Contenuti e contenitori: le nuove frontiere del packaging

La società civile pone oggi particolare attenzione al tema della sostenibilità ambientale. In quest’ottica, la necessità di progettare e sviluppare imballaggi sostenibili rappresenta un’esigenza sempre più sentita e incoraggiata, al fine di creare “un mondo in cui gli imballaggi siano disegnati per essere efficaci e sicuri durante il loro ciclo di vita, soddisfino le esigenze del mercato in termini di costi e prestazioni, siano realizzati interamente utilizzando energie rinnovabili e, una volta usati, siano riciclati/riutilizzati in maniera efficiente in modo da fornire valide risorse per le generazioni future”.
Per sviluppare imballaggi sostenibili è importante riuscire a seguire alcune precise linee guida quali:
– il rispetto delle funzioni primarie di contenimento, protezione e conservazione del prodotto, garantendo una totale trasparenza riguardo il ciclo di vita del prodotto e del suo imballo;
– l’utilizzo della minor quantità possibile di materiale senza ridurre la funzionalità e l’adempimento delle sue funzioni;
– il rispetto dei principali requisiti di qualità previsti dalla legislazione tenendosi costantemente aggiornamenti sugli eventuali cambiamenti normativi.

In risposta a tali esigenze, l’interesse degli scienziati e del mondo industriale ruota principalmente intorno allo sviluppo di materiali ecosostenibili a elevate prestazioni e materiali smart, con una particolare attenzione verso l’utilizzo di nuove tecnologie, delle nanotecnologie e di matrici polimeriche degradabili naturali o di sintesi. In questo scenario, le ricerche e le innovazioni nel settore del food packaging possono essere raggruppate in cinque macro-linee di ricerca, di seguito elencate e brevemente analizzate in dettaglio:
– polimeri biodegradabili e biopolimeri;
– nanocompositi e bio-nanocompositi per l’ottenimento di materiali a elevate prestazioni;
– materiali attivi per il prolungamento della shelf-life di alimenti confezionati;
– materiali intelligenti per il monitoraggio e la tracciabilità di alimenti confezionati;
– materiali adatti ad essere utilizzati con tecnologie emergenti quali le radiazioni ionizzanti.

 

