Goethe, duecento anni dopo

Il viaggio a Napoli

Duecento anni fa, nel 1816, Johann Wolfgang von Goethe pubblicò il primo dei due volumi che contenevano il “resoconto” del suo lungo Viaggio in Italia cominciato il 3 settembre 1786 e terminato il 18 giugno 1788. Dopo essere stato a Venezia, Firenze, Roma, il 25 febbraio del 1787 entrò a Napoli e vi stette un mese: “Che cosa sono state queste quattro settimane, di fronte all’immensità della vita!” Poi, dopo essere stato in Sicilia («Sai tu la terra dove fioriscono i limoni?”) vi ritornò il 13 maggio e vi stette sino al 2 giugno.

L’occasione di questa ricorrenza può esser tale da ricordare che sono stati moltissimi i viaggiatori del Grand Tour a far tappa a Napoli decantandone le bellezze (molti), le stranezze della popolazione (altri).

L’immagine forse più accattivante l’attribuirei allo storico tedesco Gregorovius che 150 anni fa ha scritto: “Avvolgendo con lo sguardo questo mare e questa terra si capisce che colui che vi fu un tempo regnante preferiva la morte alla perdita di questo suo reame, come fu il caso degli Svevi, degli Aragonesi e di Gioacchino Murat. In un luogo simile, l’Imperatore Federico II potrebbe aver esclamato un tempo: «Jehovah avrebbe meno lodato la Terra Promessa al suo Mosé se avesse visto Napoli»”. Mentre fra quelle rappresentative di una tendenza opposta ricorderei il letterato francese, barone Augustin-François Creuzé de Lesser (sulla cui intelligenza ed equanimità Gino Doria¹ ha espresso qualche perplessità) il quale prima di Gregorovius aveva scritto “Questa Napoli così vantata non ha di bello se non ciò che non é suo…Niente. Niente mi rimane più nella memoria…Più si vede Napoli, e più si è disgustati delle frasi e di coloro che le fanno”.

Ma non solo Napoli città, era soprattutto il Vesuvio un forte motivo di attrazione. Il Vesuvio che è l’icona di Napoli.
Icona è termine che indica una raffigurazione sacra dipinta su tavola, prodotto dalla cultura bizantina e slava. Ma Icona è anche l’insieme di cartelle e documenti sulla scrivania del computer, ma soprattutto, ai nostri fini, si può intendere (Treccani) come “Figura o personaggio emblematici di un’epoca, di un genere, di un ambiente: Marylin Monroe è l’icona della femminilità”.

Ecco: il Vesuvio è l’icona di Napoli, della sua femminilità. Perché Napoli è femmina come femmina era la sirena Parthenope che pare fosse la più bella sirena del golfo, sepolta secondo la leggenda nel luogo in cui oggi sorge Castel dell’Ovo.

Morta Parthenope? In realtà, come ha scritto Matilde Serao, « Parthenope non è morta, Parthenope non ha tomba, Ella vive, splendida giovane e bella, da cinquemila anni; corre sui poggi, sulla spiaggia. E’ lei che rende la nostra città ebbra di luce e folle di colori, è lei che fa brillare le stelle nelle notti serene (…) quando vediamo comparire un’ombra bianca allacciata ad un’altra ombra, è lei col suo amante, quando sentiamo nell’aria un suono di parole innamorate è la sua voce che le pronunzia, quando un rumore di baci indistinto, sommesso, ci fa trasalire, sono i baci suoi, quando un fruscio di abiti ci fa fremere è il suo peplo che striscia sull’arena, è lei che fa contorcere di passione, languire ed impallidire d’amore la città. Parthenope, la vergine, la donna, non muore, non muore, non ha tomba, è immortale …è l’amore. »

