Parigi “o cara”

“Parigi, o cara, noi lasceremo, la vita uniti trascorreremo.
De’ corsi affanni compenso avrai, la tua salute rifiorirà…”
Così canta Alfredo alla traviata, ma ormai quasi moribonda, Violetta. E così potrebbero avere cantato i rappresentanti dei 195 Stati riuniti a Parigi dal 30 novembre al 13 dicembre nel tentativo di risolvere i gravi problemi del pianeta: basta mettere Terra al posto di Violetta e tutto torna. Perché i versi di Francesco Maria Piave, il librettista della Traviata, sono veramente profetici: i partecipanti alla Conferenza di Parigi lasciano la città felici di avere gettato le premesse per un futuro migliore dove si potrà vivere uniti perché la Terra, in tal modo compensata per i maltrattamenti ricevuti, potrà finalmente rifiorire godendo di ottima salute.
Ma cerchiamo di capire come sono andate le cose.

Tanto per cominciare
In una divertente vignetta di Bucchi su “la Repubblica” del 12 novembre 2015 uno dei due personaggi raffigurati dice all’altro “ho una fantastica casa sul mare” e l’altro risponde: “io ho trovato un’occasione dove il mare arriverà fra una trentina d’anni”. Questo dialogo mi ricorda Putin che prima di decidersi a firmare il Protocollo di Kyoto disse che, tutto sommato, l’aumento della temperatura terrestre non sarebbe stato un gran guaio: in Russia avrebbe consentito di spendere meno soldi per i cappotti. E così si è andati pericolosamente avanti per anni. Tutti pronti, però, ad aspettare miracolose soluzioni dall’ennesima Conferenza sul clima delle Nazioni Unite svoltasi a Parigi dal 30 novembre al 12 dicembre.
Parigi. Qualcuno ricorderà, a proposito di questo incontro, che Parigi, appunto, “val bene una messa”. La frase è attribuita al neo convertito al cattolicesimo Enrico IV (1593) che ritenne utile la sua abiura al calvinismo per conquistare il regno di Francia.
Non mi risulta che il cerimoniale del negoziato parigino prevedesse messe data, anche, la grande differenziazione etnica e religiosa degli Stati presenti. Ma certamente i “grandi” della Terra, amministratori delle sorti future del pianeta,avrebbero dovuto intendere che il blocco dell’incremento delle temperature terrestri oggi e per il futuro valeva bene l’impegno a realizzare interventi concreti per convertirli a modificare le attuali caratteristiche della crescita economica.
Parigi, dunque, valeva bene impegni di questo tipo. Per esempio quello ipotizzato nelle parole di Barack Obama il 2 agosto 2015 alla presentazione del Clean Power Plan (Piano per l’energia pulita) col quale illustrava la gravità incombente dei fenomeni climatici estremi che già flagellano molte regioni del mondo e di più ne potranno coinvolgere se non si interverrà per limitare le conseguenze del riscaldamento globale. In quella occasione il presidente degli Stai Uniti disse che “Siamo la prima generazione a sentire gli effetti del cambiamento climatico e l’ultima che può fare qualcosa” e che “Se non agiamo, potremmo non essere in grado di invertire la rotta. […] Il tempo non è dalla nostra parte”.
Parole per le quali si deve non poco al mai troppo “laudato” Francesco e che sono state uno dei punti di partenza della conferenza di Parigi. Non tanto per avere spiegato all’universo mondo una cosa che sappiamo quasi tutti, ma perché l’ha fatto il presidente di uno dei Paesi maggiori responsabili della situazione.
Naturalmente il vertice di Parigi è stato preparato in più riprese che hanno alimentato molte aspettative. Per definire i dettagli finali si sono incontrati a Bonn tra il 19 e il 23 ottobre i mediatori di tutti i Paesi. Ma già in questo incontro si intuirono le difficoltà a firmare un accordo che consentisse di arrivare a sua volta alla firma di un nuovo trattato sulle emissioni di gas serra con l’entrata in vigore prevista per il 2020.