Polimeri biodegradabili e biopolimeri
Attualmente, nel settore degli imballaggi vengono impiegati soprattutto polimeri ottenuti da derivati del petrolio. Attraverso processi petrolchimici di cracking si rompono le lunghe catene degli idrocarburi e si ottengono molecole a basso peso molecolare necessarie all’industria della plastica. Numerosi sono i vantaggi che gli imballaggi di plastica offrono: sono resistenti, leggeri, sono buoni isolanti termici ed elettrici, si deteriorano molto lentamente, sono resistenti ad agenti chimici, sia acidi che basici, e soprattutto, rispetto ad altri materiali come vetro o metallo, sono decisamente economici da produrre. Una bottiglia di PET (polietilene) costa all’industria assai meno di una bottiglia di vetro o una lattina di alluminio. È comprensibile quindi che la produzione di imballaggi plastici assorba circa il 45% delle materie plastiche, che a loro volta assorbono circa il 4% di tutto il petrolio estratto. Ogni anno circa 270 milioni di tonnellate di greggio pari al 4% della produzione mondiale viene trasformata in plastica. Ma nella prospettiva di una crescita mondiale dei consumi a fronte di un’origine da fonti non rinnovabili, l’industria della plastica e i ricercatori guardano con attenzione a nuovi sistemi per produrre polimeri di origine non petrolchimica, sia biodegradabili che non biodegradabili. In particolare, i polimeri biodegradabili ottenuti da fonti rinnovabili sono stati introdotti in commercio verso gli anni Ottanta, con qualche difficoltà sia nel controllo della velocità di degradazione sia nel quadro anche normativo.
I polimeri che derivano da fonti naturali possono essere raggruppati in diverse categorie:
– Polimeri estratti come tali dalle biomasse. In natura, questi biopolimeri hanno svariate funzioni: tra i polisaccaridi di origine vegetale terrestre possiamo ricordare la cellulosa, l’amido, le pectine e la gomma arabica. Di origine marina sono, invece, i carragenani e l’agar, prodotti dalle alghe rosse (Rodoficee), e gli alginati dalle alghe brune (Feoficee). Polisaccaridi di origine microbica sono il gellano, il destrano, lo xantano e lo scleroglucano, mentre sono di origine animale i notissimi chitosano e glicogeno.
– Polimeri sintetici quali l’acido polilattico (PLA), ottenuti dall’acido lattico ricavato per fermentazione dall’amido di mais.
– Polimeri prodotti da microrganismi come i poliidrossialcanoati (PHA o derivati).
Il consumo di polimeri biodegradabili in Europa, seppure in crescita, è però limitato e si attesta intorno alle 30-35 mila tonnellate annue. Osservando lo scenario europeo si può notare come il mercato dei biopolimeri sembra essere ben sviluppato nel Regno Unito, dove grosse catene di supermercati utilizzano imballaggi biodegradabili soprattutto per prodotti biologici, in Scandinavia e anche nel centro Europa (Olanda e Germania). Recentemente, in Italia è stata emanata una direttiva sugli imballaggi per shoppers monouso che ha proibito l’impiego di plastiche non biodegradabili e compostabili per questa categoria merceologica, mentre già da tempo il rifiuto organico domestico deve essere conferito in sacchetti biodegradabili e compostabili di carta o di plastica. Questo da una parte ha favorito l’incremento di consumo di bioplastiche, dall’altro ha incentivato l’impiego di borse riutilizzabili.
