Neuroscienze: etica e biologia

Il Brain Activity Map, il progetto di ricerca lanciato dal presidente statunitense Barack Obama nel febbraio 2013 con l’obiettivo di mappare l’attività di ognuno dei 100 miliardi di neuroni presenti nel cervello umano, ha esplicitato, tra i suoi vari scopi, quello di arrivare a comprendere i meccanismi che portano allo sviluppo del Parkinson, dell’Alzheimer e di altre malattie neurodegenerative, mettendo così a punto cure nuove e più efficaci.

La possibilità di descrivere l’individuo e le sue abilità cognitive in termini dinamici, mediante un processo di costruzione continua che lega acquisizioni e significati in “architetture” di personalità, di memorie, di capacità relazionali, dovrebbe consentire la produzione di una metafora conoscitiva che possa essere in grado di chiarire la natura dell’individuo, inteso come soggetto epistemico. Considerare i nostri comportamenti etici e la capacità di esprimere giudizi morali come una conseguenza della struttura del nostro cervello, della sua ontogenesi e filogenesi, consente, in primo luogo di superare l’antica divisione cartesiana tra la res extensa e la res cogitans. L’osservazione dei fenomeni attivati nella struttura del sistema nervoso centrale porta a rivedere le categorie etiche con cui vengono valutate le azioni personali che emergono dall’attività della coscienza. Si amplificherà così il dibattito su temi classici riguardanti la possibilità di nuove discriminazioni, l’equità nell’accesso alle cure e soprattutto si porrà la domanda di chi dovrà conservare e gestire la gigantesca mole di dati sensibili ottenuta da questo tipo di ricerche.

Se assumiamo lo sviluppo storico degli studi scientifici come la costruzione di un sapere attraverso processi che si dispiegano nella storia – processi evolutivi intesi cioè come maggiormente comprensivi (nuove teorie che inglobano teorie già esistenti e fatti non ancora compresi) oppure come processi involutivi (mantenimento di teorie anche se contraddette da nuovi dati) o anche periodi di stasi – possiamo considerare la scienza nel suo complesso come un vero e proprio sistema adattativo.

La recente storia delle Neuroscienze – che inglobano anche lo studio della Psicologia (Neuroscienze cognitive) – ne è un esempio emblematico.
Lo studio dei fatti psicologici, proiettati su una “scala” fenomenologica e il substrato neurologico studiato in una “scala” di strutture funzionali (mappe) o di sistemi di trasmissione del segnale (endocrinologia dei neurotrasmettitori), non solo ha portato l’approccio neuroscientifico a essere un sistema di interazioni molteplici, ma ha reso il campo delle Neuroscienze un sistema “complesso”, dove i cambiamenti di una specifica disciplina influiscono sulle ricerche di altre aree, richiedendo, di fatto “riequilibrazioni” continue.

Lo studio neuroscientifico richiede sempre più l’integrazione di conoscenze diverse: da quelle relative ai processi molecolari a quelle inerenti alla descrizione delle funzioni psichiche. Un percorso conoscitivo che ha acquisito una crescente importanza è costituito dalla ricerca strumentale come le indagini elettroencefalografiche e le tecniche di neuroimaging. Questa tecnologia, che si è sviluppata nel corso degli ultimi venti anni, permette l’indagine in vivo delle reti di neuroni e in particolare dei grandi aggregati neuronali che costituiscono quelle cosiddette “regioni”, le quali si attivano per compiti specifici. In ogni caso bisogna tener presente che queste tecniche, pur con la loro enorme capacità di correlare tra loro sedi e funzioni, possono far passare in seconda linea altri tipi di problemi e interrogativi. Spesso infatti i risultati di numerose ricerche, anche se stupefacenti, ci dicono dove nel cervello si è verificato qualcosa, non quali siano i meccanismi del riconoscimento della memoria, le motivazioni alla base di una scelta, lo strutturarsi di un’emozione.

I percorsi conoscitivi in questi processi sono diversi e di diversa natura: da un lato i comportamenti e le attività cognitive in soggetti affetti da patologie mentali di origine neurologica, dall’altro l’attività cellulare in relazione ai comportamenti fisiologici. La descrizione di ognuno di questi processi in termini neuroscientifici pone quesiti sulle loro strutture epistemiche. I risultati sperimentali hanno permesso da un lato di delineare un quadro funzionale preciso, dall’altro hanno aperto ancora domande sul soggetto. L’evento percettivo di un’esperienza risulta essere molto complesso: aree corticali diverse elaborano caratteristiche diverse sulla base degli stimoli che provengono dall’esterno. Un esempio classico rimane quello del meccanismo della visione: vengono elaborati separatamente il colore, la tessitura, la forma, il movimento.

