Apprendere nell’era digitale

Siamo entrati nell’era digitale ed è nata una generazione di giovani che, formatisi sui nuovi dispositivi tecnici – computer, videogiochi, telefonini, internet – , li usano con grande disinvoltura e insieme con profonda indifferenza per i loro meccanismi profondi, attenti solo al loro utilizzo opportunistico. In un libro tradotto in italiano nel 2010 (Homo Zappiens. Crescere nell’era digitale, Edizioni Idea, Roma) due ricercatori olandesi, Wim Veen e Ben Vrakking, hanno individuato e descritto una nuova (pseudo) specie, non biologica bensì culturale: Homo Zappiens (HZ), che considerano catalizzatrice e protagonista di cambiamenti essenziali nel nostro modo di vedere il mondo, di comunicare e di apprendere.

In particolare, gli HZ indurranno una profonda metamorfosi nella scuola, che sarà obbligata a rinnovarsi e ad abbandonare la struttura tradizionale se non vuole soccombere per la robusta concorrenza di Internet, che è al centro di un incremento impressionante (e accattivante) dei flussi d’informazione, flussi che per la vecchia generazione sono un sovraccarico al limite dell’intollerabile, ma che per HZ sono un ricco giacimento nel quale reperire i dati di volta in volta utili.
I giovani HZ, nati e cresciuti all’ombra delle tecnologie mentali, sono abilissimi nel gestire il fiume di informazioni che circola nei nuovi media, nell’intrecciare le comunicazioni faccia a faccia con quelle virtuali e nell’interagire con i loro interlocutori connessi in rete per risolvere in modo cooperativo i loro problemi. Infatti HZ apprende esplorando e giocando, cioè trasferendo le tecniche dei videogiochi a problemi di varia natura e impadronendosi di conoscenze che non fanno più parte di un canone scolastico fisso ma sono negoziabili e mutevoli a seconda del contesto e delle circostanze.

Secondo Veen e Vrakking, questa capacità di apprendimento flessibile sarà utilissima a HZ nella società (della conoscenza) “liquida”, secondo la definizione e le previsioni del sociologo Zygmund Bauman, una società caratterizzata dall’indeterminatezza e dall’instabilità, dall’apprendimento continuo e dalla necessità di imparare e disimparare rapidamente. Si può anzi dire, più in generale, che nella nostra epoca è importante sbarazzarsi delle vecchie abitudini più che acquisirne di nuove, il che porta Bauman ad affermare che “la cosa migliore è non preoccuparsi di costruire modelli; il tipo di abitudine acquisito con l’apprendimento terziario consiste nel fare a meno delle abitudini.”

A scuola HZ manifesta un tempo di attenzione breve, un comportamento iperattivo, un’indipendenza nell’apprendere e un’impazienza cognitiva. Ciò fa dello scolaro HZ un soggetto difficile ma stimolante, che impone metodi nuovi e originali di insegnamento. E la scuola, secondo Veen e Vrakking, si deve adattare perché la società che si annuncia avrà bisogno di persone capaci di affrontare la complessità, la mutevolezza, l’adattamento e l’incertezza. È una visione utilitaristica, improntata all’efficienza e all’ottimismo tecnologico. Infatti gli autori non sfiorano neppure i problemi etici e psicologici legati alla virtualizzazione di tutte le esperienze e della stessa realtà, problemi che esistono e a volte sono molto seri. Le tecnologie della mente sono viste soltanto come fautrici di nuove ed esaltanti possibilità cognitive. L’unico cenno problematico riguarda l’impigrimento di HZ, che tende ad esercitare solo la mente, a scapito del corpo.

