Carlo D’Angiò e Città della Scienza. Intervista a Enzo Lipardi

            Lo scorso 5 settembre è venuto a mancare Carlo D’Angiò, singolare figura di ingegnere e musicista, con una serie di interessi i più variegati. Come ingegnere, Carlo progettava automobili all’Alfa Romeo; come musicista ha fondato, tra l’altro, La Nuova Compagnia di Canto Popolare. Ma Carlo è stato anche uno dei fondatori della Fondazione IDIS e della Città della Scienza, partecipando fino all’ultimo alle sue attività nella prospettiva di proporre a Napoli un nuovo modello di sviluppo, avanzato e sostenibile, sia da un punto di vista sociale che ambientale.

Carlo era, dunque, un ricercatore che manifestava la sua ansia di nuova conoscenza in ogni settore – dall’ingegneria alla musica alla comunicazione della scienza – mostrando in ogni settore di essere un formidabile “generatore di creatività”.

Abbiamo chiesto a Enzo Lipardi, Amministratore delegato della Fondazione IDIS-Città della Scienza e da sempre amico di Carlo d’Angiò, di ricordarne la figura e di ricostruire la storia dei suoi rapporti con Città della Scienza.

 

Intellettuale a tutto tondo, Carlo D’Angiò è stato una figura di rilievo della cultura napoletana a partire dagli anni ’70 ma ha avuto anche un ruolo fondamentale nella storia della Fondazione IDIS e di Città della Scienza: ce ne vuoi brevemente parlare?
Carlo D’Angiò è stato una delle 5 persone che con e intorno Vittorio Silvestrini, ebbero l’idea di costruire un evento, una grande festa della Scienza, qui a Napoli, in occasione del congresso dei fisici italiani nel 1987. Silvestrini era uno dei fisici più noti del nostro Paese e dei più attivi a Napoli ed ebbe la responsabilità – con altri suoi colleghi – di organizzare il congresso della Società Italiana di Fisica nella nostra città. Voglio ricordare che c’era stato un illustre precedente: nell’ottocento era stato Macedonio Melloni a organizzare VII congresso degli scienziati italiani tenutosi a Napoli tra la fine di settembre e gli inizi di ottobre del 1845. C’era quindi anche questo elemento di recupero della memoria storica e Silvestrini decise di fare di questa occasione un grosso evento. Io allora lavoravo come direttore editoriale nella cooperativa editrice CUEN che si occupava, tra l’altro, di grandi eventi e comunicazione della Scienza e Silvestrini mi chiese di partecipare a questo gruppo che era composto da alcune personalità del mondo della cultura napoletano, tra cui Giulio Baffi e appunto Carlo D’Angiò, c’erano poi due giovani: il sociologo Luigi Caramiello e il sottoscritto.

In quell’occasione conobbi Carlo. Dopo una prima fase di discussione e elaborazione questo gruppo partorì l’idea di Futuro Remoto che si configurò da subito, anche con stupore quasi degli stessi che lo avevano ideato e organizzato, come una grande festa popolare della Scienza, che coniugava la divulgazione scientifica con le espressioni dell’arte e dello spettacolo.

Fin dalla prima edizione – di cui fui condirettore con Silvestrini –  Carlo fu prezioso motore creativo e organizzativo. Fu anche il primo direttore dell’associazione che allora costituimmo, un’associazione molto piccola senza dipendenti e senza risorse.

Ma Carlo era anche un valente ingegnere, lavorava all’Alfa Romeo, e dopo un po’ decise di proseguire il suo primo percorso professionale, continuando a dare il suo supporto alle iniziative che mettevamo in campo e che si consolidarono ancor di più agli inzi degli anni ’90 con il riconoscimento giuridico della Fondazione IDIS di cui Carlo fu socio fondatore e, come si direbbe oggi, tra i principali startupper.

Non ha mai fatto mancare il suo sostegno, pure nei momenti più difficili della storia di Città della Scienza, anche attraverso le sue eccezionali capacità artistiche.