Un altro esempio di questa ricchezza dei sistemi neurobiologici emerge dai risultati conseguiti dal gruppo di ricerca guidato da Giacomo Rizzolatti, nel settore della Neurofisiologia sperimentale. Grazie a questi studi sono state individuate due classi di neuroni presenti anche negli esseri umani, che sono di estrema importanza per la comprensione dell’organizzazione funzionale del sistema nervoso. L’aspetto funzionalmente più interessante di questi neuroni è che la loro attivazione accade anche in contesti che non richiedono alcuna interazione attiva con l’ambiente. Ad attivare la reazione del sistema motorio in modo del tutto analogo a ciò che avviene quando l’individuo sta effettivamente agendo sull’oggetto osservato è sufficiente la sola percezione visiva di quest’ultimo.

L’attività di questi neuroni indica che lo schema della risposta motoria è già specificato nella fase di percezione di un oggetto, ci troviamo quindi di fronte non a un processo sequenziale, bensì a un anello senso-motorio. Se la scoperta dei neuroni-specchio modifica da un lato il concetto di “confine”, allargandolo a comprendere ciò di cui viene fatta esperienza, dall’altro estende i “processi” nel tempo e nello spazio. L’accento è posto quindi sul ruolo “attivo” che i sistemi sensoriali e le caratteristiche di plasticità dei sistemi neurali hanno in relazione alla costruzione dell’esperienza. Le ricadute di un simile cambiamento di prospettiva escono dagli ambiti strettamente neuroscientifici e possono avere un ruolo importante sia nell’ambito della formazione scolastica sia in quello della valutazione della capacità lavorativa in quanto mostrano l’arretratezza sia pedagogica sia epistemologica di formule, come quella incentrata sul concetto di “merito”, che non prendono in considerazione criteri di valutazione oggettiva fondati su tali presupposti neurofisiologici.

Ancora più denso d’interrogativi e d’implicazioni è il tema del potenziamento cognitivo, della possibilità cioè di migliorare alcune caratteristiche psicofisiche degli esseri umani. Alcuni esempi:

  1. gli effetti collaterali e le conseguenze indesiderate sono un problema di tutti i farmaci e di tutte le procedure ma in questo caso l’intervento, privo di riscontri relativi a utilizzi prolungati, riguarda un sistema molto più complesso come il cervello;
  2. come sarà influenzata la vita di tutti gli individui, compresi coloro che hanno deciso di non migliorarsi, per esempio nel mondo del lavoro o nella scuola?
  3. cosa significa migliorare l’attenzione, la memoria o la capacità di resistere a esperienze estreme?
  4. avere la possibilità di migliorare alcune nostre caratteristiche, come la capacità di attenzione o la resistenza allo stress, non corre il rischio di incoraggiare la totale medicalizzazione/mercificazione di queste caratteristiche?
  5. se possiamo migliorare la nostra produttività assumendo un farmaco cosa ne sarà della dignità e dei diritti del lavoro?
  6. in una società in cui proprio la concorrenza è troppo spesso considerata un valore assoluto, chi non può accedere a queste tecniche, perché per esempio troppo costose, non risulterà svantaggiato in ambiti come l’istruzione e l’occupazione?

Lo sviluppo delle Neuroscienze e delle neurotecnologie consente di prendere in esame questioni mai prima affrontate in termini scientifici. Lo studio del cervello e della Neurobiologia delle cause e degli effetti in ambito cerebrale apre a questioni – come il libero arbitrio e la responsabilità personale – che hanno implicazioni enormi anche da un punto di vista del Diritto: se non ho reale possibilità di scelta, posso essere considerato responsabile ed eventualmente pagare in sede penale per le mie azioni? Anche la possibilità di intervenire in maniera attiva sul cervello (con tecniche chimiche, chirurgiche o di qualsiasi altra natura) apre a scenari nuovi. Le nuove ricerche e le nuove tecniche non consentono solo di cercare le implicazioni morali delle Neuroscienze, ma consentono anche di cercare le basi neurobiologiche della morale. Con lo sviluppo delle nuove tecnologie di brain imaging – come la risonanza magnetica funzionale (fMRI), la tomografia a emissione di positroni (PET), la spettroscopia a infrarossi (NIRSI) per esempio – la Neurobiologia umana ha prodotto nuove conoscenze sul funzionamento del cervello. Il rapporto tra teoria e prassi nelle varie discipline neurologiche pone interrogativi sulle loro implicazioni sociali. Fra questi, un posto particolare lo occupa la conoscenza di quali siano i gradi di libertà che una data struttura neurale possa comunque permettere e garantire al nostro agire, giudicare, e al nostro “sentire morale”.