Tuttavia le parole di Obama hanno alimentato l’aspettativa di un accordo, sottoscritto da tutti i paesi maggiormente responsabili,più serio di quanti se ne sono tentati da Rio 1992 ad Oggi. E ciò anche se il Piano presentato dal Presidente degli Stati Uniti,proponendo di ridurre le emissioni di CO2 del 32% entro il 2030, rispetto ai valori del 2005, era da ritenere molto ambizioso. Soprattutto se si considera che era stato proposto dal Paese che ha sempre rifiutato di sottoscrivere gli accordi internazionali per la riduzione delle emissioni, a cominciare dal Protocollo di Kyoto. E che, tra l’altro, è diventato un forte produttore di idrocarburi grazie allo shale oil e allo shale gas estratti con il famigerato fracking, la tecnica di fratturazione idraulica che sfrutta la pressione dell’acqua iniettata nel sottosuolo per farne fuoriuscire gas e petrolio. Il fracking ricorda Mario Cattaneo (Mario Cattaneo, Editoriale “Le Scienze” n.565 1 settembre 2015) “è sotto accusa per diverse ragioni. Come raccontano Paolo Gasparini e Simona Esposito e come denunciano alcune recenti ricerche, la fratturazione idraulica può indurre una moderata ma intensa attività sismica nelle zone di estrazione. E poi c’è il potenziale inquinamento delle falde acquifere con metalli pesanti e sostanze radioattive usate come traccianti.” Insomma quello che sembrava essere l’affare del secolo, sembra rivelarsi un pericoloso boomerang. Tanto che anche per evitare l’allargamento delle aree interessabili al fenomeno, la Commissione Europea ha avviato un progetto coordinato da Paolo Gasparini denominato SHEER (SHale gas Exploitation and Exploration induced Risks) per studiare l’impatto ambientale del fracking.
Riflettendo su tutto ciò era abbastanza realistico almeno sperare che gli Stati Uniti si mettessero alla guida della comunità internazionale nella battaglia per ridurre le emissioni di gas serra “trascinando” anche la Cina già firmataria di accordi bilaterali stipulati con gli USA alla fine del 2014 per mitigare i rischi del mutamento climatico.

Che cosa è successo a Parigi?
Una rassegna della stampa nazionale e internazionale del 13 dicembre, giorno successivo alla chiusura dell’incontro parigino, vede titoli e contenuti degli articoli quasi unanimemente concordi nel considerare storico il raggiungimento dell’accordo con cui i lavori si sono faticosamente conclusi.
Accordo sul clima risultato storico “corriere della sera”; Clima. Storico accordo a Parigi “la repubblica”; Clima, storico accordo per abbassare la febbre della Terra “l’unità”; ma anche Clima, “intesa storica” (a parole) “il giornale”. Sono solo alcuni dei titoli degli articoli che in grande quantità hanno positivamente giudicato e accolto il risultato della Conferenza di Parigi. In grande quantità, ma non tutti. Vi sono, infatti, almeno in Italia, i “negazionisti” storici che hanno sempre negato le responsabilità umane nell’incremento delle temperature terrestri e nei conseguenti mutamenti climatici e che sono rappresentati da “il foglio”, “libero”, “il giornale” in modo più chiaro e direi coerente con le posizioni politiche e con gli interessi economici che rappresentano. Ne cito solo alcuni: Sorpresa, lo smog è in calo. Zittiti gli allarmisti del clima “libero” 8 dicembre; “Puro teatro”. Il meteorologo francese Verdier smonta il summit sul clima “il foglio” 5 dicembre; La più grande menzogna dei nostri tempi ansiosi “il giornale” 1 dicembre. Tutto ciò mentre la quasi totalità degli scienziati che da decenni si occupano del problema afferma che la responsabilità delle azioni umane è realisticamente riconoscibile almeno al 95%. Ma se avessero ragione quanti si riconoscono nell’altro 5% e le responsabilità fossero solo o prevalentemente della natura, – natura che è comunque e fortunatamente responsabile di un “naturale” effetto serra senza il quale le temperature terrestri sarebbero inferiori di una trentina di gradi-; se questi avessero ragione, resta comunque il fatto che immettendo sostanze inquinanti in atmosfera se ne danneggia la respirabilità per gli esseri umani causando la diffusione di morbilità e mortalità. Basterebbe questo per indurre i gestori del bene comune Terra ad accordarsi per ridurre sino a zero quelle emissioni puntando sull’uso di energie pulite e rinnovabili.
