OGM, biodiversità e decisioni consapevoli

L’agricoltura italiana è in una condizione tale per cui, senza un deciso cambiamento di prospettiva, il Paese finirà nella totale irrilevanza delle produzioni agricole. Già oggi l’Italia non ha aziende sementiere e la stragrande maggioranza delle sementi, in particolare per le orticole, è di origine estera, cioè di grandi multinazionali che producono sia semi tradizionali non OGM sia semi OGM.

Se non si contrasta questa tendenza si fa una scelta ben precisa, quella di portare il Paese a dipendere sempre di più da scelte che avverranno fuori dai confini nazionali. Si vaneggia che vietando la coltivazione commerciale e persino la ricerca scientifica pubblica sugli OGM si ponga un freno a tale tecnologia, mentre in realtà si accumulano spaventosi ritardi tecnologici e si favoriscono quelle stesse multinazionali che si millanta di voler contrastare.

La sintesi è che noi non mangiamo piante naturali, ma piante addomesticate sempre più innaturali e sempre meno competitive e resistenti a vari tipi di aggressioni. Solo coloro che saranno in grado di migliorare le piante e i semi potranno compiere le scelte sul nostro futuro alimentare, la tutela della biodiversità e dell’ambiente.

 

La mangimistica nazionale si basa su importazioni di OGM

La condizione di dipendenza da OGM è la normalità della zootecnia italiana come sostiene l’organizzazione della mangimistica nazionale Assalzoo (www.salmone.org/assalzoo-ci-da-i-numeri/) e come conferma lo stesso Ministero delle politiche agricole e agroforestali (www.salmone.org/ministero-agricoltura-dice-ogm-importati-sono-sicuri/). Circa l’87% dei mangimi venduti in Italia contengono OGM, il 12,5% sono privi di OGM e solo lo 0,5% sono mangimi biologici. Anche su questa quota residuale di mangimi biologici occorre precisare che, da quando è stato emanato il disciplinare europeo per l’agricoltura biologica, la mangimistica vive in uno stato di deroga (www.salmone.org/bio-polli/). Queste deroghe consentono di usare mangimi non-biologici nella dieta di animali allevati con metodo biologico e tali deroghe riguardano la quota della frazione proteica della dieta zootecnica (quindi quella in genere coperta dalle proteine derivanti dalla soia).

L’ultima proroga, in rinnovo dal 2009, si estenderà fino a tutto il 2017, ossia da quando è entrato in vigore il nuovo disciplinare dell’agricoltura biologica e per altri tre anni quasi potrebbe essere impossibile mangiare un pollo o un maiale completamente biologici. Di tutta evidenza quindi non si riesce, a livello comunitario, a produrre mangimi biologici e si deve fare sistematicamente ricorso a integrazioni della dieta con tipologie di proteine vegetali derivanti da altri tipi di agricolture. Tale situazione era stata descritta anche da un rapporto Nomisma del 2004 dedicato alla mangimistica dei prodotti di alta gamma italiani. Il rapporto spiegava che già dal 2001 almeno un chilo dei tre chili della soia che mangiava una vacca di Grana padano o Parmigiano reggiano era OGM (www.salmone.org/agricoltura-di-qualita-usa-ogm/). Altrettanto dicasi per i maiali dei prosciutti di Parma o San Daniele o per la mozzarella di bufala.

 

Agricoltura biologica e bio-ragionevole

Le produzioni da agricoltura biologica vivono di un’autopromozione positiva e spesso acritica. Uno degli aspetti virtuosi è che tale tipologia di coltivazione si qualifica come (o meglio dire ambisce a essere) una pratica in grado di ridurre l’impatto ambientale dell’agricoltura sugli ecosistemi. Al tempo stesso i costi molto superiori delle produzioni biologiche sono un aspetto che confina tali produzioni in una fascia di utenti medio/alta, mentre i quasi dieci milioni di cittadini italiani sulla soglia della povertà hanno identici diritti ad avere accesso a cibi sicuri dal punto di vista nutrizionale e sanitario. Ma le produzioni biologiche vivono molte criticità:

– la prima è quella che riguarda le frodi divenute oramai endemiche e che hanno portato negli anni scorsi a sequestri da parte delle forze dell’ordine di molte decine di migliaia di tonnellate di prodotti falsamente etichettati come biologici, soprattutto cereali. Questo avviene anche perché non esistono dei semi biologici e metodi semplici per identificare le partite biologiche;

