La magia della musica e la riflessione culturale: le iniziative della Comunità Ebraica di Napoli

Nella cultura musicale contemporanea una prospettiva assai interessante è quella che deriva dall’incontro tra tradizioni molto diverse, “alte” e “popolari”. In tale prospettiva la musica può  essere vista come un elemento fondamentale di ogni discorso  interculturale e, al tempo stesso, come un importante mezzo di avvicinamento  tra i popoli ed i singoli individui.

In questo approccio un ruolo importante è stato svolto della etnomusicologia. Dapprima nota come musicologia comparata l’etnomusicologia ha contribuito a sviluppare la ricerca  multidisciplinare, creando  forti connessioni con diverse scienze,  dalla storia all’antropologia culturale, dalla psicologia sociale alla sociologia, permettendo l’adozione di un approccio non convenzionale alla ricerca musicale in cui molto importante è stato ed è il confronto tra i paradigmi  musicali occidentali e quelli dei popoli extraeuropei.
Tematiche di questo tipo sono state affrontate, nella nostra città, dall’iniziativa promossa dalla Comunità Ebraica di Napoli conclusasi il 22 maggio u.s.  Si è trattato di una serie di concerti e di conferenze organizzate e curate dal Consigliere Ciro Moses D’Avino e dalla Presidente Lydia Schapirer.

Gli appuntamenti, iniziati nel gennaio 2016, hanno visto protagonisti il Cantante Raiz;  il Duo di musica classica con la violinista Yael Amato e la pianista Patrizia Paolillo che ha eseguito brani di F. Mendelsohnn e E. Bloch;  i giovani solisti del Liceo Musicale Margherita di Savoia e del Conservatorio Martucci di Salerno con Alessandro Yosef Parfitt al violoncello, Emanuele Marigliano e Nicolaj Piemonte al pianoforte, Federico Maddaluno al mandolino in occasione della visita di 50 famiglie provenienti da Israele, evento coordinato con la collaborazione e presenza del Rabbino Capo Rav Umberto Piperno.

L’ evento conclusivo, in collaborazione con l’associazione “Amici di Città della Scienza”, rappresentata dal Presidente Ferruccio Diozzi e dalla Segretaria Laura Franchini ed  alla presenza della Famiglia Camerini-Gross, autrice della donazione alla Comunità di un importante pianoforte a coda Bechstein, si è svolto il 22 maggio con una grande presenza di pubblico che ha seguito con estremo interesse la conferenza “La Cabala della Voce – Tecnica Vocale” tenuta da Miriam Jaskierowicz Arman ed il Concerto dell’Amati Ensemble.

Miriam Jaskierowicz,  un’esperta mondiale della tematiche musicali, non solo riferentesi alla  cultura ebraica, ha condotto un’attenta riflessione sull’importanza della voce umana e sulla sua “magia” con un magistrale  speech.

Da parte sua  l’Amati Ensemble ha eseguito melodie tradizionali Ebraiche, brani di autori classici quali Bach e Mozart e brani di autori moderni come G. Gershwin. Quest’orchestra è l’ultimo  frutto del Progetto Sirenide per Musequality, sviluppato dal 2009 e curato da Yael Amato e dall’Associazione Amici di Citta’ della Scienza. Il progetto ha prodotto molte  esibizioni orientate alla ricerca sulla didattica scientifica e musicale e diverse esibizioni in sedi istituzionali  come la V Municipalità Vomero Arenella, con la collaborazione del Presidente Mario Coppeto,  in occasione della Giornata della Memoria o a Città della Scienza, nell’estate 2014, alla presenza del Sindaco Luigi De Magistris.
Con queste due testimonianze, diverse ma parallele, si è concluso, per il momento, questo ciclo di incontri sulle valenze non ancora del tutto esplorate delle culture musicali e, in una concezione “aperta”, sulle possibilità di incontro tra tradizioni  diverse.

 

Cos’è la musica? Di Pietro Greco

Cos’è, infine, la musica? Se i lettori della Rivista del Centro Studi di Città della Scienza non me lo chiedono, lo so. La conosco, io, la musica. La riconosco. La sento. È musica la Sinfonia n. 9 in Re minore Op. 125 di Ludwig von Beethoven. È musica il Concerto Brandeburghese n. 5 in Re maggiore di Johann Sebastian Bach. È musica il Concerto per pianoforte e orchestra n. 21 in Do maggiore K 467 di Wolfgang Amadeus Mozart. Ed è, ovviamente, grande musica quella eseguita dall’Amati Ensamble di cui ci parla Yael Amato.

