.
Nella capacità di divincolarsi da questi nodi sta un altro nocciolo della questione.

Infine c’è il vincolo del superamento dell’ignoranza ancora molto visibile nell’approccio di molti ai problemi del Mezzogiorno.
A questo proposito ricordo uno slogan pre-elettorale che, anni fa, individuava la soluzione dei problemi del Mezzogiorno in 3 T: testa, terra, turismo.
Tralasciando le considerazioni sulla “testa”, ricordo che già in precedenti occasioni c’erano state indicazioni in questo senso. Ad esempio, il presidente del TCI Giancarlo Lunati in un intervento sul “Corriere della sera” del 31 luglio 2001 affermava che solo il turismo creerà lavoro nel Mezzogiorno e Francesco Adornato, presidente dell’Istituto nazionale di economia agraria, in un intervento su “il manifesto” del 6 settembre successivo scriveva “La terra. Vera risorsa del Sud.”.
A me sembra che tutto ciò rappresenti un passo indietro di oltre cinquant’anni nelle politiche meridionalistiche. E dà ragione a chi si fa portavoce dell’esigenza di ridare al Sud l’antica dignità di “soggetto del pensiero”.
Quando -come per troppi anni è avvenuto- il Mezzogiorno è stato pensato da altri, ciò ha comportato o che questo “altri” lo pensassero a misura del proprio pensiero e/o interesse, oppure che lo pensassero ignorandone le caratteristiche geografiche, storiche, culturali.
È anche per questo che considero preoccupanti le affermazioni che prima citavo: perché esse sono l’ulteriore dimostrazione della sostanziale ignoranza con la quale molti si sono avvicinati e continuano a farlo ai problemi del Mezzogiorno. Nel caso specifico: ignoranza del contesto territoriale e ambientale nel quale agricoltura e turismo dovrebbero trainare lo sviluppo economico; ignoranza o sottovalutazione del contesto politico internazionale in cui ciò dovrebbe avvenire.
Non si può trascurare che il Mezzogiorno pesa poco o nulla nella politica economica italiana ed estera: ancor meno pesano le politiche agricole meridionali non solo nei confronti di quella francese e tedesca, ma anche di quella padana.
Con ciò intendo dire che agricoltura e turismo sono due parti di un tutto e che non è possibile proporre questi settori economici quali uniche possibilità di sviluppo per il Mezzogiorno ignorando che il Mezzogiorno non è solo Capri, Ischia e Positano, le Eolie e Pantelleria, il Gargano e Cefalù, ma è anche e soprattutto montagna e collina (e che montagna e che collina). Ignorando ancora che se non si vorrà ulteriormente inasprire il rapporto tra aree forti e aree deboli anche all’interno del Mezzogiorno, va anche fatto un “discorso sulla montagna” e sulle concrete possibilità di integrazione di agricoltura, turismo, sistema di parchi e risanamento ambientale nelle ampie e abbandonate zone interne.
Comunque, è su un contesto così ricostruito che sarà poi più possibile e con maggiore cognizione di causa, parlare di agricoltura e turismo perché è in questo modo che il territorio potrà diventare “competitivo”.