L’ isola sconosciuta

L’articolo seguente introduce al Convegno “Natura e cultura nelle piccole isole“, che si terrà a Ischia il 18 e 19 marzo (qui il programma). Il Convegno è organizzato dal Centro Studi della Città della Scienza, in collaborazione con il Circolo Georges Sadoul, l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici e il Liceo Statale di Ischia

 

«Un uomo andò a bussare alla porta del re e gli disse, Datemi una barca. La casa del re aveva molte porte, ma quella era la porta delle petizioni. Siccome il re passava tutto il tempo seduto davanti alla porta degli ossequi (degli ossequi che rivolgevano a lui, beninteso) ogni volta che sentiva qualcuno chiamare da quella delle petizioni si fingeva distratto, e solo quando il risuonare continuo del battente di bronzo diventava, più che palese, chiassoso, togliendo la pace al vicinato… solo allora dava ordine al primo segretario di andare a informarsi su cosa mai volesse il postulante, che non c’era modo di far tacere».

Questo è l’incipit di un volumetto di Jose Saramago (Il racconto dell’isola sconosciuta) che è una godibile lettura.

Dopo questo inizio la storia, naturalmente, continua.

Di segretario in segretario, di assistente in assistente l’ordine del re arriva sino alla donna delle pulizie «la quale, non avendo nessuno a cui comandare, socchiudeva la porta delle petizioni e domandava dalla fessura. Che cosa volete?».

Nel nostro caso il postulante rispose «voglio parlare col re». La cosa era abbastanza difficile data l’anomalia della richiesta, ma la petulanza del postulante fu tale che, alla fine, «in capo a tre giorni», il re andò a chiedere che cosa “quell’intruso” volesse. In particolare, gli chiese: «Che cosa volete, Perché non avete detto subito che cosa volevate, Pensate forse che io non abbia altro da fare». La risposta fu una sola: «Datemi una barca». Sgomento il re gli chiese perché mai volesse una barca. «Per andare alla ricerca dell’isola sconosciuta» fu la risposta. «Che isola sconosciuta?» incalzò il re. «L’isola sconosciuta» rispose il postulante, dando luogo a questo inevitabile dialogo. «Sciocchezze, isole sconosciute non ce ne sono più. Chi ve l’ha detto, re, che isole sconosciute non ce ne sono più, Sono tutte sulle carte, Sulle carte geografiche ci sono soltanto le isole conosciute. E qual è quest’isola sconosciuta di cui volete andare in cerca, Se ve lo potessi dire allora non sarebbe sconosciuta, Da chi ne avete sentito parlare, Da nessuno, In tal caso perché vi ostinate ad affermare che esiste, Semplicemente perché è impossibile che non esista un’isola sconosciuta. Perché tutte le isole, anche quelle conosciute, sono sconosciute finché non vi si sbarca».

Per farla breve, il re gliela fa dare la barca e questa storia – giustamente definita «un’incantevole favola d’amore magistralmente sospesa tra realtà e sogno- continua e finisce».

 

L’isola che non c’è

Dunque, è qui che volevo arrivare, tutte le isole, anche quelle conosciute, sono sconosciute finché non vi si sbarca.

Perciò mi sono chiesto: «di quale isola può parlare uno che ne conosce alcune (le campane, le siciliane – non tutte -, un paio di toscane) ma di moltissime conosce solo l’esistenza?

Si possono mai conoscere tutte le isole, le piccole isole? Mica solo le isole, d’altra parte. Se piccolo è bello vi è anche tanto piccolo su terraferma che andrebbe conosciuto. Ma le isole sono un’altra cosa, sono più attrattive e attraenti; non foss’altro perché c’è di mezzo il mare. Tuttavia non solo le isole, dicevo.

In Italia che è un Paese di “piccoli e belli” vi sono anche moltissimi piccoli comuni intesi come tali quelli che non hanno più di 5.000 abitanti: sono 5.579 su un totale di 8003 comuni cioè il 69,71% con una popolazione di 10.070.157 abitanti cioè il 16,56% del totale.

Fra questi sono vi sono anche le isole di varie dimensioni ma tutte definibili piccole se confrontate con le due grandi Sicilia e Sardegna estese rispettivamente 25.426,2 kmq e 23.812,6 (con al loro interno 385 comuni in Sicilia e 377  in Sardegna)

Quelle che correttamente si possono definire isole marine sono 56 e di queste 6 sono estese più  di 40 kmq; 6 sono estese più di 20 kmq; 10 più di 10 kmq; 11 più di 5; 23 più di un Kmq. Un terzo di queste hanno più di un comune al loro interno:

8 comuni sull’Isola d’Elba; 6 sull’Isola d’Ischia; 3 sull’Isola di Salina; 2 sull’Isola di Capri.