In questo quadro, per HZ la scuola è soltanto un luogo di ritrovo, quasi sempre noioso. I giovani digitali sono impazienti, esigono immediatamente le risposte ai loro quesiti, non si concentrano per risolvere categorie di problemi, ma si gettano sul caso particolare passando subito oltre, non fanno mai una sola cosa alla volta, saltano da Internet alla Tv, dal cellulare al Podcast con una divisione di tempo vertiginosa che tende alla simultaneità del multitasking. Essi gestiscono queste attività molteplici concentrando e allentando l’attenzione alternativamente sui vari canali: mentre fanno i compiti ascoltano musica, gettano uno sguardo allo schermo Tv, inviano un sms e un messaggio e-mail o whatsApp a un “amico” appena conosciuto su Facebook, inseriscono il loro ultimo video in YouTube. E, davanti alla Tv, di cui si presente il tramonto nell’orizzonte dei più giovani, esercitano uno zapping ossessivo, apparentemente insensato, in realtà utile per estrarre il meglio da ciascun programma visitato. Ed è questo saltabeccare compulsivo da un medium all’altro che ha dato il nome a questa generazione.

La scuola dunque subisce la concorrenza di altre fonti di informazione e di altri canali di comunicazione, una concorrenza gradevole, ammiccante e agguerrita che si estende lungo tutto l’arco della giornata e che è responsabile in parte della crisi in cui la scuola si trova. E questa crisi si configura come un doppio vincolo, secondo la definizione di Bateson: o la scuola si adegua alla società circostante, perdendo le sue caratteristiche tradizionali di deposito e trasmettitore di cultura, secondo uno schema molto conservatore che ha tuttavia il pregio di essere piuttosto refrattario all’avvicendarsi effimero delle mode e di essere portatore di valori che hanno resistito alla selezione culturale; oppure resiste, assumendo una posizione reazionaria e accentuando ancor di più il distacco dalla società.

In entrambi i casi la missione culturale scuola si svuota e va incontro all’atrofia.

Infatti nel primo caso essa diviene una cinghia di trasmissione utile alla società del consumi e il suo compito diviene quello di preparare delle brave e docili rotelline da inserire nel processo produttivo. Nel secondo caso, come si può pensare che la società tolleri a lungo, finanzi e allevi nel proprio seno un nucleo di opposizione e contestazione? Che la scuola sia in una crisi profonda non ha bisogno di dimostrazioni: basta guardare il calo di prestigio subito negli anni dagli insegnanti, il rincorrersi di riforme non sempre all’insegna della saggezza, l’interferenza sempre più arrogante delle famiglie.

HZ è il risultato dell’incontro precoce con una realtà “virtualizzata”, cioè filtrata dai dispositivi digitali, e con la possibilità di comunicare a costo nullo senza limiti spaziali. Armato di telecomando, mouse, tastiera e cellulare, HZ ha il mondo a portata di clic, non conosce i tempi lunghi della riflessione e ai libri e agli svaghi all’aria aperta preferisce i videogiochi, anche i più violenti, senza imbarazzi morali. HZ non ama la tecnologia di per sé, bensì per ciò che può consentirgli di fare, dimostrando tutta la chiusura della generazione digitale, che adotta un atteggiamento magico, strumentale e indifferente, un atteggiamento che è agli antipodi dell’atteggiamento scientifico, il quale porta alla curiosità investigativa. Mentre la scienza affronta la complessità del mondo cercando di spiegarla, la tecnologia nasconde la complessità sotto una facciata ammiccante.

Quanto al protagonismo comunicativo di HZ, esso può giungere a forme di pericolosa autoreferenzialità e autismo tecnologico: assuefazione, intossicazione, hikikomori, cioè isolamento prolungato nei mesi e negli anni dal mondo circostante per concentrarsi solo sulla comunicazione mediata dalla rete e in particolare dalle reti sociali. E infatti in medicina e in psicologia si è aperto un capitolo inedito, relativo alle patologie e alle dipendenze mediate dalla rete.

Le caratteristiche di HZ segnano il passaggio da (una società e da) una scuola di massa a una scuola modellata sui singoli: non più programmi ed esami uguali per tutti, ma ampia libertà per ciascuno di ritagliarsi il proprio percorso di studi, da seguire con i tempi individuali; non più insegnanti ma tutori, cioè assistenti, che aiutino a superare i momenti di difficoltà; niente libri e niente compiti a casa.

