Sui banchi di scuola in Italia e in Germania

Alla fine del 2014 i giovani di età compresa tra i 15 e i 24 anni senza lavoro in Europa erano più di uno si cinque. Il 21,4% per la precisione. Meno che nel 2013 (23,1%). Ma molto più del 2007, l’ultimo anno prima della crisi, quando i giovani disoccupati nei 28 paesi che oggi fanno parte dell’Unione Europea erano il 15,3% del totale. La disoccupazione giovanile preoccupa (giustamente) Bruxelles. Così da molti anni la Commissione Europea ha messo in campo un’articolata strategia per combatterla.


Di questa strategia fa parte integrante la scuola. In particolare la scuola media secondaria. Perché si ritiene che sia è lì, nelle scuole superiori, tra i14 e i 19 anni, che i ragazzi si giocano molte carte del loro futuro.
Questa idea è una conseguenza logica di una strategia più ampia che l’Unione Europea ha deciso di adottare nell’anno 2000 in un famoso vertice tenuto a Lisbona: diventare entro il 2010 l’area leader al mondo nell’economia fondata sulla conoscenza. La “strategia di Lisbona” si fonda su tre grandi processi integrati: l’espansione dell’industria hi-tech e di servizi ad alto tasso di conoscenza aggiunto; l’incremento della spesa in ricerca scientifica e sviluppo tecnologico (R&S); la formazione.

Gli obiettivi di Lisbona non sono stati raggiunti entro la data indicata. Così sono stati riproposti per il 2020. Tra i motivi principali del primo fallimento e, dunque, tra gli ostacoli da rimuovere per raggiungere almeno il secondo traguardo c’èla mancata convergenza. L’Europa è ancora troppo disomogenea. Il sistema produttivo dei 28 paesi dell’Unione è ancora molto differenziato. Sebbene già molti anni fa Antonio Ruberti parlasse della necessità di costruire un’”area comune della ricerca”, solo il 5% della spesa europea in R&S viene gestita da Bruxelles: il restante 95% è ancora gestita a livello nazionale dai governi dei singoli paesi e si traduce in 28 diverse politiche spesso in competizione se non in aperta contraddizione.

Quanto alla formazione, un timido tentativo di convergenza è in atto solo a livello di educazione terziaria (università): con il “processo di Bologna”, che mira a uniformare i curricula, e con il “progetto Erasmus”, che favorisce la mobilità degli studenti e dei docenti, requisito non secondario per la costruzione di una rete europea delle università.Non è poco. Ma non è neppure abbastanza. E sì che le università sono nate in Europa, tra il XII e il XIV secolo, costituendo già una rete con una lingua comune (il latino), curricula omogenei ed estrema mobilità di studenti e docenti. Quella rete è stata il collante culturale che ha trasformato un’espressione geografica (la piccola appendice occidentale dell’Eurasia) in un continente e in una civiltà (la civiltà europea).

Ora più che mai il Vecchio continente e la civiltà europea avrebbero bisogno di forti collanti culturali. Ma, per estremo paradosso, ciò che è stato possibile mille anni fa, anche in assenza di istituzioni politiche comuni, oggi risulta più difficoltoso, malgrado la creazione dell’istituzione Unione Europea. La mancata creazione di un’”area comune della formazione” è stata una precisa scelta politica. Negli anni ’60 del secolo scorso, infatti, l’Italia pose il problema: la scuola non può che essere uno dei luoghi dove si costruisce l’Europa unita. Ma la proposta non superò le resistenza di Francia e Germania, gelose dei loro sistemi nazionali di formazione.

Così anche se oggi ben due dei cinque “progetti bandiera” che definiscono la “Strategia Europa 2020” che l’Unione si è data per rilanciare l’economia del Vecchio Continente e combattere la disoccupazione giovanile riguardano la formazione – raggiungere il 40% di laureati tra i giovani tra 25 e 34 anni; ridurre a meno del 10% l’abbandono scolastico nelle medie superiori – non possiamo parlare di vera convergenza nel campo della formazione, neppure in prospettiva. Ci sono, al più, alcuni obiettivi comuni.

Cosicché oggi nell’Unione Europea sono presenti – e lo saranno a lungo – 28 diversi sistemi di educazione primaria e secondaria.
Ma torniamo al nostro problema iniziale, che è quello del rapporto tra educazione secondaria e lavoro giovanile. Ebbene, da questo punto di vista i 28 sistemi scolastici europei possono essere divisi in due grandi tipologie. I sistemi ILM (Istitutional Labour Market), in cui la formazione avviene tutta a scuola ed è disaccoppiata dal mondo del lavoro, e i sistemi OLM (Occupational Labour Market), come quello tedesco, dove è prevista anche un tipo di formazione professionale altamente qualificata e riconosciuta dal mercato del lavoro. In realtà – come sostengono Christelle Garrouste e Massimo Loi indicano anche una terza tipologia, il “modello mediterraneo”, che vige in Italia, ma anche in Grecia o in Portogallo, che contiene elementi sia ILM che OLM e che, soprattutto, vede la famiglia fare da cuscinetto nella (lunga) transizione tra formazione e ingresso nel mondo del lavoro.