Bach, Beethoven, Mozart – lo avrete capito – sono i miei preferiti. Ma non esiterei a dire che è musica – e che musica – anche la colonna sonora ideata da Ennio Morricone per C’era una volta il West di Sergio Leone. È musica la colonna sonora che Maurice Jarre ha scritto per il Dottor Zivago di David Lean. E, lo riconosco, è musica persino la colonna sonora che Max Steiner ha composto per Via col vento.     Dunque se non mi chiedete “cos’è musica?”, io lo so. Ma se qualcuno di voi me lo chiede, devo rispondere come Agostino a proposito del tempo: non lo so più. Qualche dubbio mi viene dopo aver ascoltato i Pezzi per pianoforte op. 23, l’opera atonale o pantonale di Arnold Schönberg. E il dubbio diventa addirittura smarrimento dopo aver ascoltato la composizione 4’33” che John Cage ha composto (ha proposto) nel 1952. Un’opera che può essere eseguita «con ogni strumento o combinazione di strumenti», perché per 4 minuti e 33 secondi, appunto, propone il silenzio assoluto. Un silenzio che, tuttavia, assoluto, non è mai. C’è sempre qualche suono – una folata di vento, un ticchettio di pioggia sul tetto, un fruscio di carte, un colpo di tosse – che ne interrompe la trama.

Anche il silenzio, dunque, è musica? Anche il “non silenzio” è musica?
Provocazioni, certo, quella del compositore austriaco teorico della dodecafonia e del compositore americano, autore di quella che Mike Bongiorno ha definito “musica strambissima”, che hanno fatto e fanno ancora molto discutere. E tuttavia è meglio aggirare, in questa sede, l’ostacolo della definizione in termini essenziali  per limitarci a cercare di definirla, la musica, in termini funzionali, quale attività culturale organizzata che – come sosteneva Vincenzio Galilei, padre di quel Galileo Galilei, considerato il pioniere della rivoluzione scientifica – è fondata su un fenomeno fisico: il suono (o l’assenza di suono).

Perché esiste la musica?
Messa in questi termini, due sono i dati certi sulla natura di quel complesso e, in genere, armonioso sistema di comunicazione umana fondata sui suoni e sull’assenza di suoni che chiamiamo musica.

  1. La musica è un fenomeno universale. Tutte le società e le culture umane conosciute creano musica, in diversi modi: con la voce, con il corpo, con strumenti occasionali e costruiti ad hoc. I cuccioli di uomo a ogni latitudine mostrano di riconoscere e di apprezzare la musica. Queste capacità musicali si sviluppano fin dai primi mesi di vita senza alcun particolare addestramento e/o istruzione. Ancorché non traducibile, la musica è per tutti intelligibile, come rilevava ammirato Claude Levi-Strauss.
  2. La musica è una forma di comunicazione antica. In tutti i periodi del passato, almeno negli ultimi 30 o 40 millenni, troviamo tracce inequivocabili della capacità musicale dell’uomo. Famoso è il flauto di Neandertal che risale a 36.000 anni fa ed è stato realizzato da un artigiano che non apparteneva alla nostra specie. L’esistenza di quel flauto dimostra che le antiche tracce sono costituite da strumenti costruiti ad hoc, con intenzione. E con sofisticazione. Intenzione e sofisticazione che implicano un “pensiero musicale” a sua volta sofisticato .

I due caratteri, l’universalità e l’antichità, di questo sistema di comunicazione tra i membri della specie Homo sapiens pone problemi di interesse generale, che riguardano non solo i musicologi, ma anche gli storici, gli antropologi, i neuroscienziati, i biologi evoluzionisti: come e perché è nata la musica?
Domanda niente affatto nuova. Cui oggi, però, è possibile risponde in modo nuovo. Cui oggi è possibile rispondere in termini scientifici. A lungo il problema dell’origine della musica è stato considerato dai filosofi naturali e dagli uomini di scienza un “problema intrattabile”. Tenuto ostinatamente, persino ostentatamente, fuori dal discorso scientifico. Un po’ come aveva fatto nel 1866 la Société de Linguistique de Paris, che aveva messo al bando ogni discussione sull’origine del linguaggio parlato.

Ma, proprio come è successo al linguaggio parlato, oggi – grazie anche a una serie di progressi enormi nell’ambito dell’etnomusicologia, delle neuroscienze, dall’antropologia, della paleoantropologia, della biologia evolutiva – gli uomini di scienza ne possono parlare. Il problema non è più scientificamente intrattabile.
Anzi, è sempre più scientificamente impellente.<
Perché spiegare l’origine delle capacità musicali dell’uomo, è un elemento che appare sempre più essenziale per ricostruire larga parte dell’evoluzione della stessa specie parlante (e musicante): l’evoluzione, appunto, di Homo sapiens.