Dunque Napoli è femmina e sarebbe manifestazione di buona creanza non chiederle l’età, ma sappiamo che è abbastanza avanti negli anni che sono circa 3.000 e non nasce dal Vesuvio che di anni ne ha circa 400.000. Anzi, se proprio se ne vogliono trovare le origini in un vulcano, possiamo dire che Napoli nasce dai Campi Flegrei dal momento che è da Cuma che i Greci nell’VIII secolo a.C. vennero a fondare la prima città tra la collina di Pizzofalcone e l’isolotto di Megaride sul quale si trova il Castel dell’ovo.
Tuttavia anche se non nasce dalle sue infocate viscere Napoli è il Vesuvio e il Vesuvio è Napoli. Tanto che non v’è quasi viaggiatore di quelli che inserivano Napoli nelle mete del Grand Tour che non abbia inserito anche una salita al Vesuvio. Per studio o per curiosità. Quella del Vesuvio è una storia di eruzioni, di lunghe pause e di riprese anche violente che hanno anche profondamente mutato l’originario stato dei luoghi: vicini e lontani.

 

Il Vesuvio, soprattutto
Per l’esattezza diciamo Vesuvio ma più correttamente si deve parlare di Complesso Vulcanico Somma-Vesuvio e bisogna anche sapere che il Somma è la madre del Vesuvio che sorge all’interno di una parziale caldera di circa 4 km di diametro, la quale è la parte restante del precedente edificio vulcanico (il Monte Somma, appunto) dopo la grande eruzione del 79 d. C. che ne determinò il crollo del fianco sud in corrispondenza del quale si sarebbe formato il cono attuale col suo cratere.
Quello che si vede nel paesaggio che oggi osserviamo col Vesuvio è il risultato di grandi sconvolgimenti geologici che hanno interessato la Piana Campana a partire da alcuni milioni di anni fa. Tra gli effetti di questi eventi c’è la nascita del vulcano, che, come dicevo, si fa risalire a circa 400.000 anni fa.

Come avviene in gran parte delle aree vulcaniche della Terra l’area sulla quale incombe il vulcano è molto popolosa perché la fertilità delle terre derivante dai depositi vulcanici ne determina non solo la colonizzazione, ma anche i ritorni dopo le eruzioni. Nel caso del Vesuvio la colonizzazione dell’area risale a poco meno di duemila anni fa quando i Greci e poi i Romani stabilirono le prime colonie alle falde del Vesuvio. Solo dopo la catastrofica eruzione del 79 d C le colonie romane stabilitesi tra Pompei, Ercolano, Stabia ed Oplonti furono costrette ad abbandonare il Vesuvio. A quella seguì nel 472 d.C. un’altra eruzione esplosiva di grande energia e l’area rimase sostanzialmente disabitata per qualche centinaio di anni. Poi, comunque, specialmente tra la violenta eruzione del 1631 e l’ultima del 1944 il ripopolamento è avvenuto con abitazioni generalmente a debita distanza dal cratere.

Dal dopoguerra è iniziata una rapida crescita demografica anche alle falde del vulcano; la popolazione residente nel 1951 è più che raddoppiata e, soprattutto, è triplicato il numero degli edifici espandendo a dismisura la cementificazione in tutta l’area vesuviana.
Eppure il Vesuvio viene anche generalmente –magari troppo generalmente- associato subito a Pompei ed Ercolano sepolte dall’esplosione del 79 d C. Esplosione perché le eruzioni del Vesuvio non sono solo di tipo effusivo cioè con emissione di lava come accade prevalentemente per l’Etna, ma soprattutto di tipo esplosivo. Caratteristica che ne fa uno dei più pericolosi della Terra. Perché esplosiva sarà quella che vi sarà quando il Vesuvio deciderà di uscire dal sonno che ne caratterizza l’attuale stato di quiescenza. Perché dorme, il Vesuvio, ma è un vulcano attivo.

E non dorme il sonno dei giusti perchè come lo ha definito Fucini è “il grande delinquente dalle bellissime forme che tutti ammirano perché è feroce, che tutti amano perché è bello” è, dunque, un grande delinquente o, se si preferisce, è “lo sterminator Vesevo” come lo definisce Giacomo Leopardi rivolgendosi alla ginestra che è a sua volta un’icona del paesaggio vesuviano, e ricordando che
« Qui su l’arida schiena
Del formidabil monte
Sterminator Vesevo,
La qual null’altro allegra arbor nè fiore,
Tuoi cespi solitari intorno spargi,
Odorata ginestra »