Verso questa concezione rivoluzionaria della scuola si stanno già orientando alcuni istituti olandesi, che indubbiamente costituiscono un esempio su cui riflettere. Prima o poi, se non altro per contagio imitativo, questo esempio sarà seguito anche in altri Paesi. Ma come reagire a queste sollecitazioni? Se Veen e Vrakking manifestano nei confronti di HZ un entusiasmo profetico, e non sembrano porsi il problema di come questi giovani affronteranno il sodo e indocile mondo reale che, nonostante le sue derive virtuali, è per il momento ben lungi dallo scomparire nelle pieghe del ciberspazio, non tutti la pensano a questo modo.

Poiché HZ costituisce ancora una piccola minoranza, si pone il problema dei rapporti con la maggioranza non digitale. E poi: quali strutture di governo e conduzione potrà avere la società liquida (o ameboide) del futuro, gestita da questi liquidi digitalisti? È un bell’esercizio di futurologia sociopolitica, reso urgente da alcune recenti ricerche che collegano l’uso massiccio delle tecnologie digitali, in particolare delle reti sociali, a un aumento dei comportamenti a rischio (fumo, alcol, sesso precoce, stupefacenti, bullismo, denigrazione, violazione della privatezza).

È confermato che l’uso precoce delle tecnologie agisce sulle connessioni cerebrali e le modifica, per cui HZ ha un cervello diverso da quello dei bambini e adolescenti che da piccoli hanno scritto, letto libri e giocato all’aperto. Un cervello diverso significa che tutto viene fatto in modo diverso. Questa, tra parentesi, è un’altra ragione della crisi della scuola, dove s’incontrano insegnanti e allievi che hanno non solo competenze tecnologiche diverse, ma anche e soprattutto cervelli diversi e quindi incontrano difficoltà comunicative.

E poiché si parla di cervello, è importante conoscere l’opinione di un neurobiologo di chiara fama, Lamberto Maffei, che tra l’altro è stato anche presidente dell’Accademia dei Lincei. Tra i libri divulgativi di Maffei si segnala, in rapporto al nostro tema, un volume del 2014, Elogio della lentezza (il Mulino, Bologna), che traccia un quadro nitido del funzionamento del sistema nervoso e delle interazioni che esso presenta con l’ambiente esterno, un ambiente ormai fortemente artificiale, che ci obbliga a reazioni sempre più rapide e ci obbliga a una competizione spietata con macchine sempre più veloci e potenti, e da questo confronto usciamo perdenti, avviliti e affannati.

Il sistema nervoso presenta due modalità di funzionamento, una rapida e una lenta. La prima governa le reazioni agli stimoli ambientali e ha un grande valore di sopravvivenza sotto il profilo sia filogenetico sia ontogenetico: nei nostri antenati, per esempio nell’australopitecina Lucy (circa 2 milioni di anni fa), dominavano le reazioni rapide, indispensabili per scampare ai pericoli; ma anche nei nostri bambini, almeno fino allo sviluppo del linguaggio, predomina il sistema rapido, che comprende la categoria dei riflessi.

La modalità lenta è propria degli animali superiori ed è molto sviluppata nell’uomo: concerne il controllo della nostra vita, presiede alle scelte, all’impiego delle risorse, all’attività scientifica e artistica, all’interazione con gli altri esseri e con l’ambiente. Il sistema lento è conscio, è legato alla volontà, è retto dalla razionalità ed è influenzato oltre che dall’evoluzione biologica, com’è ovvio, anche dall’evoluzione culturale. Può presentare anche certi automatismi, i quali tuttavia non sono rigidi come nel sistema rapido e possono essere modificati dall’apprendimento, dal contesto e dall’esperienza.