Questi sono i numeri. E, dati questi numeri, che cosa si può dire delle piccole isole con riguardo alla loro natura e alla cultura che le caratterizza?

Si può parlare di un’isola sconosciuta e di come si immagina che in essa,  considerata come esempio/prototipo delle isole in generale, siano la natura e la cultura e, magari, come si pensa che dovrebbero essere salvaguardate e protette.

Si tratta, comunque, di un’isola sconosciuta, ma non di isola che non c’è.

Si fa per dire “che non c’è” perché

«Seconda stella a destra: / questo è il cammino / e poi dritto / fino al  mattino. / Non ti puoi sbagliare perché / quella è l’isola che non c’è»

ci suggeriscono i versi della nota canzone di Edoardo Bennato

 

E dunque, c’è e se ci si arriva, seguendo il cammino indicato da Edoardo Bennato, diventa anche conosciuta. D’altra parte quella strada l’aveva già indicata Peter Pan a Wendy che gli chiedeva dove abitasse: «seconda a destra, poi dritto fino al mattino».

In realtà l’isola che non c’è e il riferimento all’isola che non c’è è spesso una metafora dell’utopia.

E così deve essere lo dice, ancora, anche Bennato:

«E a pensarci, che pazzia,
è una favola, è solo fantasia
e chi è saggio, chi è maturo lo sa
non può esistere nella realtà!»

Tuttavia se uno pensa ad una terra

«Dove non ci son santi né eroi
e se non ci son ladri,
e se non c’è mai la guerra,
quella, forse è proprio l’isola che non c’è
che non c’è».

Vale dunque la pena cercarla

«E ti prendono in giro
se continui a cercarla,
ma non darti per vinto perché
chi ci ha già rinunciato
e ti ride alle spalle
forse è ancora più pazzo di te!»

Fatta questa divagazione musical filosofica, non posso dimenticare che l’obiettivo è trattare di ambiente e cultura nelle piccole isole e questa non è utopia.

Dicevo che si può parlare di un’isola sconosciuta e di come si immagina che in essa,  considerata come esempio/prototipo delle isole in generale, siano la natura e la cultura e, magari, come si pensa che dovrebbero essere salvaguardate e protette.

Partiamo dalla osservazione che i confini isolani caratterizzati da acqua da tutti i lati fanno pensare ad un naturale (isola)mento e quindi anche ad una altrettanto naturale incontaminazione della natura e della cultura intesa in tutta la sua varietà di aspetti.

Fino a quando l’attrazione turistica non si mescola con la contaminazione. Cioè  fino a quando non è stato possibile e poi sempre più praticato lo sbarco nelle isole, la loro scoperta, e la loro, diciamo, colonizzazione.

 

Tre esempi

Tre esempi, tra i tanti possibili mi sembrano rappresentativi e significativi.

Uno è l’Australia che, certo non si può definire un’isola e tanto meno piccola, ma che mi viene in mente a proposito di contaminazione da scoperta e colonizzazione. Cinicamente non mi riferisco nemmeno all’impatto sugli aborigeni e alla “assimiliazione biologica”, ma penso ai conigli che introdotti in Australia per la prima volta nel XVIII secolo, ma poi diffusisi in seguito al rilascio in libertà di alcuni esemplari di coniglio selvatico nel 1856 ad opera dell’allevatore Thomas Austin  arrivarono a superare i 5milioni di esemplari e per tentare di sterminarli si provò nel 1950 con la diffusione di una zanzare portatrice del potente virus Mixomatosi. Il tentativo riuscì all’80% e i sopravvissuti ripresero rapidamente a moltiplicarsi.

Gli altri due esempi riguardano, invece, piccole isole: l’isola di Pasqua (Rapa Nui) e Nauru.

Secondo recenti studi 1.000-1.200 anni fa Rapa Nui, nell’oceano Pacifico, era totalmente coperta di palme con una popolazione numericamente modesta. L’esigenza di legname diede origine ad un diboscamento che raggiunse il massimo livello nel 1400 quando la popolazione salì a 20.000 abitanti. Il legname cominciò a scarseggiare, l’isola a isterilirsi, la popolazione a diminuire. Il perché della perdita di alberi e della quasi totale sparizione della fauna endemica sembra sia stata provocata dai ratti (Rattus exulans) che raggiunsero l’isola al seguito dei primi colonizzatori. Anche qui, come in Australia con i conigli, l’assenza di predatori naturali permise a questi piccoli mammiferi di moltiplicarsi a dismisura e, considerato che nella loro dieta alimentare entrarono immediatamente anche i semi di palma, si ritiene che abbiano potuto contribuire sensibilmente all’estinzione degli alberi dell’isola.