Nello stesso tempo questa capacità conoscitiva rischia di riproporre un’idea antica e carica di ambiguità: quella che esista un destino già scritto fin dalla nascita. Questa specie di neurodeterminismo, speculare all’idea che tutto sia spiegabile con i nostri geni, non considera il fatto che le scelte che ogni essere umano fa non sono altro che il prodotto della propria personale biografia, di ogni soggettiva storia di vita, il risultato di un sistema di apprendimenti che iniziano a strutturarsi sin dalla vita fetale, intrecciando progressivamente la sempre più complessa rete neuronale, e che condizionano il comportamento dell’essere umano, che altro non è se non il risultato di un continuo processo di selezione tra alternative. Le connessioni cerebrali che creano “la mente” si sviluppano nell’ambito delle relazioni interpersonali per cui le relazioni umane modellano la struttura cerebrale dalla quale parlare di identità solo concependola nel suo divenire e considerandola all’interno di quella estrema complessità che è il mondo fisico che lo circonda, del sistema genetico che lo informa di sé e del suo sistema nervoso. È solo con l’immagine di connessioni sempre più ampie che possiamo assumere come substrato la struttura cerebrale per quelle che usualmente definiamo “facoltà”.
La comprensione di questa complessità sistemica neurale è resa più plastica attraverso la metafora dell’architettura. Forze, spinte e controspinte in un edificio, moduli, connessioni e “ri-rappresentazioni” nel nostro cervello ci conducono alla rappresentazione di costruzioni sempre più ricche e articolate.

La metafora dell’architettura può essere assunta come esemplificazione degli attuali studi sulla memoria o, più propriamente, delle “memorie”. Infatti nel corso del XX secolo gli approcci al tema della memoria hanno subito metamorfosi importanti: dalla concezione della memoria come facoltà unitaria siamo passati a considerarla come un insieme di funzioni diverse. L’inizio di questa metamorfosi si è avuto negli anni Cinquanta con gli studi di Brenda Milner sul paziente che in letteratura è conosciuto come H.M., un soggetto con crisi convulsive epilettiche. Seguendo una prassi di cura consolidata, questa patologia era stata affrontata con un intervento chirurgico nel corso del quale era stato rimosso il lobo temporale di entrambi gli emisferi cerebrali.

La perdita dell’ippocampo aveva avuto come conseguenza una grave perdita di memoria in relazione a persone, luoghi, oggetti: H.M. aveva perso la “memoria esplicita”, una specifica funzione che consiste nel richiamo cosciente dei contenuti mnemonici. Milner cominciò a studiare le abilità di memoria del paziente e constatò che le funzioni intellettive di questo soggetto erano rimaste intatte: H.M. era in grado di ricordare informazioni per un breve periodo di tempo; poteva apprendere alcune nuove abilità motorie pur senza esserne cosciente. In sintesi, pur con un’importante compromissione della memoria, H.M. possedeva ancora alcune capacità di ricordo: la memoria a breve termine e la memoria implicita. I lavori di Milner misero per la prima volta in luce che una precisa struttura del cervello – il lobo temporale e l’ippocampo – era correlata a specifiche funzioni della memoria: esse erano alla base delle trasformazioni della memoria a breve termine (MBT) in memoria a lungo termine (MLT). Con il lavoro pioneristico di Milner erano così state gettate le basi per lo studio della localizzazione cerebrale delle diverse funzioni della memoria. Lo sviluppo delle attuali Neuroscienze cognitive ha portato non solo a concepire le varie funzioni della memoria in correlazione con sistemi anatomo-funzionali diversi nell’architettura del cervello (cervelletto, ippocampo, amigdala, ipotalamo, lobo temporale) ma anche a conoscere e descrivere alcuni dei processi a livello molecolare.

Gli studi di Eric Kandel, realizzati studiando il sistema nervoso dell’Aplysia californica e che gli hanno fatto meritare il premio Nobel nel 2000, hanno chiarito i processi biologici che si sviluppano quando la memoria a breve termine viene trasformata, tramite la ripetizione dello stimolo, in memoria a lungo termine. Oggi possiamo affermare con Kandel che la conoscenza della biologia della mente – in particolare della memoria – offre importanti spunti di riflessione anche alla prospettiva degli studi umanistici.

Le ricerche neuroscientifiche hanno dimostrato come i processi di elaborazione dell’informazione (per esempio i contenuti da apprendere) siano in correlazione con specifiche reti neuronali che possono essere modificate con l’attivazione bioelettrica dei neuroni e delle sinapsi: Long Term Potentiation (LTP) o Long Term Depression (LTD).
I percorsi conoscitivi che l’essere umano compie su se stesso, nella prospettiva neuroscientifica, sono divenuti sempre più complessi e articolati.
Correlare la propria esperienza storica con categorie conoscitive di natura biologica a partire da una specifica funzionalità verso livelli neurochimici, strutturali ed evolutivi, comporta l’abbandono di alcuni vecchi paradigmi:

Uno dei maggiori problemi della biologia contemporanea è che essa sta scoprendo esattamente come funziona il nostro cervello (…). Quando avremo finalmente compreso scientificamente le nostre percezioni, i nostri pensieri, le nostre emozioni e le nostre azioni è più che probabile che la nostra visione di noi stessi, e del nostro posto nell’universo, sarà totalmente trasformata[1].
Le nuove ricerche e le nuove tecniche non consentono solo di cercare le implicazioni morali delle Neuroscienze, ma consentono anche di riflettere sulle basi neurobiologiche dei nostri comportamenti etici e della nostra capacità di esprimere giudizi morali. Questo aspetto in particolare, si è progressivamente definito come momento gnoseologico di crescente importanza nel contesto neuroscientifico e risulta costitutivo degli attuali dibattiti in campo neuroetico. Le sue principali aree d’indagine partono dal riesame di argomenti “classici”, anche se complessi e delicati, come il libero arbitrio, la coscienza, l’identità, i processi cognitivi e quelli emozionali, la natura del sé e della personalità, i rapporti tra neuroimaging e privacy, tutti temi che hanno ricadute in ambiti socialmente rilevanti come quelli del Diritto. Il termine “neuroetica” è stato usato per la prima volta durante la conferenza Neuroethics: Mapping the Field, tenutasi a San Francisco nel maggio del 2002.

In termini generali, tuttavia, è possibile definire nettamente all’interno del dibattito multidisciplinare proprio delle Neuroscienze due ordini di questioni che portano con sé implicazioni sia etiche sia sociali. Nel primo insieme si inseriscono le questioni relative alla natura della nostra libertà individuale e alla sua relazione con i nostri meccanismi neurofisiologici. Nel secondo insieme troviamo invece le questioni relative all’impiego delle conoscenze e delle tecniche neuroscientifiche. La Neuroetica si fonda sulla rilevanza degli studi e delle costruzioni teoriche di un settore scientifico in relazione alla tematizzazione di problemi morali che da esse emergono e del loro impatto anche in termini di equità nel contesto socio-culturale. Essa viene così chiamata sempre più spesso a delineare una possibile interazione tra la prospettiva neuroscientifica e i percorsi morali individuali e collettivi.

La Neuroetica si configura quindi come una disciplina complessa i cui “margini” sono in continua modificazione da un lato per le metamorfosi conoscitive, dall’altro per le etiche individuali e collettive in contesti sociali anch’essi in continuo sviluppo. Si tratta a questo punto di domandarci più precisamente quali siano le implicazioni possibili poste dalle Neuroscienze.
A tale proposito il panorama è ampio e per questo difficile da esaurire in questa sede. In termini generali, tuttavia, è possibile distinguere nel dibattito interno alle Neuroscienze due ordini di questioni etiche e sociali. Nella prima casistica si inseriscono questioni relative alla natura della nostra libertà individuale e alla sua relazione con i nostri meccanismi neurofisiologici.

Si cerca inoltre di definire i limiti entro i quali possiamo considerarci giuridicamente e moralmente responsabili delle nostre azioni qualora le tecniche di neuroimaging dimostrassero la presenza di un rapporto di causalità diretta tra specifici funzionamenti cerebrali e particolari manifestazioni del nostro comportamento. Nel secondo insieme confluiscono invece le questioni relative all’impiego delle conoscenze e delle tecniche neuroscientifiche.

Un esempio in questa prospettiva riguarda il comprendere se, e in che misura, problemi connessi a specifiche funzioni cerebrali determinino univocamente malattie quali il morbo di Alzheimer, di Parkinson, la schizofrenia o la depressione, e come sia possibile trovare soluzioni efficaci per la loro cura. Nel cervello di ogni singolo individuo gran parte del cablaggio riflette la storia e le circostanze particolari del nostro organismo. La mente operante in specifici ambienti culturali e fisici non è plasmata da un solo tipo di attività, e meno ancora dai soli geni: in questo assemblaggio continuo contano anche i contesti sociali e culturali. Questa caratteristica multidimensionale delle Neuroscienze fa sì che la scelta collettiva su questi temi non possa che essere il risultato di una molteplicità di posizioni e questo comporta il riconoscimento che la società è un sistema di interazioni tra gruppi e soggetti collettivi con progetti, prospettive e funzioni di utilità diversi e usualmente divergenti. In questa prospettiva diventa centrale comprendere quali sono le pratiche con cui le Neuroscienze realizzano la propria utilità sociale e le implicazioni che investono gli orientamenti culturali e le scelte politiche.

 

Note
[1] F. Crick, “The impact of molecular biology on neuroscience”, in Phil. Trans. R. Soc. Lond.B, 1999, n. 354, p. 2021.

 

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*Tratto dalla rivista Scienza & Società n.21/22 – “Mentecorpo. Il cervello non è una macchina