In Italia si trovano sul mercato due tipi di plastiche biodegradabili, ottenute a partire dall’amido di mais, di patate o di grano. Uno è il Mater-Bi, costituito da amido allo stato naturale, opportunamente trattato e mischiato (in proporzione del 50-60%) con altri polimeri e additivi sintetici derivati essenzialmente dal petrolio, ma con legami chimici che rendono le molecole biodegradabili. L’altro, sono dei polimeri dell’acido lattico (PLA), una molecola che si ottiene dalla fermentazione degli amidi. Con questi materiali vengono prodotti sacchetti, piatti e bicchieri usa-e-getta, pacchi per l’imballaggio alimentare, imballaggi per surgelati (data l’ottima resistenza e durata alle basse temperature).
Il Mater-Bi ha una produzione di circa 60.000 tonnellate l’anno. Il PLA è prodotto in quantità paragonabili.
Il Mater Bi è un materiale completamente biodegradabile che deriva dall’amido di mais, adatto ad essere utilizzato con i rifiuti organici per produrre compost, ed è certificato dal marchio “OK compost” che garantisce la conformità alle norme europee per il packaging biodegradabile emanate nel 2001 (direttiva EN 13432).
Lo scenario italiano mette in evidenza il dato relativo all’utilizzo di questi polimeri biodegradabili (Mater-Bi e PLA) in alcune catene di supermercati. Alcuni esempi di prodotti realizzati con questo materiale sono gli shopper, le vaschette termoformate per alimenti quali frutta, verdura, carne.
Come è ovvio alcune plastiche biodegradabili potrebbero presentare delle incompatibilità, ovvero non essere adatte all’imballaggio di alcuni alimenti, specie se utilizzate a diretto contatto con essi, ma e prevedibile il loro utilizzo più in generale nel confezionamento (cioè come involucro esterno) di prodotti alimentari.
L’alternativa al sacchetto di plastica sembra dunque disponibile. Il problema che maggiormente ostacola la sua diffusione è per ora il prezzo, decisamente maggiore rispetto ai sacchetti in polietilene. Ma se nel prezzo di questi ultimi venisse conteggiato anche il loro effettivo costo di smaltimento la differenza non sarebbe cosi significativa. Il futuro del mercato dei polimeri biodegradabili dipenderà sia dalle politiche di sviluppo che verranno attuate sia dall’importanza che i consumatori daranno ai prodotti ecocompatibili. Negli ultimi anni l’interesse della Grande Distribuzione Organizzata verso questo tipo di prodotti è diventato sempre più forte e proprio in relazione a quest’ultima affermazione sembra auspicabile un aumento dei quantitativi in gioco.
Al CNR sono in corso studi per verificare l’efficacia dell’utilizzo di film biodegradabili per il confezionamento di prodotti freschi. I polimeri biodegradabili comunemente utilizzati, infatti, hanno valori di permeabilità ai gas non adatti al confezionamento di prodotti freschi, in quanto non consentono un sufficiente scambio di gas tale da prevenire condizioni anossiche. Per superare questa lacuna, è stata utilizzata la tecnologia di micro-perforazione laser, che consente di produrre micro-pori sulla superficie dei film polimerici da utilizzare per l’imballaggio in modo da ottenere caratteristiche di permeabilità idonee per il confezionamento di prodotti ortofrutticoli freschi. Mettiamo a confronto i frutti confezionati con il film in OPP (orientated polypropylene) con quelli confezionati in PLA: i film in PLA, grazie alla elevata permeabilità al vapore acqueo, omogenea su tutta la superficie del package, hanno consentito di ridurre il deterioramento dei frutti di entrambe le cultivar di pesca mantenute in condizioni simulate di mercato, evidenziando le potenzialità del PLA come materiale biodegradabile per il confezionamento in atmosfera modificata di prodotti ortofrutticoli freschi.