Con la scoperta dell’Isola di Pasqua da parte degli europei (Il primo a sbarcare sull’isola fu l’olandese Jakob Roggeveen, la domenica di Pasqua 1722, motivo per il quale l’isola fu battezzata Isola di Pasqua) le cose, naturalmente, peggiorarono anche perché Spagnoli, Inglesi e Francesi avevano importato sull’isola varie malattie quali la sifilide e l’influenza, mietendo numerose vittime tra la popolazione indigena. Fu quindi il momento di una serie di razzie da parte di mercanti di schiavi che tra il 1859 e il 1861 deportarono parte della popolazione sull’isola di Chinches di fronte alle coste del Perù. Le deportazioni, le malattie e le faide interne provocarono la continua riduzione della popolazione che nel 1877 contava appena 111 abitanti. Oggi sono 3.791 (2002).

Il terzo esempio che induce ancora ad altro tipo di riflessioni è Nauru isola dell’Oceania della Micronesia, indipendente dal 1968, con una superficie di 21,4 km² e 10.000 abitanti che è considerata la repubblica indipendente più piccola del mondo, sia per abitanti che per superficie. Gli europei scoprirono l’isola nel 1798 e la occuparono nel corso del XIX secolo. Fino ad allora i primi abitanti di Nauru erano stati Polinesiani e Melanesiani, organizzati in dodici tribù con a capo un sovrano. Nel 1899 fu scoperto che l’isola possedeva ricchi giacimenti di fosfati e  (1920) Regno Unito, Australia e Nuova Zelanda si spartirono i diritti di sfruttamento delle miniere. Nel 1942 l’Impero giapponese occupò l’isola, circa 1.200 abitanti vennero deportati come schiavi nell’isola di Chuuk (nella Micronesia) e di essi solo circa 800 superstiti vennero rimpatriati alla fine della guerra.

Nel 1970 la Gran Bretagna acquistò i diritti sulle miniere di fosfato e con il pagamento così ricavato e grazie all’esportazione dei fosfati, i Nauriani divennero i titolari del più elevato reddito pro capite della Terra (e presentavano il più alto tasso di obesità, il 78% per le donne e l’80% per gli uomini).  Ma dovevano la ricchezza al fatto che stavano vendendo, letteralmente, la propria isola, pezzo per pezzo. I Nauriani possiedono più automobili di qualsiasi altro abitante della Terra, ma non hanno strade su cui farle correre; possiedono più merci e frigoriferi di chiunque altro, ma devono importare gli alimenti da conservare e perfino l’acqua da bere, oltre alla benzina e alla mano d’opera per l’estrazione dei fosfati.

Questo è il dramma di Nauru.

La ricchezza mineraria dell’isola si è rivelata col tempo, la sua croce e la sua delizia. Durante il secolo scorso, il governo di Nauru ha spinto all’estremo l’attività estrattiva, trasformando il territorio in una vera e propria miniera a cielo aperto, riducendo al minimo la copertura boschiva, al fine di ricavare il massimo profitto dalla vendita del prezioso fosfato. Anche per questo sull’isola è impraticabile qualsiasi forma di agricoltura e di turismo. Su Nauru non si può più coltivare ne costruire, la flora è ridotta ai minimi termini, e l’unica fauna sopravvissuta è composta da cani e gatti.  Ma, oltre alla devastazione causata dallo sfruttamento minerario, Nauru è minacciata anche dal pericolo  dell’innalzamento del livello marino. Tanto che l’ONU ha proposto di trasferire tutti gli abitanti altrove. Insomma lo sfruttamento e lo scempio naturalistico sono stati talmente incontrollati da aver reso sterile e inospitale un’isola che un tempo era florida ed accogliente.

Secondo Giorgio Nebbia che è stato uno dei primi a far conoscere il problema,  Nauru è anche da vedere come metafora del pianeta perché «I Nauriani possono — forse — trasferire la loro ricchezza e le loro macchine in un altro posto», ma noi terrestri non possiamo mettere nessuna inserzione del tono: “Pianeta cercasi”.