La differenza in termini di tasso di disoccupazione giovanile tra Germania e Italia è eclatante. Nel 2014 i giovani tedeschi senza lavoro erano il 7,2% del totale. Una percentuale,tra le più basse d’Europa e del mondo, non molto superiore a quella complessiva, pari al 5,3% della forza lavoro. Lo scorso anno in Italia la disoccupazione in generale ha toccato la soglia del 12,2%: poco meno del doppio di quella tedesca. Ma quella giovanile è risultata pari al 44,2%: tra le più alte d’Europa e più di sei volte superiore al tasso di disoccupazione giovanile tedesco.
Perché in Italia i giovani hanno così tanta difficoltà a trovare lavoro e in Germania no?

La domanda non ammette risposte semplici. Ma è certo che la causa di questa specifica divergenza tra Germania e Italian non risiede solo nella diversa dinamica del sistema economico. La eclatante differenza tra disoccupazione totale e disoccupazione giovanile indica che, nel nostro paese, c’è una qualche causa (o un cluster di cause) strutturale e non contingente, assente in Germania, che impedisce ai giovani di entrare nel mondo del lavoro.
In questo cluster di cause, sulla cui composizione e natura non indagheremo, c’entra la scuola e, in particolare, la diversa struttura della scuola media superiore? E se sì, può il sistema scolastico della Germania proporsi come modello per l’Italia?

Anche queste domande non ammettono risposte semplici. Tuttavia conviene tentare un’analisi comparata dei due sistemi scolastici almeno per iniziare a cercarle, quelle risposte,perché la posta in gioco è il futuro dei nostri ragazzi (italiani, tedeschi e più in generale europei).
In Germania solo la Grundschule, la scuola elementare, è comprehensive, unitaria e uguale per tutti. Dura in genere (dipende dai Länder) 4 anni e la si frequenta tra i 6 e i 9 anni di età. Al termine non si deve superare alcun esame, ma si è indirizzati verso una delle tre tipologie di scuola media: la Hauptschule-Berufschule, la Realschule o il Gymnasium.

1. La Hauptschule dura 5 anni, fornisce anche un apprendimento di tipo teorico, ma il suo obiettivo è di far acquisire agli studenti della capacità di tipo pratico da spendere in futuro sul mercato del lavoro. Al termine degli studi, intorno ai 14 o 15 anni, è previsto l’apprendistato (Lehre) presso industrie, botteghe artigiane o altri tipi di imprese. Dopodiché ci si iscrive allaBerufschule (scuolaprofessionale) o alla Beruffachschule (scuola professionale specializzata) che durano tre anni e prevedono due giorni la settimana lezioni in classe e negli altri giorni il lavoro (retribuito, anche se non moltissimo, ma con regolare contratto) presso le imprese. Alla fine di questo percorso formativo “duale” si riceve un diploma: di “operaio specializzato” se si è lavorato presso un’industria,di “lavorante artigiano” se si è lavorato presso la bottega di un artigianato, di “assistente commerciale” se si è lavorato in un’azienda dedita al commercio.

2. Una seconda tipologia di scuola media è la Realschule, che dura 6 anni, è sempre a carattere “duale”, nel senso che il suo obiettivo è formare a una professione, ma fornisce un apprendimento teorico più approfondito. È obbligatoria, per esempio, una seconda lingua straniera. Alla fine si consegue un diploma, il “Mittlere Reife”, dopodiché si accede alla Fachoberschule, che fornisce una più elevata qualificazione professionale, aprendo lo studente a una carriera immediata di tipo dirigenziale, quanto meno da quadro intermedio.

3. C’è infine il Gymnasium, chein alcuni Land dura otto e in altri nove. È molto simile al nostro percorso liceale, ce ne sono di vari tipi, ma tutti hanno almeno sei materie in comune: tedesco, matematica, scienze naturali, storia e due linguestraniere. Alla fine si sostiene un esame di maturità. Il diploma ginnasiale è l’unico che abilita alla frequentazione dell’università.

Ai tre tipi di scuole si accede, su indicazioni non delle famiglie ma degli insegnanti delle elementari. Anche se nei primi due anni dopo la Grundschule è ancora possibile cambiare tipo di scuola, superando appositi test o sulla base del rendimento scolastico. Per esempio, un ragazzo iscritto alla Hauptschule può passare al Gymnasium, ma solo se ha ottimi voti. Quanto agli esami delle scuole professionalizzanti vengono svolti nelle camere di commercio, da commissioni composte quasi per intero da rappresentanti delle imprese. I due terzi e anche più dei ragazzi che si diplomano restano a lavorare presso l’azienda ove hanno svolto l’apprendistato. Il titolo viene riconosciuto, tuttavia, nell’ambito del mercato del lavoro. In questo modo il sistema produttivo tedesco prepara i tecnici di cui ha bisogno e i giovani hanno una transizione facile dalla scuola al lavoro.