Ma quali sono stati i risultati ricavabili dalla firma dei 195 Paesi partecipanti all’accordo risultato dalla Conferenza sul clima? In poche parole si possono riassumere dicendo che l’intesa prevede il contenimento dell’incremento della temperatura della Terra in modo che non superi 1,5 gradi centigradi e che questo risultato venga raggiunto con un volontario taglio delle emissioni. Già questo sembra un risultato imprevisto e, perfino, imprevedibile se si pensa che si era arrivati a Parigi con l’obiettivo di considerare 2 i gradi centigradi da non superare.
E, infatti, come ha notato Antonio Cianciullo il 13 dicembre, “Il testo contiene un obiettivo molto ambizioso, inimmaginabile fino a pochi anni fa: la crescita della temperatura deve essere bloccata ‘ben al di sotto dei 2 gradi’ rispetto all’era preindustriale e si deve fare tutto lo sforzo possibile per non superare 1,5 gradi. Inoltre i paesi industrializzati si sono impegnati ad alimentare un fondo annuo da 100 miliardi di dollari (a partire dal 2021, con un meccanismo di crescita programmata) per il trasferimento delle tecnologie pulite nei paesi non in grado di fare da soli il salto verso la green economy”.
È evidente che risultati di questa portata non si raggiungono da oggi a domani. Perciò il loro massimo raggiungimento viene spalmato nei prossimi 85 anni. Dunque? Dunque si può facilmente osservare che “chi vivrà, vedrà”. Cioè, realisticamente, nessuno dei firmatari dell’accordo.
È anche per questo che il rispetto degli impegni assunti verrà verificato con cadenze quinquennali a partire dal 2018. Mentre il 2023 sarà l’anno nel quale si procederà alla prima vera e propria revisione per il taglio sostanzioso della produzione di CO2.
Come? Con il progressivo passaggio dall’uso ancora massiccio di combustibili fossili (carbone, petrolio, metano) a quello sempre più sostitutivo di fonti rinnovabili e pulite per le quali bisognerà pure studiare e realizzare un uso sempre meno impattante sull’ambiente.
L’Italia? L’Italia è abbastanza ben impegnata pur con le perduranti contraddizioni tra impegno alla riduzione dei fossili e trivellazioni alla ricerca di petrolio. A questo riguardo mi ha lasciato perplesso una dichiarazione del Ministro dell’ambiente Galletti (2 dicembre) secondo il quale “le piattaforme petrolifere sono sicure e lontanissime dalle coste”. Mentre mi pare che l’obiettivo non debba essere “solo” quello della sicurezza delle piattaforme, ma, in coerenza con l’obiettivo della riduzione dei combustibili fossili, debba essere di non cercarne più petrolio. Fortunatamente il 14 dicembre leggo (Cristiana Salvagni, “la repubblica”) che il governo fa marcia indietro sulle trivellazioni in mare e lo fa presentando un emendamento alla legge di stabilità che ripristina nell’Adriatico il divieto di perforazioni petrolifere entro le 12 miglia dalla costa.

Ma non è tutto rose e fiori
Pur in presenza di questa nuova pagina di storia, tuttavia non è tutto “semplice” e non dovunque.