– la seconda criticità riguarda la certificazione di tali produzioni biologiche: il limitato numero di enti certificatori, il fatto che tali certificazioni siano solo sui processi e non anche sui prodotti, ma soprattutto il fatto che sia la stessa azienda “biologica” da valutare e certificare a saldare la fattura all’ente certificatore;

– il terzo aspetto che lascia perplessi è l’impatto ambientale delle produzioni biologiche. Qui le criticità riguardano gli agrofarmaci autorizzati, ammessi in agricoltura biologica. Per sintetizzare la questione agrofarmaci, s’immagina che un prodotto autorizzato in agricoltura biologica sia esente da impatti ambientali gravi. Su una confezione di un insetticida autorizzato in agricoltura biologica si possono leggere queste frasi di rischio: “Altamente tossico per gli organismi acquatici”, “Il prodotto contiene una sostanza attiva tossica per le api. Non trattare in fioritura le fruttifere: non trattare le altre colture nelle ore serali”;

una quarta criticità riguarda l’impiego di fertilizzanti ammessi in agricoltura biologica. Non potendo fare uso di fertilizzanti di sintesi per nutrire le piante soprattutto di composti azotati, in agricoltura biologica si fa uso di due principali tipologie di fertilizzanti organici, equamente rappresentati, inclusi nel Regolamento 2092/91. Le due tipologie solo i letami e le farine animali: entrambi possono derivare da animali nutriti con OGM e un vegano non viene informato da una apposita etichetta riguardo all’uso di farine animali.

Un approccio bio-ragionevole sarebbe quello di recuperare geni di piante selvatiche della stessa specie di quelle coltivate (si chiama cis-genesi) per restituire alle piante che abbiamo addomesticato oltre diecimila anni fa tante caratteristiche di cui le abbiamo spogliate nel corso dei millenni. Recuperando geni che ci siamo persi casualmente, potremmo aumentare la resistenza a parassiti delle piante e usare meno insetticidi e fungicidi, consentire alle piante di tollerare meglio le avverse condizioni climatiche (a cui si aggiungono i cambiamenti climatici in corso) e, inoltre, sostenere la crescita vegetale mediante l’uso di alcuni microrganismi del suolo che le possono nutrire riducendo così l’uso di fertilizzanti di sintesi che causano anche l’aumento dei gas serra.

 

Salute, economia, ambiente

Nessuna attività umana è a rischio zero, nessuna produzione alimentare da nessun tipo di agricoltura è esente da pericoli, anche mortali, per i consumatori e basti ricordare che la seconda più grave epidemia alimentare dal dopoguerra, dopo mucca pazza, è stata quella causata dalla scorretta preparazione di germogli di soia biologica che ha causato oltre cinquanta morti in Germania nel 2011 e centinaia di ospedalizzati gravi.

Detto che nulla è senza rischio, a oggi non è mai stato documentato un singolo caso di una sola persona ospedalizzata al mondo per consumo di una qualunque pianta OGM. Tutte le più grandi organizzazioni internazionali hanno espresso una cauta fiducia sugli OGM commercializzati spiegando che vanno analizzati uno per uno e non accettati o rifiutati in blocco come stiamo facendo. Ecco cosa sostiene sul tema l’organizzazione mondiale della Sanità (www.who.int/foodsafety/areas_work/food-technology/faqgenetically-modified-food/en/):

Are GM foods safe? Different GM organisms include different genes inserted in different ways. This means that individual GM foods and their safety should be assessed on a case-by-case basis and that it is not possible to make general statements on the safety of all GM foods.

GM foods currently available on the international market have passed safety assessments and are not likely to present risks for human health. In addition, no effects on human health have been shown as a result of the consumption of such foods by the general population in the countries where they have been approved. Continuous application of safety assessments based on the Codex Alimentarius principles and, where appropriate, adequate post market monitoring, should form the basis for ensuring the safety of GM foods.

Inoltre non è vero che abbiamo rapporti solo indiretti (mangimi) con OGM. Il rapporto più intimo che abbiamo è quello mediato dal cotone OGM. Il 70% del cotone mondiale deriva da OGM e sulle confezioni di cotone usate in medicina non viene indicato se si tratta di cotone esente da OGM. Quindi, mediamente in ogni confezione il 70% è OGM e noi mettiamo a contatto tale derivato da OGM col nostro circuito sanguigno senza che si sia mai registrata una reazione allergica o fenomeni di tossicità. Questo riscontro potrebbe aiutarci a capire che la pretesa allergenicità degli OGM non si applica (finora) al cotone OGM.