 

Nanocompositi e bionanocompositi
In generale, nella realizzazione di un sistema di imballaggio è necessario individuare quali sono i meccanismi degradativi del prodotto alimentare in modo da poter scegliere e/o progettare il materiale più idoneo per il confezionamento. Esso dovrà infatti agire, in maniera passiva o attiva, sulla causa responsabile della degradazione dell’alimento stesso o monitorarne la provenienza e lo stato di conservazione.
I materiali a elevata barriera sono quelli che, in maniera passiva, impediscono l’ingresso dell’ossigeno, del vapor d’acqua e della luce e la fuoriuscita di aromi dalla confezione evitando quindi l’ossidazione, l’irrancidimento e la perdita di fragranza del prodotto.
Attualmente le confezioni a elevata barriera sono realizzate con materiali multistrato poliaccoppiati, generalmente costituiti da uno strato centrale di polimero ad elevatissima barriera (in alcuni casi rappresentato da uno strato di alluminio). Le principali tecniche impiegate per produrre materiali sottili multistrato sono la coestrusione e la laminazione.
La prima consiste nell’impiego di due o più estrusori diversi che si riuniscono in un’unica trafila dalla quale esce il materiale composito. La coestrusione determina forze di legame elevate tra i differenti strati, ma non tutte le materie plastiche possono essere coestruse insieme perché deve esistere affinità chimica tra i polimeri per garantire l’adesione.
L’operazione fondamentale della laminazione è l’adesione degli strati con adesivi di varia natura che vengono deposti sui singoli materiali con modalità differenti. Le tecniche di laminazione sono molto versatili, permettendo di combinare insieme i materiali più diversi e di controllare accuratamente gli spessori di ogni singolo strato. Allo scopo di ridurre o eliminare processi costosi quali la laminazione e l’accoppiamento di film flessibili, le attività di ricerca si sono focalizzate ormai da tempo sullo sviluppo di materiali barriera ottenuti additivando particelle di dimensioni nanometriche alla matrice polimerica di partenza. L’inclusione di rinforzi nanostrutturati in polimeri termoplastici, utilizzati come film flessibili, come adesivi tra strati di film flessibili o come contenitori per bevande, può consentire infatti di ottenere materiali caratterizzati da ottime proprietà barriera, resistenza al flavorscalping, proprietà termiche e meccaniche, stabilita termodimensionale, trasparenza, facile processabilità e riciclabilità. Per quanto riguarda le proprietà barriera, per esempio, la drastica diminuzione della permeabilità e funzione sia dell’elevatissima frazione volumetrica occupata dal rinforzo nanostrutturato (filler), generalmente impermeabile ai gas, sia del fattore di tortuosità, che, a sua volta, dipende dalla forma delle nanoparticelle.
Al CNR sono in corso studi sull’utilizzo dei filler a oggi più investigati, i clay, fillosilicati di origine naturale, caratterizzati da una struttura lamellare che, quando ben dispersi nella matrice polimerica, hanno permesso di ottenere buoni risultati di riduzione della permeabilità all’ossigeno e al vapor d’acqua di diversi polimeri. Inoltre altri filler nanometrici (per esempio nanotubi di carbonio e recentemente grafene) sono stati proposti ed investigati per migliorare le proprietà barriera di matrici polimeriche poliolefiniche o biodegradabili. Una grossa sfida, infatti, e rappresentata proprio dalla realizzazione di confezioni innovative ottenute in materiale biodegradabile che, modificato chimicamente o additivato con opportuni filler di dimensioni nanometriche, presenti proprietà strutturali e di barriera confrontabili con quelle dei materiali tradizionali attualmente utilizzate.
Per realizzare film barriera, recentemente le attività di ricerca si stanno focalizzando sulla applicazione di coatings sottili. La tecnica di coating, corrisponde al processo attraverso il quale uno strato sottile (da pochi decimi ad alcuni micrometri di spessore) di materiale viene applicato sulla superficie di un substrato che, nella maggior parte dei casi, e un film plastico ma che può essere anche un foglio di carta, un foglio di alluminio, una scatola metallica o un contenitore di vetro. Il materiale può essere applicato allo stato fuso oppure essere trasferito sulla superficie da ricoprire in un’appropriata soluzione per provvedere poi all’evaporazione del solvente e alla solidificazione del coating o lacca. Quando si opera in soluzione, il solvente può essere organico o meno frequentemente l’acqua. Le tecniche di coating sono conosciute da tempo, derivando sostanzialmente da quelle di verniciatura, decorazione e stampa ma finora sono state impiegate, prevalentemente, come tecniche di supporto ad altre. Recentemente, interessanti risultati sono stati raggiunti sul miglioramento delle proprietà barriera all’ossigeno di substrati polimerici utilizzando coating a base di sistemi inorganici (SiOx) o di biopolimeri di natura proteica e delle proprietà barriera al vapor d’acqua utilizzando coating a base di lipidi naturali.

