OGM e “Beni Comuni”: sono veramente in contrapposizione?

Alcune riflessioni in margine all’articolo di Alessandro Dal Piaz

Mi ero ripromesso di non intervenire più nella polemica sugli OGM, che ho definito fuorviante in un mio recente contributo. L’intervento di Alessandro Dal Piaz su “Città della Scienza” in merito a ‘OGM e Beni Comuni’ esce dai termini ormai usurati della querelle con nuove considerazioni, anche se non totalmente originali. Questo articolo mi offre quindi l’occasione per superare i miei propositi e condividere alcune riflessioni.


Provo a ripercorrere succintamente la tesi di Dal Piaz. L’autore parte dal riconoscimento della libertà di indagare dei ricercatori, ricorda che interessi economici o preconcetti ideologici possono influenzare l’impostazione e perfino gli esiti delle ricerche da essi intraprese, ed invoca quindi il controllo della comunità scientifica. La nota di Dal Diaz opera quindi una distinzione tra “naturale” in senso storico e OGM. Assumendo che i brevetti sono stati trasformati da protezione degli inventori in strumento monopolistico, e che ciò che è “naturale” (in senso storico) non è brevettabile, e quindi esente da logiche monopolistiche, conclude che gli OGM rappresenterebbero la strategia per scavalcare la non brevettabilità del “naturale” (in senso storico). Gli interrogativi conclusivi propongono di assegnare alle specie agro-alimentari “naturali” significato e portata di beni comuni e di sottrarli alla mercificazione, al fine di tutelare i diritti dei cittadini garantiti dalla Costituzione italiana.

Cominciamo col ragionare sulla libertà dei ricercatori e sull’autocontrollo della comunità scientifica. È questa una logica ormai superata dal dibattito in corso, come riconosce lo stesso Dal Piaz quando ricorda “l’obbligo di configurare, anche sul versante pubblico, ogni progetto come ricerca applicata finalizzata ad un esito produttivamente utilizzabile”. La ricerca scientifica e tecnologica non è più la mera attività intellettuale di pensatori, cui va riconosciuta piena libertà di indagare, ma il risultato di investimenti pubblici o privati, talora molto ingenti. È logico quindi pretendere che le ricerche intraprese siano volte a ottenere un beneficio per coloro che hanno investito, siano essi contribuenti (per quanto riguarda la ricerca pubblica) o azionisti (per quanto riguarda la ricerca privata).

 

Il contratto sociale su cui si è fondata la ricerca scientifica e tecnologica per larga parte del secolo scorso offriva ai ricercatori risorse pubbliche in cambio di risultati la cui attendibilità scientifica era garantita da meccanismi di autocontrollo della comunità scientifica. Il nuovo contratto sociale che si tende oggi ad adottare prevede che a fronte delle risorse pubbliche rese disponibili, i ricercatori debbano produrre risultati che siano non solo scientificamente affidabili (e qui la comunità può continuare ad esercitare le sue forme di autocontrollo), ma anche accettati dalla società come compatibili con i propri valori e rispondenti alle proprie aspettative. Si parla infatti di ricerca ‘responsabile’, nel senso etimologico della parola (responsum abilis = capace di dare risposte alle esigenze della società).

Passiamo adesso a considerare la distinzione tra “naturale” in senso storico e OGM. La querelle tradizionale contrappone il naturale (tutto ciò che non è OGM) all’artificiale, argomentando che non avremmo OGM senza l’intervento dell’uomo. Questa distinzione è facilmente criticata, considerando che piante ed animali oggi coltivati o allevati hanno ben poco di naturale, essendo il risultato di profondi cambiamenti operati dall’uomo. Basterà in questo senso citare i casi del mais e dei cani bassotti, talmente trasformati dalla selezione operata dagli uomini, da non essere più in grado di moltiplicarsi senza l’intervento umano. Dal Piaz allora introduce il concetto di senso storico: ciò che è stato modificato dall’uomo nel corso di secoli può essere assimilato al “naturale”, anche se non esiste in natura, mentre ciò che è stato modificato recentemente non potrebbe essere considerato come “naturale”. Viene qui spontaneo chiedere quanti anni siano necessari per passare da “artificiale” a “naturale”. I 25 anni trascorsi dall’ottenimento dei primi OGM sarebbero insufficienti, mentre lo sarebbero i circa 50 anni trascorsi dalla costituzione delle varietà che hanno dato luogo alla rivoluzione verde, o i circa 60 anni che si frappongono dall’ottenimento degli ibridi F1 di mais, o i circa 80 anni passati dalla costituzione delle varietà di frumento di Strampelli? In tutta onestà ci sembra che la storia offra pochi strumenti per discernere ciò che è “naturale” da ciò che non lo è.

 

Difatti, la costruzione logica presentata da Dal Piaz si incaglia quando si asserisce che non è brevettabile tutto ciò che è “naturale” e cioè le colture ottenute per ibridazione e selezione. Certo, il concetto di protezione della proprietà intellettuale, di cui i brevetti sono parte, si applica a ciò che è nuovo, identificabile e distinguibile, e non è quindi applicabile alle varietà già entrate in coltura. I diritti su qualsiasi varietà ottenuta per mezzo di ibridazione e selezione sono però proteggibili attraverso strumenti sui generis o mediante brevetto (a seconda dei Paesi). La maggioranza della varietà vegetali coltivate in Italia, comprese quelle ottenute da enti pubblici di ricerca, sono coperte da protezione dei diritti del costitutore. Non è quindi la brevettabilità che contraddistingue gli OGM da ciò che è “naturale”. Quanto poi all’affermazione che “lo specifico OGM risponde in buona sostanza al solo obiettivo di poter brevettare un prodotto diverso dall’originale per dettagli irrilevanti” ci sembra mettere in dubbio l’intelligenza degli agricoltori che sono disposti a pagare un sovrapprezzo per acquistare sementi di OGM. Le aziende agrarie sono imprese a tutti gli effetti, che obbediscono, come tutte le imprese, al principio edonistico.

Un’ultima riflessione sui beni comuni. Concordo certamente con l’auspicio che “i beni comuni costituiscano riferimento essenziale per governare il “mercato”, ma per fare questo sarebbe necessario puntare sulla ricerca pubblica con rinnovate politiche partecipative di programmazione, adeguati investimenti, moderni sistemi di gestione amministrativa, e reclutamento di un numero di giovani ricercatori che assicuri almeno la sostituzione dei vecchi scienziati in età di pensionamento. La polemica OGM sì, OGM no ci distrae dalla rivendicazione di questi obiettivi fondamentali per il nostro futuro, ma pervicacemente disattesi. Con la ricerca pubblica ridotta all’asfissia ci sembra vano rivendicare con Dal Piaz la “tutela dei diritti di cittadinanza garantiti dalla Costituzione”.