 

Venendo all’Italia

Ma veniamo in Italia dove le cose vanno –quasi- diversamente da questi esempi. E non ce lo dicono solo i depliant turistici la cui credibilità è sempre da prendere con le molle, ma la realtà che ci riferisce di isole poco note se non sconosciute e sufficientemente incontaminate

I riferimenti più ricorrenti riferendo di «alcune piccole isole che sono dei veri e propri eden» sono parecchi e li propongo così come li ho trovati “navigando” (è il caso di dire) in internet.

La  Gorgona (Livorno), nel Mar Ligure. Dove «in un mare pulitissimo e scogliere disabitate si incontrano suggestive insenature e baie come la Cala Scirocco dove si apre la Grotta del Bove marino, un tempo rifugio di foche monache. Verso ponente la costa cade a picco nel mare, mentre a levante degrada formando tre valli che terminano con piccole cale: Cala Maestra, Cala Marcona, Cala Scirocco». Questo elenco di meraviglie incontaminate viene messo alla prova dal 9 marzo quando è stato firmato un protocollo d’intesa per la fruizione a scopo turistico e naturalistico di Gorgona ultima “isola carcere” in Italia, tra il Comune di Livorno, l’Ente Parco nazionale Arcipelago toscano e il Prap Toscana-Direzione Carcere di Livorno. Un protocollo con il quale le parti “si impegnano ad adottare misure organizzative atte a coordinare la fruizione turistico naturalistica dell’isola carcere di Gorgona e consentirne l’apertura già dalla prossima stagione primaverile

Segue l’isola di Montecristo dove sono ammessi solo mille visitatori l’anno: «l’isola è disabitata, la natura lussureggiante con specie rare e rocce sciate dal vento. È  una riserva naturale statale integrale e fa parte del Parco Nazionale dell’Arcipelago Toscano. La sua spiaggia più nota è Cala Maestra e tra gli angoli più suggestivi da visitare c’è la Grotta di San Mamiliano detta anche Grotta del Drago».

Ancora Palmarola, «gemella di Ponza, ma meno affollata, è considerata una tra le più belle isole del mondo. Abitata solo nel periodo estivo, diventa luogo di ritiro per i ponzesi che si rifugiano nelle case grotta, tipiche abitazioni scavate nella roccia».

Viene poi Giannutri, che «insieme a Montecristo, Pianosa, Gorgona e Capraia (le altre piccole dell’Arcipelago Toscano),  di fronte l’Argentario,  tiene alla larga il turismo di massa anche ad agosto. Tutta la bellezza dell’isola è racchiusa in 5 chilometri di lunghezza e in appena 500 metri di larghezza! Giannutri è un Parco Marino e i suoi fondali sono meta di escursioni subacquee, non solo per la loro bellezza naturale ma anche perché custodiscono ancora oggi relitti risalenti all’epoca romana. Lungo il litorale dell’isola non si incontrano spiagge di sabbia, ma solo rocce e acque cristalline. Cala Splamatoio e Cala Maestra sono le due spiagge di ciottoli, liberamente accessibili e non soggette al controllo delle autorità che proteggono il parco».

Filicudi è la più selvaggia delle isole Eolie. «Se le due spiagge di Porto e Pecorini sono le più frequentate, quella di Capo Graziano è piena di calette appartate dove rifugiarsi in pace. Il simbolo di Filicudi è la Canna, un faraglione di 74 metri di altezza che emerge dal mare, a testimonianza di un’antica eruzione lavica sottomarina».

Ad Alicudi, invece, «non esistono strade, ma solo mulattiere, dove ancora oggi gli asinelli trasportano valigie e carichi pesanti. Dominata dal Filo dell’Arpa, raggiungibile con 700 gradini immersi tra ulivi, capperi e viti, l’isola è abitata solo sul versante meridionale e conta meno di 100 residenti. Le spiagge sono di ciottoli, e quelle raggiungibili da terra si concentrano tutte intorno alla zona abitata del porto»

L’elenco comprende anche Ventotene e Procida  che, però, non mi sentirei di inserire in questo elenco di isole  “selvagge” e sconosciute.

In quanto ho riportato vi sono, verosimilmente, enfatizzazioni anche filo-turistiche nel modo di disegnare le cose, tuttavia c’è anche non poco di verità.

Aggiungerei anche una non indifferente differenza tra i piccoli comuni di terraferma che sono prevalentemente montani e in grandissima maggioranza concentrati in Piemonte, Lombardia, un po’ in Liguria e Abruzzo e le piccole isole. La differenza è non solo geografica, ma incide profondamente sulla biodiversità: naturale e culturale.