Perché la lotta al surriscaldamento globale è anche strettamente collegabile a quella contro la povertà. È quanto si ricava dalla lettura di un rapporto della Banca mondiale degli investimenti secondo il quale uno degli effetti negativi dei mutamenti climatici potrebbe coinvolgere, portandoli alla povertà estrema, oltre cento milioni di persone entro il 2030. Il documento reso noto in vista della Conferenza di Parigi sottolinea come sconfiggere la povertà diventerebbe ancora più complicato a causa degli sconvolgimenti climatici. Tanto che anche se si riuscisse a contenere l’aumento delle temperature entro i due gradi centigradi, le economie di molti Paesi africani e asiatici riceverebbero enormi danni. Se, poi, gli aumenti dovessero essere più elevati, gli effetti sull’innalzamento del livello dei mari, l’incremento delle inondazioni e delle siccità prolungate concentrerebbero il 75-80% dei danni proprio nei Paesi più poveri che in tal modo pagherebbero gli effetti di una crisi climatica della quale non sono stati causa e che non sono preparati ad affrontare.
E tanto meno sono disposti a prevenire per quanto (poco) di loro responsabilità.
Ricordo quanto questo momento sia assimilabile al tentativo di coinvolgere tutti, responsabili e vittime, quando dopo l’allarme lanciato dal primo rapporto del MIT al Club di Roma (I limiti dello sviluppo) sul rischio di “ecocatastrofe” che si correva sulla Terra perpetuando una crescita basata su inquinamento di acqua aria e suolo e sull’esaurimento delle risorse utilizzate; quando, dopo questo allarme si tentò di coinvolgere tutti, inquinatori e inquinati, sviluppati e sottosviluppati, detentori e consumatori (depredatori) di risorse, nel porre un freno a consumi e crescita per andare verso una società stazionaria (l’auspicata crescita zero) che consentisse al pianeta se non di migliorare, di non peggiorare. Quando tutto questo accadde i paesi di quello che allora si chiamava Terzo mondo, guidati all’epoca da Indira Gandhi, proprio per bocca del presidente indiano fecero sapere che non intendevano affatto partecipare a quella sorta di restringimento della cinghia là dove il problema principale dei loro popoli era quello di mettere quotidianamente un piatto in tavola con qualcosa dentro. “Come possiamo – disse la Gandhi- parlare a quelli che vivono nei villaggi e nei tuguri della necessità di conservare intatti l’aria, gli oceani e i fiumi mentre la loro propria vita è contaminata all’origine?”. Oggi la domanda sarebbe “come possiamo convertire il nostro uso di combustibili per produrre energia al fine di contribuire al soccorso al capezzale di un pianeta che altri hanno malmenato?”.
Oggi, come allora, si ripropone il problema. Aggravato dal fatto che se i Paesi responsabili non si decidono subito al “sacrificio” di modificare stile di vita, consumi, e produzione delle merci in modo meno o, meglio, diversamente energivoro, i maggiormente danneggiati saranno proprio quelli già oggi più poveri. I quali, tra l’altro, aumenterebbero di numero proprio in un momento. che dura da anni ormai, nel quale non pochi grandi Stati, soprattutto asiatici e sudamericani, si avviavano ad uscire dalla condizione di sottosviluppati per passare a quella di Paesi “in via di sviluppo”.
Anche per questo l’accordo di Parigi prevede – ma a partire dal 2021- un fondo di 100 miliardi di dollari annui per il trasferimento delle tecnologie pulite in quei Paesi.
E, tanto per chiudere come avevo cominciato, cito altre due vignette che ben sintetizzano una quanto appena detto, l’altro la conclusione del vertice di Parigi.
La prima, di Patrik Chappatte (“The International New York Times” ), su uno sfondo di ciminiere vomitanti fumo nero, vede a confronto un ricco opulento e vagamente obeso che dice all’altro mingherlino: “Per salvare il pianeta devi abbandonare il mio stile di vita”; l’altra di Giannelli dal “Corriere della sera” (14 dicembre 2015) sotto uno stendardo “vertice sul clima” raffigura sette potenti personaggi della Terra che si sta liquefacendo sotto i loro piedi.