Un aspetto dalle ricorrenti preoccupazioni sanitarie riguarda ancora il mais coltivato in Italia. Non usando mais OGM, il mais viene attaccato dalle larve della piralide che provocano ferite sul mais dove si vanno poi a insediare funghi tossici del genere Fusarium. Questi rilasciano fumonisine, delle micotossine che probabilmente sono tra le cause principali dell’insorgenza di tumori esofagei e di malformazioni congenite del tubo neurale durante la gestazione. Tali difetti posso andare dalla palatoschisi alla spina bifida e sono ben documentate in uno studio epidemiologico condotto in Texas su famiglie di immigrati messicani che consumavano tortillas inquinate dafumonisine (www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC1367837/). Sul sito dell’Organizzazione Mondiale della Sanità viene invece ospitato un documento che correla l’insorgenza di casi di tumori esofagei al consumo di mais inquinato da fumonisine descrivendo i tre principali casi riscontrati a livello mondiale in Sudafrica, in Cina e nella provincia di Pordenone (www.who.int/ipcs/publications/ehc/en/ehc_219.pdf). Osservare quindi che siano proprio due agricoltori di Pordenone (in rappresentanza di 400 agricoltori locali) che abbiano scelto di coltivare mais OGM appare sotto questa luce meno sorprendente.

Il problema che abbiamo in Italia è che mediamente negli ultimi tre anni il 55% del mais italiano presentava tali livelli di inquinamenti da fumonisine (www.salmone.org/wp-content/uploads/2015/03/locatelli-et-al-cra-mac.pdf) che era vietato per il consumo umano secondo la raccomandazione europea 1126/2007 (http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=OJ:L:2007:255:0014:0017:IT:PDF).

Vi è un consenso quasi unanime sul fatto che il mais OGM del tipo Bt riduce l’inquinamento di fumonisine tra le tre e le dieci volte rispetto a un mais non-OGM. Questo avviene senza lo spargimento di insetticidi, quindi senza creare danni ambientali aggiuntivi alla coltivazione del mais. Si tratta di una coltivazione che potrebbe produrre un mais più sicuro per il consumo umano e zootecnico, potrebbe ridurre due pratiche ambientali dannose come l’uso di insetticidi e la necessità per gli agricoltori di convertire il mais inquinato da fumonisine in biocarburanti, pratica ad alto impatto ambientale che non andrebbe più incentivata. Infine consentirebbe di ridurre le perdite al raccolto con aumenti di rese attorno al 20% e consentirebbe quindi di tenere in Italia una buona fetta dei circa 800 milioni di euro che sprechiamo acquistando mais all’estero (in parte anche lo stesso mais OGM).

Sulla sicurezza del mais italiano per il consumo umano, il Consiglio Superiore della Sanità ha da un lato rassicurato tutti sentenziando che mediamente il mais italiano destinato al consumo umano non presenta particolari rischi per il consumatore, ma lasciandosi al tempo stesso le mani libere negli “auspici” finali del documento (www.salmone.org/comunicato-capannaconsiglio-superiore-sanita/). Il CSS auspica infatti che vengano rivisti i parametri di soggetti a maggior rischio ossia “celiaci e bambini”. Questo auspicio deriva dal fatto che il mais per consumo umano può contenere mille parti per miliardo di fumonisine se il mais è destinato al consumo per adulti, ma solo 200 parti per miliardo (ossia 5 volte meno) se destinato ai bambini, in base al regolamento comunitario 1126/2007. Ancora oggi non si trovano etichette che aiutino il consumatore a capire se il mais che stanno acquistando è destinato o meno al consumo per quelle che il CSS definisce categorie a rischio.

Si vede quindi come, nel caso dell’unica pianta OGM coltivabile in Europa, gli aspetti sanitari siano ribaltati e il mais OGM sia più sicuro (perché contiene meno fumonisine) per il consumo umano diretto rispetto al mais da agricoltura tradizionale o da agricoltura biologica.

Il mais biologico non potendo usare insetticidi di sintesi è particolarmente esposto alle aggressioni delle larve di piralide e quindi agli inquinamenti da fumonisine.

Sempre per esporre casi concreti, in Friuli si coltivano 80.000 ettari con mais tradizionale (ossia che deve subire due trattamenti con insetticidi all’anno che potrebbero essere evitati dall’uso di mais Bt) e vi sono solo 67 ettari coltivati a mais biologico. Forse tutto questo non è un caso. Questi aspetti ribaltano il sempre invocato principio di precauzione che finora è stato sempre e solo adottato per vietare gli OGM.