 

Materiali attivi
L’imballaggio attivo è un sistema di confezionamento innovativo che si prefigge di rispondere con successo alle esigenze ed alle evoluzioni che caratterizzano il mercato alimentare. Tale settore è, infatti, fortemente condizionato dalle nuove abitudini sociali: le persone fanno la spesa a intervalli di tempo sempre più lunghi per cui è necessario disporre di imballaggi in grado di mantenere il più a lungo possibile le caratteristiche del prodotto fresco. Sulla base di tale premessa, lo sviluppo di nuovi materiali attivi per l’imballaggio rappresenta l’innovazione necessaria per fronteggiare le problematiche evidenziate.
Attraverso questi sistemi si intende spostare la generica protezione offerta dal materiale verso l’utilizzo di materiali e sostanze tali da fornire, durante la conservazione del prodotto alimentare, un intervento più mirato, e per questo più efficace, sui meccanismi che stanno alla base della perdita di qualità del prodotto, mediante il controllo di fenomeni chimici, microbiologici, enzimatici, chimico-fisici. Risulta quindi evidente come l’imballaggio attivo, che rappresenta una tecnologia di confezionamento innovativa, amplia enormemente il concetto di interazione con il materiale confezionato promuovendo la rimozione e/o il rilascio di componenti utili al mantenimento della qualità dell’alimento sia dal punto di vista della sicurezza d’uso che da quello organolettico e sensoriale.
Le tipologie di materiali attivi più diffusi e più interessanti sono sicuramente rappresentate dagli imballaggi che svolgono funzione antimicrobica, funzione antiossidante o che rimuovono/assorbono ossigeno o etilene dallo spazio di testa della confezione.
Per quel che riguarda gli assorbitori di ossigeno, bisogna considerare che gli alimenti ricchi di grassi durante il periodo di conservazione vanno soggetti a fenomeni di degradazione dovuti essenzialmente alla presenza, nello spazio di testa della confezione, di ossigeno. Tali fenomeni possono essere eliminati o rallentati controllando opportunamente la concentrazione di O2. Imballaggi di tipo “ageless” ovvero confezioni che contengono piccole quantità di agenti accettori di ossigeno racchiusi in sacchetti permeabili o inglobati direttamente nel film polimerico sono attualmente presenti in commercio.
Per quanto riguarda i sistemi di confezionamento attivi con funzione antimicrobica, tali sistemi vengono vantaggiosamente utilizzati per prolungare la shelf life di prodotti deperibili inibendo la crescita di particolari microrganismi responsabili della degradazione dell’alimento confezionato. Le tecniche utilizzate per inibire la crescita microbica possono essere suddivise in due categorie:
– immobilizzazione di agenti attivi sulla superficie della confezione; in questo caso la confezione per esplicare la sua funzione antimicrobica deve venire a diretto contatto con il microrganismo;
– inserimento dell’agente attivo direttamente all’interno del materiale utilizzato per realizzare la confezione; in questo caso la confezione esplica la funzione protettiva quando la sostanza attiva viene rilasciata verso l’alimento per svolgere la sua azione antimicrobica.
Negli ultimi decenni i sistemi di rilascio controllato sono stati largamente utilizzati in campo farmaceutico. Essi infatti permettono di rilasciare l’agente attivo contenuto nella matrice polimerica in modo da mantenere la sua concentrazione nel corpo umano all’interno dei limiti terapeutici, per un lungo periodo di tempo. Già da diversi anni vengono studiati sistemi di rilascio controllato anche nel campo degli imballaggi alimentari per riuscire a controllare la velocita di rilascio della sostanza incorporata nella matrice. In tal modo, infatti, si riesce a mantenere la sua concentrazione entro i limiti desiderati e si ottengono cinetiche di rilascio tali da poter rispondere alle cinetiche di degradazione (cioè crescita microbica) responsabili della degradazione del prodotto alimentare confezionato, prolungandole quindi la shelf-life.
Tali materiali innovativi vengono realizzati inglobando la sostanza attiva, antimicrobica o antiossidante, all’interno della matrice polimerica attraverso tecniche classiche di lavorazione dei polimeri, quali per esempio l’estrusione piana. Le sostanze attive inserite nell’imballaggio possono esplicare la loro funzione o se poste a diretto contatto con l’alimento oppure se rilasciate nell’alimento o nello spazio di testa della confezione. Tra le varie tecniche proponibili per l’additivazione del film polimerico, va considerato sia l’inserimento diretto della sostanza attiva (ossia nanoparticelle di ossidi di metallo, antimicrobici di origine naturale come ad esempio i politerpeni, ecc.) all’interno della matrice polimerica da processare che la sua veicolazione attraverso particelle inorganiche, quali per esempio alluminosilicati tubulari cavi. L’uso di queste nanostrutture ha l’obiettivo:
1. di modulare le cinetiche di rilascio dall’imballo all’alimento;
2. di migliorare le performances del materiale in termini di flessibilità e proprietà barriera al vapor d’acqua ed all’ossigeno;
3. di sostituire imballaggi multistrato in commercio, con materiali monostrati riciclabili che presentano le stesse proprietà di materiali commerciali multistrati e che sono inoltre riciclabili e più economici.
Questi argomenti, oggetto di studio nei laboratori del CNR, sono particolarmente innovativi e la loro applicazione diventa fondamentale soprattutto quando la matrice polimerica in cui additivare le sostanze attive è biodegradabile e quindi presenta scarse proprietà barriera e di resistenza meccanica. Presso i laboratori del CNR vengono studiati, inoltre, materiali particolarmente avanzati definiti stimuli-responsive in cui il rilascio delle sostanze attive viene innescato in risposta ad uno stimolo esterno ovvero alla variazione di una condizione nella confezione, quale ad esempio umidita, pH o temperatura. Tali sistemi permettono di avviare il rilascio della sostanza attiva esclusivamente quando il sistema necessita della sua azione, evitandone sprechi.

 