A questo punto si presenta una sorta di contraddizione: se è vero che l’evoluzione biologica ha portato nel corso del tempo alla comparsa e al potenziamento del sistema lento, è anche vero che oggi l’evoluzione culturale, o meglio l’evoluzione tecnica, ha innescato una deriva contraria. La tecnologia digitale, dalla quale siamo circondati e invasi, è contrassegnata infatti da una velocità crescente, che mette a dura prova il nostro cervello, una macchina che è rimasta lenta e meditativa. Il mondo dove vive Homo technologicus (prodotto della simbiosi di Homo sapiens con la tecnologia) è all’insegna della connessione permanente, della sollecitazione comunicativa, della frenesia visiva e cognitiva: tutto ciò sconfina in una tensione patogenetica che ci spinge a rivaleggiare con le nostre macchine, ricavandone avvilimento e sconfitte.

Il contrasto tra l’evoluzione biologica, che privilegia il sistema lento, della riflessione e della razionalità, e l’evoluzione culturale, che privilegia il sistema rapido, osannato dai corifei della tecnologia, è fonte di ansia se non addirittura di angoscia. Per rimuovere l’angoscia ci si butta nel consumismo, dove alla bulimia delle produzioni inutili e degli acquisti compulsivi fa riscontro una grave anoressia di valori. Come si può rimediare? Maffei ci invita a ritrovare la lentezza, a godere del bello, a recuperare l’arte, la poesia, il pensiero originale e creativo, le cose inutili, i dubbi e le incertezze che caratterizzano la riflessione. Si tratta, per operare questo ritorno alla saggezza sistemica, di modificare radicalmente la scuola, che oggi è un meccanismo sempre più asservito alla tecnologia, al mercato e al feticcio del Pil, capace solo di sfornare ingranaggi da inserire nel vorticoso meccanismo dei consumi. La scuola dev’essere un ambiente dove la plasticità del cervello giovane possa trovare le strade per formare cittadini non asserviti al pensiero unico e capaci di critica, di originalità, di creatività.

L’aforisma di Bauman sopra citato può avere come conseguenza un annullamento progressivo delle differenze culturali, e di fatto ciò si osserva già nei luoghi nevralgici della contemporaneità, aeroporti, metropolitane, centri commerciali, zone residenziali, che presentano una sconfortante uniformità sotto tutte le latitudini poiché l’inventiva e l’originalità progettuale sono state sacrificate alla funzionalità e all’efficienza. Sotto l’imperativo della rapidità anche i cibi si uniformano e, come nota Maffei, “l’impero dei segni verrà distrutto dall’impero del niente, dove i gesti e perfino i gusti diventeranno tutti uguali.”

Quanto alla scuola, la tendenza che individua Maffei è quella di una sua subordinazione crescente alle necessità produttive e consumistiche. La dittatura del Pil non tollera deviazioni da un rigido programma di smantellamento progressivo delle discipline umanistiche (prime fra tutte il greco e il latino) a vantaggio di quelle tecniche tese alla produzione. Ma le materie umanistiche non sono soltanto quelle così definite per tradizione: tutti gli studi mossi dall’amore per il sapere (la matematica, le scienze naturali e via elencando) sono umanistici poiché “non mirano direttamente ad altro prodotto che non sia quello della conoscenza e del gioco gioioso dell’intelletto.”

I due libri sul cui contenuto ho dato qualche rapido cenno si pongono alle estremità opposte delle impostazioni scolastiche: da una parte un incoraggiamento alla rapidità e all’aggiornamento e avvicendamento continuo delle conoscenze per adeguarsi a un mondo che corre sempre più in fretta, dall’altra un rallentamento che faccia riscoprire i vantaggi di una scuola, e in generale di una società, dedita alla riflessione, al dialogo, alla meditazione.

Mi sottraggo ostinatamente alla tentazione di affermare che in medio stat virtus: dico piuttosto che se vogliamo che i nostri figli sviluppino un atteggiamento critico, libero e creativo in tutti i campi, compresi quelli che cadono sotto l’imperativo della velocità e della produzione, un ritorno agli studi umanistici è indispensabile. È molto diverso affrontare i problemi economici e sociali con una preparazione umanistica (in senso lato) oltre che tecnica, e affrontarli con una preparazione e un’impostazione mentale soltanto tecnica.

Gorizia, 12 febbraio 2016