La nostra strutturale carenza d’iniziativa/innovazione viene calata in una condizione di forte crisi dello scambio commerciale nazionale con un deficit della bilancia commerciale dell’agro-alimentare nazionale che oscilla tra i quattro e i sei miliardi di euro l’anno da oltre venti anni. Questa situazione di sofferenza del sistema Paese si concretizza nella chiusura di circa 21.000 aziende agricole l’anno da oltre un decennio. In pratica dal 2005 a oggi ha chiuso il 22% delle aziende agricole italiane. L’Italia importa metà del grano tenero, un terzo del grano duro, metà delle carni, l’85% della soia, il 40% del mais che consuma, oltre a pomodori, olio d’oliva, latte, ecc.

Il deficit strutturale della nostra bilancia agroalimentare riguarda principalmente la mangimistica che è responsabile di circa metà di tale deficit e potrebbe raggiungere nel 2015 la stessa cifra (2,7 miliardi di euro) a cui ammontano le esportazioni dei nostri principali prodotti tipici di alta qualità (Parmigiano reggiano, Grana padano, Prosciutto di Parma, Prosciutto San Daniele, Mozzarella di Bufala, Lardo di Colonnata, ecc.). Nessuno di questi prodotti si qualifica per essere esente dall’utilizzo di mangimi OGM (se si esclude una particolare tipologia di Parmigiano da vacche rosse, che è appunto l’eccezione che conferma la regola). Due successivi presidenti del Consorzio di tutela del Parmigiano reggiano hanno dichiarato che i consorzi dei loro associati fanno uso di mangimi con OGM (www.salmone.org/wp-content/uploads/2010/01/a00524121.mp3).

L’Italia importa quasi quattro milioni di tonnellate di soia OGM l’anno, ossia diecimila tonnellate al giorno di soia OGM viene consumata in Italia. La nostra spesa per il solo acquisto di soia OGM ammonta a 1,4 miliardi di euro l’anno. Questo testimonia come il divieto degli OGM in Italia ne ha aumentato la dipendenza mediante le importazioni di mangimi OGM. Per quel che riguarda il mais l’Italia era autosufficiente per il proprio fabbisogno fino al 2004, mentre oggi importiamo 4,5 milioni di tonnellate di mais che in parte è anche OGM. Per il solo mais stiamo dilapidando 800 milioni di euro l’anno avvantaggiando le filiere produttive di Stati esteri quando potremmo produrre tutto quel mais in casa senza aumentare di un ettaro la superficie coltivata. Questo perché l’Italia nel 2013 ha prodotto mais con una resa per ettaro di 78 quintali, mentre la Spagna che coltiva in parte mais OGM ha prodotto mais a 110 quintali per ettaro.

Per quanto riguarda la tecnologia Bt, ossia quella che consente la riduzione dell’uso di insetticidi, le piante di mais e cotone OGM coltivate a livello mondiale hanno avuto in generale buoni riscontri e la tecnologia sta funzionando tanto bene che le stesse organizzazioni dell’agricoltura biologica statunitense affermano che in 16 anni grazie a mais e cotone OGM si è risparmiato lo spargimento di 56.000 tonnellate di insetticidi. Le aziende che fanno il monitoraggio delle superfici coltivate a OGM parlano invece di 503.000 tonnellate

risparmiate. Va ricordato a tale proposito che mentre i semi biotech sono in gran parte commercializzati e brevettati da aziende statunitensi, la produzione di agrofarmaci vede solo aziende europee occupare le prime tre posizioni al mondo per fatturato complessivo. Si potrebbe banalmente immaginare una guerra tra le due sponde dell’Atlantico per il controllo dei mercati agricoli, ma la vicenda appare più complessa e intricata.