Materiali intelligenti
La confezione degli alimenti costituisce un aspetto determinante per la loro conservazione e sicurezza, garantendo al tempo stesso il consumatore da prevedibili deterioramenti dovuti a condizioni ambientali non ottimali. Per tale motivo vi è un crescente bisogno di identificare nella confezione non semplicemente una scatola, ma un sistema multifunzionale intelligente volto a preservare la sicurezza e la qualità degli alimenti durante il trasporto e la permanenza nei magazzini all’ingrosso, nei negozi al dettaglio e in casa. Al termine della lavorazione, l’imballaggio garantisce che il prodotto alimentare arrivi al consumatore in condizioni ottimali. La confezione permette di massimizzare la conservazione del prodotto, fornendo al tempo stesso informazioni importanti grazie all’etichetta. Attualmente, i codici a barre riportati sulle confezioni, indicano la data e il luogo di fabbricazione, garantiscono ad aziende alimentari, trasportatori e dettaglianti la tracciabilità dei prodotti per il controllo delle scorte e l’identificazione dei potenziali rischi.
La presenza dei codici a barre si è affermata negli ultimi 25 anni, nonostante alcuni svantaggi fondamentali: I) e necessario che i codici siano visibili e accessibili; II) non sono scrivibili in più parti; III) i dati in essi memorizzati non possono essere modificati; IV) occupano spazio sull’oggetto su cui sono stampati. Inoltre, tali sistemi permettono di sapere solo alcuni dati sul prodotto e la sua provenienza, ma non danno nessuna informazione circa lo stato di un alimento all’interno di una confezione e se siano stati rispettati i parametri di conservazione durante la catena del fresco e del freddo di un determinato alimento.
Oggi i sistemi che danno a una confezione l’appellativo di smart package prevedono l’integrazione sulla confezione di sistemi antitaccheggio, di monitoraggio della qualità, dell’autenticità, di informazione e localizzazione.
Gli imballaggi intelligenti sviluppati fino a oggi sono sistemi in grado di monitorare lo stato di conservazione del prodotto confezionato, ovvero indicatori tempo-temperatura capaci di dare evidenza di eventuali interruzioni della catena del freddo per prodotti alimentari che richiedono la conservazione a basse temperature oppure indicatori di freschezza, sensori in grado di indicare la presenza di ossigeno nella confezione, di microrganismi patogeni o di sostanze causate dalla degradazione dell’alimento. Più recentemente, le attività di ricerca si sono focalizzate sulla possibilità di inglobare nei materiali da imballaggio gli indicatori a radio frequenza (RFID) che permettono l’identificazione di ogni singolo prodotto e quindi la tracciabilità completa della filiera e la possibilità di evidenziare eventuali anomalie nel percorso del prodotto alimentare. Tale tecnologia si basa in genere sull’utilizzo di una etichetta costituita da un microprocessore con memoria e di un sistema lettore a radiofrequenza. L’RFID e il segmento con la crescita più rapida nell’industria dell’identificazione automatica. Grazie all’utilizzo di onde radio per la trasmissione dei dati fra le etichette e i lettori, l’RFID offre agli utenti un accesso alle informazioni memorizzate sul tag che non necessita di visibilità diretta. La tracciatura e il controllo in tal caso presentano una serie di vantaggi rispetto alle tecnologie di identificazione tradizionali applicate ad ambienti di produzione, alla gestione dei magazzini, alla logistica e alla distribuzione. Grandi quantità di informazioni possono essere scambiate automaticamente e da notevoli distanze, anche in condizioni sfavorevoli dovute a polvere, sporcizia, grasso, vernice e temperature estreme. Al CNR sono in corso studi per lo realizzazione di materiali in cui l’RFID sia inglobato direttamente nel materiale da imballaggio e non solo adeso all’esterno e quindi, come tale, facilmente removibile. Inoltre, sempre al CNR, e in corso una ricerca innovativa nel settore dell’anticontraffazione basata su plastiche trasparenti funzionalizzate con particolari nanostrutture metalliche o semiconduttive (fluorofori) che si colorano quando esposte a luce ultravioletta. L’obiettivo è quello di riuscire a combattere le imitazioni e le contraffazioni soprattutto per la tutela di produzioni alimentari di eccellenza tipiche del “Made in Italy”.

 