Sono richiami alla pericolosità che troviamo anche nei versi della poetessa Emily Dickinson (Amherst, 10 dicembre 1830 – Amherst, 15 maggio 1886) la quale definì il Vesuvio un “terremoto quieto” e si trovano versi che lo riguardano in vari frammenti. Tra cui:
Vulcani ci sono in Sicilia
E in Sud America
A giudicare dalla mia Geografia
Vulcani più vicini qui
Un gradino di Lava in ogni momento
Sono propensa a scalare
Un Cratere posso contemplare
Vesuvio in Casa

Ma, mi sembrano particolarmente significativi questi:

“quando l’Etna si scalda e fa le fusa
Napoli ha più paura
di quando mostra i suoi denti granati-
la sicurezza fa chiasso”

è chiaro che confonde il Vesuvio con l’Etna, ma ciò che importa è il messaggio che ci dice: ossia che quando un vulcano dorme l’eruzione può sorprenderci anche improvvisamente; se, invece eruttasse saremmo sulla difensiva…Così, in genere, i rischi sono più pericolosi se imprevisti, e la sicurezza, dipende dal chiasso, cioè dall’informazione.
Ma da un’informazione che abbia come obiettivo la sicurezza degli informati non il vantaggio degli informatori come è il caso dell’abate Ferdinando Galiani che pubblicò a Napoli un gustoso volumetto dal titolo Spaventosissima descrizione dello spaventoso spavento che ci spaventò tutti coll’eruzione del Vesuvio la sera delli otto d’agosto del corrente anno (1779). Ma (per grazia di Dio) durò poco. In questo librettino l’abate descriveva l’eruzione del 1779 e concludeva scrivendo: “Per non restare con scrupolo alla coscienza devo nel concludere confessare il mio peccato e colle lagrime agli occhi cercarne perdono alli miei cari benefattori e lettori. Io ho messo nel titolo dell’opera che questa eruzione fu spaventosissima, e non è vero niente affatto. Nelli paesi attorno alla montagna le genti fuggirono non per quello che era stato, ma per paura di quello che poteva venire. A Napoli poi nessuno ebbe spavento, né del passato, né del presente, né del futuro: e veramente la cosa non lo meritava. Ma io l’ho fatto per dar concetto al mio libro, movere la curiosità, e così venderne più; e non sono stato solo a far così, perché gli altri pure hanno detto mirabilia di questa eruzione, ma in coscienza da sacerdote indegno che sono, per la verità l’eruzione fu poca cosa, e chi si ricorda quella del 1737 dirà che c’è la differenza, che c’è tra una cannonata e uno stronzillo di polvere sparato incoppa a un astrico..”.

Perciò se la storia del Vesuvio è strettamente legata al ricordo di esplosioni e distruzioni da parte di quello che Renato Fucini definì “il grande delinquente” questa caratteristica non devono dimenticarla i cittadini e tanto meno gli amministratori. Ma devono anche dare il peso che realisticamente merita il seguito dell’affermazione di Fucini e cioè che è “il grande delinquente dalle bellissime forme che tutti ammirano perché é feroce, che tutti amano perché é bello”.
Ed è bello il Vesuvio. Ed è ricco di bellezze. Non è solo uguale ad eruzioni e disastri per molte delle quali non ha particolari responsabilità.

Non è solo questo. È anche un dispensatore di fertilità e qui nascono prodotti di eccezionale valore e sapore perché questa è una terra di fuoco ma non ha a che vedere con quella battezzata “terra dei fuochi”. E non è certamente per caso che albicocca, pomodorini, la susina turcona, i friarielli, il vitigno piedirosso, tanto per citare solo i più famosi prodotti della terra hanno il marchio di qualità sancito dalle denominazioni di origine rigorosamente controllate.
Né basta perché per motivi generalmente sconosciuti e trascurati l’area vesuviana, Somma vesuviana in modo particolare, è l’area della maggiore importazione e trasformazione del baccalà norvegese ed islandese.
Insomma è un patrimonio di biodiversità animale, vegetale, culturale che va rispettata e tutelata in tutti i modi. Ed è anche per questo motivo che il 5 giugno del 1995 è stato eretto a Parco nazionale che, con i suoi 8.482 ettari, è tra i più piccoli d’Italia.