Quando si vuol fare di tutta l’erba un fascio e avversare gli OGM “a prescindere” per demonizzare anche altri tipi di OGM che hanno proprietà e applicazioni molto diverse, si cita la tecnologia della resistenza a erbicidi, che sta funzionando oramai meno bene di come ha funzionato quasi venti anni fa quando sono iniziate le coltivazioni di soia e colza OGM. In alcuni terreni coltivati con piante tolleranti a un erbicida, si stanno diffondendo sempre più piante infestanti resistenti all’azione di quell’erbicida e si devono ora impiegare non più un solo erbicida ma due o tre. A una lettura superficiale si potrebbe dedurre che aver vietato queste coltivazioni in Italia è stata una scelta vincente, ma la situazione è più articolata. L’editoriale di Nature (www.nature.com/news/a-growing-problem-1.15382) segnala un problema di insorgenza di erbe infestanti che riguarda 25 milioni di ettari solo negli USA che coinvolgono 23 Stati. L’insorgenza di erbe infestanti è un fenomeno noto, studiato da anni e del tutto previsto. Nonostante ciò la gestione non è stata accurata. Ma Nature non dice “siccome ci sono delle erbacce si smetta di piantare piante OGM con resistenze a erbicidi”. Nature dice che un organismo di dimensioni federali come l’EPA degli USA deve gestire il problema applicando le stesse restrizioni e regolamentazioni che ha applicato nel caso degli OGM del tipo Bt, ossia imponendo fasce di sicurezza, zone rifugio, monitoraggio sui campi proprio per prevenire l’insorgenza di mutanti spontanei resistenti che potessero far perdere i grandi vantaggi della tecnologia OGM. Perdere tali vantaggi, ossia non avere solo un numero limitato (inizialmente uno, il solo glifosate) di erbicidi da applicare. Questo significherebbe tornare nella condizione di nazioni anti-OGM come l’Italia che usa per coltivare la soia non-OGM ben 6 differenti erbicidi, uno dei quali è lo stesso glifosate.

Per avere una stima del problema, su un ettaro di terreno in cui si usa solo glifosate, ossia per una pianta OGM come la soia per esempio, il costo del diserbo è di 9 euro. In Italia stiamo usando 6 diversi erbicidi per coltivare soia non-OGM e spendiamo 200 euro per diserbare lo stesso ettaro di terreno. In Italia esistono già da tempo tra l’altro piante selvatiche tolleranti al glifosate e questo dipende anche dal fatto che noi usiamo glifosate per tenere pulite strade e ferrovie, quindi l’uso poco avvertito dell’erbicida seleziona già le piante meno sensibili. Come si vede il “No agli OGM” non ci ha esentato dall’avere un’agricoltura piena di problemi. Infine, per coloro che temono il glifosate più della peste, occorre ricordare che la “frase di rischio” presente sulle confezioni di Roundup (il glifosate della Monsanto) è la stessa frase di rischio presente sulla confezione di insetticida biologico già citato, oppure sulle confezioni del più diffuso fungicida biologico (la poltiglia bordolese, ossia rame, un metallo pesante molto persistente).

Si capisce dunque che le piante OGM in commercio riducono l’uso di vari prodotti di sintesi e in particolare di insetticidi e fungicidi. Queste loro doti andrebbero meglio valutate da chi ha a cuore la tutela dell’ambiente. Lo stesso pontefice nella sua enciclica Laudato si’ ricordava un principio basilare della tutela della biodiversità, ossia “lascia incolta una parte del tuo orto”. Questo per rammentare che il nemico della biodiversità è la stessa agricoltura, qualunque tipo di agricoltura, perché coltivare significa usare un solo o pochi semi, mentre solo lasciando incolte le terre si consente il proliferare della biodiversità. Non sfuggono altri passaggi della stessa Enciclica, come quello in cui si ricorda che gli OGM sono piante naturali, in quanto la patata dolce è un OGM che mangiamo da secoli, trasformata con geni di un batterio del suolo (agrobatterio), lo stesso batterio usato dagli scienziati per ingegnerizzare le piante in maniera molto più accurata e chirurgica di quanto avvenga spontaneamente.

 