Radiazioni ionizzanti
Il trattamento di prodotti alimentari attraverso la tecnologia delle radiazioni ionizzanti è approvata in tutti i continenti e in uso commerciale in oltre 60 Paesi. La metodologia di utilizzo delle radiazioni e stata approvata come un processo sicuro per gli alimenti e la salute da parte dell’Organizzazione Mondiale della Sanita e l’Agenzia Europea per la Sicurezza Alimentare (EFSA) che hanno verificato l’assenza di rischi per la salute del consumatore, legata all’uso delle radiazioni sugli alimenti.
L’estensione e la varietà degli articoli nei paesi è variabile da quasi tutti gli alimenti in Brasile, per gli elementi selezionati in diversi paesi dell’UE, come indicato dalla Gazzetta ufficiale dell’Unione europea. Negli Stati Uniti tra il 2007 e il 2013, il volume totale delle merci trattate con radiazioni e aumentato di oltre il 6000%, da 195.000 kg nel 2007 a circa 13 milioni di kg nel 2013. L’irraggiamento dell’alimento può essere suddiviso in due categorie in base alle dosi che sono impiegati vale a dire, le dosi ≤ 1.0 kGy e dosi ≤ 10 kGy. La dose ≤ 1.0 kGy e utilizzata principalmente per l’eliminazione di insetti e parassiti di frutta e verdura e per l’estensione della shelflife, e dosi ≤ 10 kGy per eliminare gli agenti patogeni microbici di carne e pollame.
L’uso della dose ≤ 1.0 kGy per il trattamento fitosanitario di frutta e verdura nel commercio internazionale e il settore di mercato in più rapida crescita. Imballaggi in plastica sono ampiamente utilizzati in prodotti che subiscono o la dose ≤ 1.0 kGy o quella ≤ 10 kGy.
Quindi, per contribuire in tutto il mondo a garantire la qualità degli alimenti, la quantità e la sicurezza in un modo eco-sostenibile, la sfida è ora di sfruttare sinergicamente i miglioramenti delle prestazioni delle confezioni in biopolimero grazie alla nanotecnologia, con l’ottenimento di una drastica riduzione della contaminazione microbica sul cibo seguendo le procedure di irradiazione.
Presso i laboratori del CNR sono in corso studi per verificare l’idoneità di materiali poliolefinici e biodegradabili a essere impiegati per l’irradiazione di prodotti alimentari già imballati e pronti all’uso.

 

Packaging intelligenti contro lo spreco alimentare
Proiezioni della FAO indicano che nel 2050 la produzione degli alimenti dovrà aumentare del 70% per nutrire la popolazione mondiale. Sforzi notevoli sono orientati ad aumentare la produttività. Tuttavia e egualmente importante proteggere il cibo prodotto, anche durante la fase del confezionamento, per evitarne lo spreco durante la distribuzione dal produttore al consumatore. La riduzione di tale spreco, inaccettabile per motivi economici, etici e di impatto ambientale, rappresentata una delle sfide sociali del programma europeo di ricerca Horizon 2020 ed uno dei modi di “nutrire il pianeta”, tema particolarmente sentito nell’ambito di EXPO 2015. Il prolungamento della shelf-life di alimenti confezionati attraverso l’uso di materiali avanzati e innovativi per l’imballaggio alimentare rappresenta certamente uno dei modi per risolvere tale problema. Enti di ricerca e università nazionali e internazionali, spesso in collaborazione con aziende del settore, lavorano sinergicamente per ottenere importanti risultati in questo settore. Risultati in termini di nuove conoscenze di base sui materiali, di cui possa beneficiare la comunità scientifica, ed in termini di sviluppo di nuovi materiali e applicazioni di nuove tecnologie, di cui possa beneficiare il mondo imprenditoriale.
Il 30 settembre 2015, durante la giornata “Contenuti e contenitori: le nuove frontiere del packaging alimentare” (www.expo.cnr.it/it/node/96), il progetto interdipartimentale CNRxEXPO si pone l’obiettivo di divulgare all’ampia audience internazionale di EXPO 2015, gli importanti risultati delle ricerche del CNR e di presentare le sfide future nella ricerca e nell’innovazione nel campo del food packaging a livello internazionale.
Il filo conduttore della giornata sarà legato all’innovazione nel campo dei materiali per l’imballaggio, nel rispetto della sostenibilità e sicurezza. Gli interventi, che animeranno un dibattito costruttivo al quale sarà invitato a partecipare il pubblico presente, sono suddivisi in tre panel incentrati su tematiche interconnesse: le esigenze degli utilizzatori finali, le risposte attuali delle aziende produttrici e le proposte di innovazione del mondo della ricerca. Tale confronto, interdisciplinare ed intersettoriale, si rende necessario perché, nonostante esistano già alcune strette collaborazioni tra il sistema pubblico e quello privato, il successo delle innovazioni di prodotto e legato imprescindibilmente alla creazione di un rapporto più sistemico con il sistema produttivo. Sforzi scientifici ed investimenti ulteriori sono quindi necessari per coinvolgere in un’unica filiera gli enti di Ricerca, i laboratori universitari e le molte industrie interessate al mondo dei materiali e alla filiera agroalimentare.

 

*Tratto dalla rivista Scienza & Società n.23/24 – “Il cibo e/è l’uomo