D’altra parte non si deve assolutamente trascurare che siamo pur sempre in presenza di un vulcano pericoloso. Tuttavia poichè “la sicurezza fa chiasso” prima di cadere nella disperazione è importante avvicinarsi al problema nel modo più realistico e meno catastrofista possibile. E vedere se ci sono e quali sono le possibilità di prevenzione dei danni alle persone.
Dopo il 79 d. C. quando cioè si è cominciato a rendersi conto che “a muntagna” era anche un pericoloso vulcano e del rischio che era derivato e poteva continuare a derivarne per una quantità crescete di popolazione, si sono cercati anche gli strumenti di prevenzione e salvezza.
L’Osservatorio vesuviano c’è solo dal 1841; la protezione civile dal 1982, allora, nelle epoche precedenti dove sperare di trovare un protettore se non nella fede e nella fede in quello che per eccellenza è stato il protettore di Napoli? San Gennaro la cui presenza data oltre 1700 anni.

E la preghiera a San Gennaro è stato il frequente ricorso dei napoletani. Lo aveva notato anche Goethe (1789) quando aveva scritto che i napoletani “vanno e vengono tutto il giorno in un paradiso… e quando la bocca dell’inferno loro vicino minaccia di montar sulle furie, ricorrono a San Gennaro e al suo sangue”.
Ancora oggi, “San Gennaro mio fa’ tu, nun ne pozzo proprio cchiù. La speranza é la mia fede, tutta sta riposta in te” é una delle giaculatorie che vengono recitate in occasione soprattutto delle ricorrenze di maggio e settembre durante le quali si verifica il miracolo dello scioglimento del sangue del Santo .
Ma è anche il modo con cui tradizionalmente il napoletano “di massa” si è posto di fronte alla paura e al pericolo. Anche di fronte al pericolo-Vesuvio come sta, tra l’altro ma molto emblematicamente a dimostrare la statua di San Gennaro che all’ingresso orientale di Napoli con la mano protesa verso il Vesuvio ferma l’avanzata della lava.

In realtà, almeno per chi ha fede, sino a pochi decenni fa non c’erano alternative. Oggi il discorso é potenzialmente diverso. Perché da anni ormai, la “cultura del rischio” si esercita nel modo migliore attraverso i filoni della previsione e della prevenzione di fenomeni naturali calamitosi nel tentativo di realizzare concretamente l’obiettivo della convivenza col rischio che é condizione necessaria, anche se non sufficiente, per realizzare una buona qualità della vita.
C’è, quindi, un rischio dovuto, però, soprattutto alla forte e cresciuta presenza umana che nei comuni esposti è più che raddoppiata dal dopoguerra ad oggi urbanizzando un’area che per motivi di valenza naturalistica e di pericolosità vulcanica andava ben diversamente tutelata.

Per far fronte ai grandi rischi connessi ad una possibile eruzione sin dal 1995 è stato redatto un piano nazionale d’emergenza che, con varie successive modifiche ed integrazioni, individua zone a diversa pericolosità, prevedendo azioni di soccorso e piani di evacuazione.
L’ultima nuova “zona rossa” è stata ampliata, nel 2015 comprendendo i territori di 24 Comuni e tre circoscrizioni del Comune di Napoli. Oltre ai 18 indicati già in zona rossa (Boscoreale, Boscotrecase, Cercola, Ercolano, Massa di Somma, Ottaviano, Pollena Trocchia, Pompei, Portici, Sant’Anastasia, San Giorgio a Cremano, San Sebastiano al Vesuvio, San Giuseppe Vesuviano, Somma Vesuviana, Terzigno, Torre Annunziata, Torre del Greco, Trecase), sono inserite nell’area di pericolosità le circoscrizioni di Barra, Ponticelli e San Giovanni a Teduccio del Comune di Napoli, i Comuni di Nola, Palma Campania, Poggiomarino, San Gennaro Vesuviano e Scafati, e l’enclave di Pomigliano d’Arco nel Comune di Sant’Anastasia.

¹G. Doria, Viaggiatori stranieri a Napoli, Napoli 1984, p.59