Alcuni OGM e alcune piante migliorate servono all’agricoltura italiana

Un aspetto che spesso sfugge è che noi non ci alimentiamo di piante naturali, ma di piante addomesticate. Sarebbe comodo mangiare piante selvatiche, ma o non ci sono o sono di pessimo gusto e caratteristiche o spaventosamente insufficienti per le nostre esigenze. Nel processo di addomesticazione delle piante l’uomo ha compiuto un intervento opposto a quello della selezione naturale. In pratica abbiamo spogliato le piante di cui ci alimentiamo della gran parte delle loro difese che, o erano dannose (tossiche) o erano scomode. Per esempio la spiga di grano nasce per liberare i semi quando è matura, dovendosi riprodurre indipendentemente dall’aiuto di qualcuno. Noi abbiamo selezionato un mutante di grano che non libera i semi quando sono maturi, altrimenti perderemmo il raccolto quando falciamo il grano. Per fare un’analogia con l’uomo è come se noi facessimo riprodurre solo gemelli siamesi. Anche dal punto di vista nutrizionale abbiamo selezionato piante sempre più digeribili per noi, quindi sempre meno capaci di scoraggiare l’attacco dei loro predatori. Nessuna pianta ha il progetto di farsi mangiare dall’uomo. Il loro progetto è quello di mettere i loro semi nelle migliori condizioni per riprodursi. Il frutto è l’ovario (la placenta) del seme. Il frutto serve a nutrire il seme. L’uomo ha sviluppato piante non-OGM che hanno semi sterili in modo che non facciano degradare il frutto, che resta più a lungo sano e integro per le nostre esigenze (peperoni, banane, alcune pere e mele, hanno tutti semi sterili, tutti non-OGM). Non esistono invece in commercio al mondo piante OGM sterili e chi lo sostiene non sa di cosa parla. L’uomo è un predatore delle piante in quanto noi mangiamo i loro figli (i semi) e abbiamo indirizzato l’evoluzione delle specie addomesticate per essere funzionale alle esigenze dei predatori (noi) non all’esigenza dello sviluppo delle piante in modo naturale.

Per questa ragione il principale nemico della biodiversità è l’atto stesso di coltivare, è l’agricoltura intera il nemico della diversità genetica delle piante.

In questo millenario processo di selezione, all’opposto dell’evoluzione naturale, abbiamo compiuto scelte al buio che ci apparivano sensate, ma che alla luce delle conoscenze attuali si sono dimostrate errate. Per esempio abbiamo selezionato semi di riso sempre più grandi per fare maggiori raccolti. Ma i chicchi più grandi erano solo più pieni di amido e sempre meno ricchi di proteine e lo stesso è avvenuto per il grano. I grani attuali hanno circa la metà delle proteine dei grani originari. Durante la selezione abbiamo scelto tipi di pomodori più resistenti, ma che maturavano peggio e quindi dal sapore meno gustoso. Abbiamo scelto sistematicamente frutti con colori meno scuri privilegiando il bianco della patata o l’arancione della carota, quando le piante originarie di entrambe erano viola. Queste scelte non sono state fatte né di recente né da grandi aziende sementiere OGM, ma da contadini che non potevano avere la cultura della genetica dell’ultimo secolo, né la cultura della genomica o della nutri-genomica che non abbiamo ancora completamente nemmeno noi oggi. Ci siamo persi tantissimi geni utili nella selezione delle varietà commestibili e, con essi, grandi qualità delle piante. Per esempio quasi sempre il colore viola è legato alla presenza di molecole, dette antociani, che sono tra quelle più salutari per l’uomo. Abbiamo trascurato le tante sorgenti vegetali di grassi omega 3 che ora cerchiamo di recuperare da pesci allevati, con grandi costi ambientali.

La lista delle selezioni fatte alla cieca è ancora molto incompleta, ma questi pochi esempi servono a indicare che molto del nostro futuro alimentare sta nel nostro passato, ossia nelle piante selvatiche (quello che alcuni chiamano biodiversità) da cui derivano le nostre piante coltivate.

Le varietà originarie e selvatiche delle piante coltivate conservano ancora geni di resistenza a funghi patogeni, a parassiti dannosi, sanno tollerare meglio vari tipi di stress termici e nutrizionali. Un immenso campo di ricerca sarà quindi quello della cis-genesi, ossia il trasferimento di singoli geni all’interno della stessa specie per consentire a piante come il melo o come la vite, adattate da millenni al nostro consumo, di diminuire la loro dipendenza da fungicidi a base di ossido di rame recuperando, appunto, geni di resistenza

all’attacco di funghi che risiedono nelle varietà selvatiche dove l’uomo non ha ribaltato il percorso della selezione naturale. Il rame è un metallo pesante che resta nei campi per decenni e provoca gravi patologie all’uomo e noi lo usiamo da secoli sugli stessi terreni, ossia in quelle monoculture che sono le colline coltivate con le viti. Infine, l’evoluzione guidata delle piante (genome editing) è una tecnologia non-normata recente e dalle grandi potenzialità. Un Paese che davvero volesse investire in ricerca in agricoltura non avrebbe dubbi a scommettere su queste tecnologie per aumentare le potenzialità della sua agricoltura e del possibile impiego giovanile che questo settore primario può generare.

 

*Tratto dalla rivista Scienza & Società n.23/24 – “Il cibo e/è l’uomo