Più esattamente, lo studio dell’origine della musica è di importanza decisiva negli studi che riguardano l’evoluzione culturale dell’uomo. Poiché le capacità musicali appaiono sempre più legate alle capacità linguistiche e, di conseguenza, la ricerca sull’origine della musica è sempre più intimamente legata alla ricerca sull’origine del linguaggio. L’acquisizione di un linguaggio ricco e forbito è a sua volta considerata uno snodo fondamentale nella storia dell’evoluzione dell’uomo.
Le intersezioni  e persino le interpenetrazioni tra le capacità musicali e le capacità linguistiche dell’uomo sono così fitte ed empiricamente verificabili che lo studio delle musiche – proprio come lo studio delle lingue – può contribuire (sta contribuendo) a ricostruire la storia delle migrazioni umane e dei contatti culturali tra i vari gruppi dei sapiens.

Ecco perché molti tra coloro che studiano la storia evolutiva di Homo sapiens stanno cercando di andare oltre la mera ricerca empirica e si stanno impegnando nell’elaborazione di una “solida teoria dell’origine della musica”.
E, tuttavia, elaborare una solida teoria scientifica sull’origine della musica è un’esigenza che va oltre la necessità sia di comprendere la natura e ricostruire la storia di questo sistema di comunicazione sia di comprendere l’evoluzione e ricostruire la storia di Homo sapiens. È un’esigenza che appare sempre più ineludibile per spiegare uno dei due grandi passaggi della storia evolutiva della vita sul pianeta Terra: quello che Theodosius Dobzhansky ha chiamato il “trascendimento” dal biologico a culturale.

Come, dunque, e perché è nata la musica?

Non lo sappiamo. Non ancora, almeno. Sappiamo però che chiunque voglia accettare la sfida e rispondere alla domanda non più intrattabile – chiunque voglia elaborare una teoria scientifica sull’origine della musica – deve spiegare almeno i due fatti cui abbiamo accennato. Perché la troviamo ovunque, nello spazio abitato dai parlanti? E perché la troviamo ovunque, nel tempo attraversato dai parlanti: a partire, almeno, da 30.000 anni e più anni fa?
Non sono domande accademiche. Frutto di una curiosità priva di utilità. Prova ne sia che è cercando di rispondere a questa domanda che il neuroscienziato di origini argentine Fernando Nottebohm e il suo gruppo della Rockefeller University di New York hanno falsificato l’antico dogma della neurobiologia secondo cui il cervello non rinnova i neuroni che muoiono. Studiando i canarini impegnati nel canto, i neuroscienziati americani hanno scoperto che il loro cervello genera alla bisogna nuovi neuroni. Oggi, come ricordava il fisico Renato Musto, la neurogenesi è diventata un tema centrale di ricerca anche nelle neuroscienze umane e una speranza per future terapie.

Le ricerche sugli animali non umani ci dicono che non siamo solo noi, specie sedicente sapiens, a comporre e a provare piacere per la musica. Lo stesso Mozart ha riportato su un pentagramma le note della melodia suonata da uno storno. Tuttavia solo la nostra specie ha prodotto musica sofisticata come quella di Wolfgang Amadeus Mozart (e di John Cage?).
Come e perché? Cerca di risponde a questa domanda Aniruddh D. Patel, un esperto tra i maggiori al mondo in forze all’Istituto di Neuroscienze di San Diego, in California, in un libro uscito tempo fa in italiano presso Giovanni Fioriti Editore: La musica, il linguaggio e il cervello. Diciamo subito che esistono almeno tre diverse teorie. La prima è adattativa. La musica è emersa per selezione naturale nel corso dell’evoluzione biologica perché “fa star meglio” un individuo o una società e si rivela un vantaggio riproduttivo. La seconda è dello stesso Charles Darwin: le note di Beethoven sono velenose come la coda del pavone. La musica non conferisce nessun vantaggio biologico a chi la elabora. Tuttavia ha un valore estetico che viene speso nell’ambito di quella selezione sessuale che affianca la selezione naturale nell’evoluzione della vita. Dunque la musica è nata in virtù del suo intrinseco valore estetico. La terza teoria è di tipo culturale. La musica è, in buona sostanza, frutto di quel trascendimento evolutivo evocato da Theodosius Dobzhansky. Generata solo e unicamente dalla nostra mente.

Ebbene, Aniruddh D. Patel propone una quarta teoria. Spiazzante. La musica è una tecnologia. Come il fuoco. Non esistono geni selezionati per il governo del fuoco, così come non esistono geni specificamente selezionati per l’ascolto e la produzione della musica. Tuttavia è una tecnologia tanto semplice quanto utile e piacevole. Ciò spiegherebbe perché è così antica e così universalmente diffusa.
Patel non ha definitivamente ragione. Occorreranno nuove ricerche per discriminare tra le quattro teorie sull’origine della musica. E mentre gli scienziati continuano a cercare vi saluto in tutta fretta. Devo correre ad ascoltare un silenzio di John Cage.