In Italia non esiste il “sistema duale” (scuole e lavoro). Tutti i vari tipi di scuola media superiore, a carattere professionale o liceale, si concludono con un esame di maturità, superato il quale si può accedere a qualsiasi corso di laurea. Nessuno studente, tuttavia, ha un percorso facilitato di transizione dalla scuola al lavoro.

È questa la differenza che spiega il basso tasso, assoluto e relativo, di disoccupazione giovanile in Germania e, al contrario, l’alto tasso, assoluto e relativo, di disoccupazione giovanile in Italia?
Almeno in parte sì. Quello duale tedesco, imitato più o meno fedelmente in molti altri paesi, soprattutto del Nord Europa, si dimostra un buon sistema di transizione facile scuola-lavoro. È questo il modello su cui convergere in Europa o, almeno, è questo un modello esportabile in Italia?

Ancora una volta non è semplice rispondere. Il sistema tedesco offre sicurezzaa scapito della libertà. E non è banale decidere quale delle due dimensioni – la sicurezza collettiva (per il paese, che sa di poter disporre di lavoratori qualificati) e individuale, la sicurezza per ogni studente di avere un posto di lavoro pressoché certo e ben remunerato alla fine del percorso di formazione) e la libertà individuale di cambiare in ogni momento i propri interessi culturali – debba prevalere. Certo è discutibile che la scelta tra progetto professionale e percorso universitario debba avvenire tra i 10 e i 12 anni, quando i ragazzi non hanno ancora raggiunto una sufficiente maturità. Vero è che, entro certi limiti, è possibile ritornare sulle proprie decisioni. Ma è anche vero che questi limiti sono molto rigidi. In un “sistema duale” ideale sarebbe opportuno, probabilmente, spostare l’età della scelta decisiva più avanti, intorno ai 16 anni.

Ma, al netto di questa critica, ci sono due differenze strutturali che rendono difficile importare in Italia il modello tedesco. Una differenzaè stata messa bene in evidenza Gabriele Ballarino e Daniele Checchi, dell’università di Milano, in un saggio di qualche anno fa. Il “sistema duale” tedesco è stato riformato all’inizio degli anni 2000 ed è coerente con la cosiddetta Deutschland AG, che prevede sia una forte cooperazione tra governo e forze sociali tedesche sia una chiara scelta di politica economica: fare della Germania il paese leader al mondo nella produzione di beni e servizi ad alta tecnologia. Ballarino e Checchi definiscono “cogestione e credenzialismo” il metodo che crea un rapporto di fiducia e di reciproco riconoscimento tra scuola, imprese e lavoratori.

La Deutschland AG – una nazione che fa sistema e agisce come una S.p.A. – è un “modello paese” diverso da quello italiano e non facilmente esportabile. La scuola ne è parte. Ma il tema la trascende (quasi) completamente.
Un’altra differenza tra Italia e Germania che rende il “sistema duale” della scuola difficile da implementare da noi risiede nella diversa specializzazione produttiva dei due paesi. Si, infatti, Germania e Italia sono le due massime economie manifatturiere dell’Europa – e due tra le maggiori del mondo – la loro vocazione è affatto diversa.

La Germania ha un’antica vocazione , riconfermata negli anni ’90 del secolo scorso on scelte di politica economica precise e coerenti, per la produzione di beni e servizi ad alto tasso di conoscenza aggiunto. Le sue industrie e, più in generale, le sue imprese chiedono personale altamente qualificato e lo remunerano con stipendi relativamente alto. Il “sistema duale” assicura la formazione di questo personale con qualifiche alte. L’Italia, invece, ha una vocazione, altrettanto antica, riconfermata con scelte non sempre lucide e non sempre coerenti negli anni ’60 del secolo scorso, per le produzioni di beni a media e bassa tecnologia e per servizi a non elevato tasso di conoscenza. Si è detto che l’Italia, a differenza degli altri paesi avanzati e ora di molti paesi a economi emergente, segue da oltre mezzo secolo un percorso di “sviluppo senza ricerca” e, aggiungiamo noi, senza “alta formazione”. Di conseguenza le imprese non cercano – non con la stessa frequenza delle tedesche – personale altamente qualificato. Scuola e mondo del lavoro sono, così, fortemente – e, potremmo dire, necessariamente – scorrelati. E, probabilmente, non è un caso se i ragazzi italiani che frequentano il liceo (nelle sue diverse forme) risultano nei testi PISA mediamente bravi quanto i loro coetanei tedeschi e in genere europei, mentre quelli che frequentano le nostre scuole professionali (scollegate dalle imprese) risultano mediamente meno bravi dei coetanei tedeschi e in genere europei.

Si può (si deve) discutere in altra sede se, nell’era della conoscenza e della nuova globalizzazione, il modello di “sviluppo senza ricerca e alta formazione” sia ancora sostenibile per il nostro paese. Intanto possiamo dire che, allo stato attuale, il “sistema duale” tedesco non può rappresentare un modello valido e realistico per la scuola italiana. Il che non esime certo né la scuola né il mondo del lavoro di porsi il problema dell’altissima disoccupazione giovanile in Italia e trovare, insieme, una soluzione efficace.