 

D’Angiò era un artista: musicista e autore ma, come hai ricordato, anche un ingegnere particolarmente sensibile ai temi della scienza e dell’innovazione. Come si coniugano questi due aspetti nella storia di Città della Scienza?
Da questo punto di vista c’è un fil rouge che intreccia i percorsi culturali, e anche di impegno politico e sociale, di Carlo con la vicenda di Città della Scienza. Noi siamo un intellettuale collettivo che lavora per una società democratica della conoscenza con strumenti che abbracciano le variegate forme dell’espressività e creatività umana; e quindi da subito – anche grazie alla sensibilità di figure come Carlo e dello stesso Vittorio Silvestrini – l’arte e la sua interazione con la scienza e la società hanno avuto una funzione centrale nelle nostre attività. D’altro canto Carlo era un ricercatore in campo musicale, uno sperimentatore di nuove vie e nuovi orizzonti, senza perdere mai di vista la forza della memoria e della storia, Su questo versante il rapporto con Carlo è stato costante come la sua partecipazione alle nostre vicende, sia nell’Assemblea dei soci – in cui ha svolto un’ importante funzione di indirizzo – che nelle attività di Città della Scienza che pian piano è cresciuta fino a diventare il più grande parco scientifico e tecnologico italiano, con questa peculiarità: avere un Science Centre, un luogo di sperimentazione scientifica ed artistica della cultura europea. Del resto una delle cose che Carlo ci ha trasmesso è l’amore per le tradizioni: noi abbiamo sempre cercato di coniugare Memoria, Storia e Innovazione. Carlo lo ha fatto con la sua ricchissima esperienza in campo artistico con la Nuova Compagnia di Canto Popolare, con Musica Nova e oggi con l’incontro con Raiz e gli Almamegretta: l’incontro di generi diversi che si arricchiscono reciprocamente delle proprie differenze sperimentando il nuovo. Ecco, la curiosità di Carlo, la sua voglia di conoscenza sono il tratto in comune con Città della Scienza

 

D’Angiò è stato tra i protagonisti di una stagione particolare, di grandi speranze di riscatto anche per la città. Qual è il tuo ricordo di quegli anni?
Io non sono un musicista, però ricordo che Carlo D’Angiò, in particolare con Eugenio Bennato e lo stesso Edoardo Bennato, erano parte di quella generazione di musicisti che avevano fatto della musica anche un messaggio politico-culturale, un messaggio attento alla tradizione ma anche alle giovani generazioni. Voglio ricordare che in quegli anni la “meglio gioventù” era quella che si ribellava ad un sistema che è difficile forse guardare con gli occhi di oggi: l’Italia negli anni ’70 e ’80 era comunque un Paese ancora arretrato che appena cominciava ad aprirsi ai diritti civili. Da questo punto di vista la loro musica e la loro ricerca incrociava un mondo in cui i giovani chiedevano nuove libertà, nuovi diritti e anche nuove prospettive di partecipazione sociale. Oggi è difficile comprenderlo perché nella vulgata culturale corrente un giovane di valore è quello che magari va alla Bocconi di Milano, ma in quegli anni un giovane di valore era quello che poneva il tema della libertà ma anche delle competenze, non a caso l’Italia ha sfornato tanti giovani di valore che sono anche in giro per il mondo. Insomma l’aspetto dell’impegno sociale, il “noi”, prevaleva sull’”io”, sull’individualismo.

 

Cosa resta oggi di tutto questo e qual è il lascito di Carlo D’Angiò?
Come dicevo il mondo è cambiato ma credo che anche le ultime esperienze di Carlo, il suo interesse – direi curiosità – verso i giovani e le musiche diciamo alternative – penso, ripeto a questa sua esperienza con gli Almamegretta e il canto a due voci con Raiz – siano un messaggio per le nuove generazioni: la voglia di scoperta del nuovo e di utilizzare la musica come strumento non solo per riscoprire e preservare tradizioni e melodie del passato, ma anche come ricerca di nuove vie. E da questo punto di vista resta intatto il messaggio di ribellione allo stato presente dei fatti e di ricerca di un migliore equilibrio in cui i cittadini abbiano più libertà e maggiore consapevolezza. E’ un messaggio di speranza. Lo è per i figli ed i suoi cari, lo è per tutti noi e per tutta la comunità nazionale.