Sulla seconda soprattutto perché spesso i piccoli comuni montani sono anche caratterizzati dal progressivo abbandono che incide profondamente sul mantenimento della biodiversità culturale (saltata una generazione, si può parlare solo di ricordi che, se orali, si vanno anch’essi progressivamente estinguendo) mentre nelle isole è l’eventuale contaminazione non controllata che rischia di non di far perdere ma di modificare (e non sempre in meglio) le due biodiversità.

 

Per chiudere con Ischia

In chiusura, mi sembra non doveroso, ma quasi, fare riferimento ad Ischia.

Gianfranco Alisio (“La vicenda architettonica e ambientale”  in AA. VV., Il mito e l’immagine. Capri, Ischia e Procida nella pittura dal ‘600 ai primi del ‘900, Nuova ERI, Torino 1988) ricorda che la vera “scoperta” di Ischia è, tutto sommato, recente. Infatti «sostanzialmente ignorata dai Romani impressionati dalle eruzioni e dai terremoti nonostante la vicinanza con Baia e Miseno (qui i Romani ambientarono le mitiche lotte tra Giove e i Titani e, fra questi Tifeo raffigurato anche nell’incisione del frontespizio della prima edizione del De rimedis naturali… di Giulio Jasolino, Napoli 1588); quasi ignorata dai viaggiatori del Grand Tour; nota soprattutto per il potere terapeutico delle sue acque… è stata scoperta soltanto nel corso dell’Ottocento divenendo via via meta prima di intellettuali e di élites internazionali e quindi di turisti sempre più numerosi e frettolosi; l’edilizia si intensificherà (come anche a Capri e Procida) in un rapporto ancora equilibrato con l’ambiente circostante sino all’ultimo dopoguerra. In seguito arriverà la ricchezza e (come Capri e Procida) perderà progressivamente la propria identità».

Ma quali erano gli aspetti caratterizzanti questa identità? E sono andati veramente persi?

Certamente non sono andati perduti, né mai potranno esserlo, i caratteri propri dell’identità geologica. Si sono andati invece modificando, talora perdendo, talora imbruttendo, alcuni caratteri dell’identità paesaggistica riconoscibile nella ricca iconografia soprattutto ottocentesca della quale dà una ricca e bella documentazione Brigitte Daprà (Ischia) nel citato volume di AA. VV., Il mito e l’immagine. Capri, Ischia e Procida nella pittura dal ‘600 ai primi del ‘900,

Se quelle caratteristiche fossero “solo” modificate non si potrebbero definire perse perché le modifiche del paesaggio sono il segno della sua evoluzione col passare del tempo. Sappiamo bene però che non sono state solo queste le cause del mutamento perché diversi –la grezza e incolta speculazione edilizia- sono stati i motivi alla base del mutamento stesso. Motivi che talora hanno irrimediabilmente compromesso il ricco patrimonio naturale e la sua biodiversità; talaltra ne hanno ridotto la originaria estensione.

Il richiamo dell’isola è stato colto soprattutto dal secondo dopoguerra.

Come scriveva, ancora, Maiuri (giugno 1947): «Si torna a parlare della valorizzazione turistica d’Ischia; se qualche anno fa poteva sembrare vana ostentazione di grandezza, oggi, oltre ad essere un atto di giustizia verso un’isola negletta, è anche una necessità e un buon impiego di quel che abbiamo in fatto di ricchezze naturali. Ma Ischia è tale delicata bellezza da imporre anzitutto un sentimento di rispettoso amore, che è quanto dire non contaminare, non tradire quello che è il patrimonio sacro dell’isola. E poiché valorizzare non è strafare per mania del grande, per ipertrofia e gonfiezza, gli errori del passato qualcosa dovrebbero insegnare».

E, questa, in chiusura, mi sembrano una preoccupazione ed una indicazione esemplari. Ha settant’anni questo scritto, ma non ha perso nulla del suo valore. Anzi gli eventi di questi settant’anni gliene hanno fatto guadagnare. Ed è esemplare perché dovrebbe costituire un esempio di comportamento (quello auspicato da Maiuri) valido non solo per Ischia, ma per tutte le isole, grandi e piccole, note e sconosciute.

Anche perché il grande “arcipelago” delle piccole isole con la loro natura e cultura, costituisce un bene comune. Cioè un bene che è patrimonio di tutti, ma del quale nessuno può pretendere l’esclusiva. E questo è anche un modo per dare il significato che merita all’aggettivo “sostenibile” sempre più pigramente e malamente usato. Perché messo accanto al sostantivo “turismo” ne indica la strada da seguire: quella di un modo di praticarlo tale da non compromettere per le generazioni future la qualità di quel bene e il godimento che se ne ricava.